Il prossimo 7 luglio si terrà a
Hyde Park, Londra, un evento a dir poco imperdibile: il “40th Anniversary Concert” dei Cure.
Evento imperdibile non solo per il fatto che esso costituirà l’unico
appuntamento live che la band inglese
si concederà quest’anno in Europa, ma anche per lo stuolo di nomi di
prim’ordine chiamati a festeggiare i quarant’anni artistici di Robert Smith, ossia Interpol, Goldfrapp, Editors, Ride, Slowdive e Twilight: in
pratica un festival vero e proprio che
dal post-punk
revival sconfina gradevolmente nei domini dello shoegaze, genere che, insieme al post-rock, deve molto all’estro di mr Smith.
In verità i Cure, nella loro
grandezza, non hanno solo incarnato la quintessenza del movimento dark/gothic come oggi, stilisticamente ed
iconograficamente, lo conosciamo ma hanno costituito un fenomeno trasversale
nell’universo del rock, raggiungendo i
generi più disparati, fra cui ovviamente il metal. Non è un caso che spesso abbiamo trovato gli album dei Cure
negli scaffali dedicati al metal; non è un caso che di frequente abbiamo
ritrovato tracce di Cure in molte
band metal dedite a sonorità gotiche, post-metal o, in ogni caso, tendenti
all’introspezione (Type O Negative, Paradise Lost, Katatonia, Anathema, Alcest, Deftones, Jesu, giusto
per fare dei nomi). Senza dimenticare il “caso” della spiazzante cover di “A Forest” da parte dei blackster
norvegesi Carpathian Forest…
I Cure nascevano sul finire
degli anni settanta in quel crogiuolo di forze creative che si imponevano come
continuazione della rivoluzione punk. Se i Joy
Division sono comunemente considerati gli iniziatori dell’epopea dark (e lo
stesso Smith ammetterà di aver trovato in quella band una fondamentale fonte di
ispirazione), il suono dei primi Cure, che debuttavano discograficamente nel
1979 con “Three Imaginary Boys”, era
molto diverso da quello della formazione capitanata dal mai troppo compianto Ian Curtis. Fra suoni scarni, ritmi
incalzanti ed irrequietudini punk, nei primi brani dei Cure fiorivano guizzi
pop, ritornelli orecchiabili ed un piglio naif
che avrebbero fatto apprezzare i Nostri anche al di fuori dei confini di
settore. Quel debutto, forte di brani accattivanti come “10:15
Saturday Night” e “So What“, o
la stessa title-track (sbilenca ballata in cui potremo rinvenire i segni
di quel che seguirà), ci mostra senz’altro tre ragazzi acerbi ma con il fuoco
nelle vene e con già molte carte da giocare. Ad un neofita che volesse
approcciarsi a questa prima fase della carriera della band, consiglierei la
raccolta “Boys Don’t Cry” uscita a ridosso del debutto, dal
quale eredita la maggior parte dei pezzi in scaletta, con l’aggiunta di singoli
imprescindibili come “Killing an Arab”
o “Boys Don’t Cry”. Chi di noi, del resto, non si è ritrovato a
ballare questi brani almeno un sabato sera della propria vita?
Ma niente paura, o amanti dell’oscurità, ci penserà il
trittico di album successivi a condurci negli inferi della dark-wave più plumbea. “Seventeen
Seconds” (1980), “Faith” (1981)
e “Pornography” (1982) mettono da
parte il punk sguaiato degli esordi per farsi oscuro cerimoniale. I ritmi rallentano, i suoni si fanno algidi, le
atmosfere funebri, il canto diviene lamento, una eco lontana: Smith,
inequivocabilmente, darà voce alle inquietudini esistenziali di una intera
generazione di giovani fragili e in piena crisi di identità. Le creste
colorate, le borchie e le toppe sui giubbotti di jeans lasciano spazio ad un esercito di nichilisti di nero vestiti,
dai volti smunti, profonde occhiaie, trucco e folte capigliature spettinate: un
look, un’attitudine verso il mondo
che vedeva proprio in Smith un modello da seguire. “Play for Today”, “A Forest”,
“At Night”, “Seventeen Seconds” (dal primo), “The Holy Hour”, “Primary”,
“The Funeral Party”, “Faith” (dal secondo) sono canzoni che
setteranno i nuovi standard del mal di vivere espresso tramite il medium
della musica. Lungo questi solchi, si troveranno senz’altro a proprio agio i fan dei Katatonia.
Ma sarà con “Pornography” che
si toccherà davvero il fondo dell’abisso esistenziale sondato da Robert Smith:
il sound si farà ulteriormente
oppressivo, cupo e dilaniante, le distorsioni delle chitarre più ingombranti, e
brani come “One Hundred Years”, “Figurehead” o “Cold” sono saggi di autentico disagio urbano che possono
sinceramente appagare i gusti del metallaro più esigente. In particolare la
prima (con i suoi riff vorticosi e
l’incedere implacabile della sezione ritmica) e la terza (ammorbata da un
ottenebrante organo) potrebbe spiegare ad un metallaro dedito a sonorità
gotiche molte cose in merito alla genesi del proprio genere preferito.
Da ricordare che nel frattempo
la band si era consolidata su un assetto a tre che vedeva la presenza, accanto
a Smith, di Simon Gallup al basso e Laurence Talhurst alla batteria, musicisti
che hanno concorso in modo rilevante a forgiare il Cure sound: Gallup con il suo proverbiale basso arpeggiato (tecnica
rivoluzionaria che si rivelerà seminale), Talhurst con i suoi colpi secchi e
meccanici (alla stregua di una drum-machine).
Da ricordare che entrambi si destreggiavano alle tastiere per incupire
ulteriormente la scrittura minimale di Smith, diviso fra microfono, chitarre ed
ancora tastiere.
Ma il bello dei Cure è anche di
aver saputo cambiare pelle più volte nel corso della loro lunga carriera. Se
altri nomi fondamentali dell’universo dark come Bauhaus e Sisters of Mercy
devono tutt’oggi la loro fama ad un pugno di album (rilasciati nei primi anni
di attività), rimanendo legati a vita ad un sound
specifico, Robert Smith si è dimostrato un artista poliedrico, in grado di
maturare nel tempo, lasciandosi alle spalle certe intemperanze adolescenziali e
componendo, in un coerente mondo poetico, le sfaccettature più disparate della
sua tormentata interiorità. Del resto dopo un album estremo come “Pornography” il bivio non poteva che essere o morte o rinascita.
Sarà rinascita, anche se gli
LP appena successivi a questo “abisso” non saranno irresistibili (per lo meno
agli occhi del metallaro). “The Top”
(1984) e “The Head on the Door”
(1985), seppur apprezzati dai fan e trainati
da singoli di successo (“Shake Dog Shake”
e “Caterpillar” per quanto riguarda
il primo, “In Between Days” e “Close to me” per quanto riguarda il secondo), non
colpiscono nel segno come i lavori precedenti, mostrando sonorità eterogenee, percorrendo
da un lato inediti sentieri psichedelici, mostrando dall’altro sbalorditive aperture
pop. Con i loro toni a tratti distesi ed un sound
maggiormente fresco e frizzante (rispetto ai canoni che la band aveva espresso
fino a quel momento) essi rappresentano tentativi da parte di Robert Smith di
uscire dal vicolo cieco in cui si era cacciato, e come tali essi vanno visti:
figli di un periodo di transizione, con l’attenuante però che questi
esperimenti traghetteranno la band verso una splendida seconda parte di
carriera.
Da pop solare (ma pur sempre
venato di malinconia e fragilità) di “In Between Days” sembra scaturire “Just Like Heaven”, brano di punta del successivo
“Kiss Me Kiss Me Kiss Me” (1987), in
cui conviveranno momenti cupi (l’oscura e solenne opener “The Kiss”),
dolci ninnenanne (“Catch”), notturna
psichedelia (“If Only Tonight We Could
Sleep”) e sofferte ballate (“One
More Time”), con sprazzi di rock funkeggiante
ad urtare i nervi di chi nei Cure cerca/va esclusivamente malinconia. Sarà questa
mastodontica opera (circa un’ora ed un quarto di lunghezza) a definire il
paradigma che i Cure adotteranno nella fase successiva del loro cammino: album
lunghi, variegati, squarciati da tenebre ma al tempo stesso vivaci, ricchi di
luce, sorta di Zibaldoni esistenziali, specchio
della interiorità complessa e contraddittoria del grande Robert Smith: un
Robert Smith che non smetterà gli abiti neri del dark, ma anzi amplierà
l’universo stesso del dark piegandolo alla sua immagine, grazie non solo ad
ispirazione e creatività, ma anche all’autorevolezza che solo i grandi maestri
possono permettersi.
Il capolavoro “Disintegration” (edito nel 1989)
perfezionerà la formula. Peccato che esso sia conosciuto principalmente per il
singolo piacione “Lullaby” (corredato
da un video che farà epoca), perché in realtà il nuovo lavoro dei Cure (altro
tomo di oltre settanta minuti) è un fascinoso viaggio onirico dove le ultime asperità
ereditate dal passato vengono smussate nei loro angoli più appuntiti per farsi un
unico flusso di coscienza, elegante, a tratti barocco, ma incredibilmente
armonico e coerente nelle sue parti (da segnalare l’allargamento della
formazione a sei elementi). Ritmi per lo più solenni, corposi strati di
tastiere, sognanti chitarre e il caratteristico basso arpeggiato di Gallup
(imprescindibile ossatura per i nuovi lunghi brani composti dalla band, nonché
maestro per molti bassisti del metal a venire, come Duncan Patterson degli Anathema, Justin Chancellor dei Tool, Jeff Caxide degli Isis):
mai come adesso il sound dei Cure si
era rivelato così romantico e spudoratamente seducente. E brani memorabili come
“Plainsong”, “Pictures of You”, “Lovesong”,
“The Same Deep Water as You”, “Disintegration” sono gli episodi
cardine di un album che non conoscerà reali momenti di cedimento nonostante le
pantagrueliche dimensioni. Questi sono i Cure (con le loro melodie struggenti,
con il loro sforzo di introspezione, con le loro atmosfere magiche) che hanno
più ispirato l’universo metal, ovviamente nelle sue frange gotiche, ma anche in
quelle alternative.
Da un punto di vista visuale i
musicisti sono sagome in bianco e nero che si muovono, fuori tempo, in un mondo
coloratissimo. L’effetto (che si tratti di videoclip
o di esibizioni dal vivo) è straniante. A tratti (ma questa è una impressione strettamente
personale) trovo delle analogie con certi figuri oscuri del black metal, immortalati, con tanto di corpse-paint, in salotti rinascimentali,
fra candelabri, drappeggi e tendaggi assortiti.
Siamo quasi al crepuscolo
della parte virtuosa della carriera dei Cure, ma c’è ancora spazio per un altro
grande album: “Wish”, anno 1992. I
Cure approdano all’epoca del grunge barattando le tastiere con le chitarre, ma
il risultato non cambia: il gioco di squadra si rivela ancora una volta fondamentale
(vogliamo ricordare che il processo creativo nei Cure è sempre stato
democratico) e nella spiazzante alternanza fra brani malinconici con altri più
solari, si costruisce quell’equilibrio indefinibile che solo Smith ha saputo
raggiungere nell’epopea dark (e non solo). E così, a fare da contraltare a episodi
(apparentemente) scanzonati e dal flavour
fanciullesco come “High” e “Friday I’m in Love”, troviamo emozionanti
ballate come “Apart”, “A Letter to Elise” e “To Wish Impossible Things”. E se la
solenne “Trust” riscopre la sontuosità
dell’album precedente, l’irruente “From
the Edge of the Deep Green Sea” sfodera il lato più epico dei Cure, che ci
consegnano l’ennesimo capolavoro della loro imprevedibile carriera.
Il successivo “Wild Mood Wings” (1996), fra pop banalotto, verve funky, fiati e suggestioni latine (insomma, un bel pastrocchio minato da defezioni importanti e da una visione artistica decisamente non a fuoco), riscuoterà pochi consensi (i metallari ovviamente
dovranno evitarlo come la peste). Le cose andranno meglio con “Bloodflower” (2000), il quale, forte
del recupero di una irruente elettricità, costituirà un ponte ideale fra i suoni
laceranti di “Pornography” e la maestosità di “Disintegration”, insieme ai
quali, non a caso, costituirà una sorta di trilogia.
Siamo davvero giunti al capolinea: queste erano le ultime gocce (ad oggi) della vena artistica del guru
Smith. I successivi “The Cure”
(2004) e “4:13 Dream” (2008) rappresentano
appendici per nulla imprescindibili a quanto detto in precedenza dalla band.
Rimane per fortuna l’attività concertistica: questi concerti-fiume con in coda anche tre o quattro encore, scalette sempre diverse e dipendenti dall’umore del
momento di Smith, che intraprende tour
(se così li possiamo chiamare) solo se e quando ne sente il bisogno.
Purtroppo, amara conclusione
di questa dissertazione, non potrò andare al concerto il 7 luglio, in quanto
l’evento è da tempo irrimediabilmente sold
out. Mi consolo riandandomi ad ascoltare quel grandioso live-album che risponde al nome di “Paris”, targato anno 1993, la cui
scaletta pesca accuratamente dal repertorio più oscuro della creatura di Robert
Smith: pane per i denti del metallaro.
Se qualcuno ha vissuto su Marte negli ultimi quarant’anni, è severamente
pregato di passare da queste parti…
Playlist essenziale:
“Three Immaginary Boys” (“Three Immaginary Boys”,
1979)
“Boys Don’t Cry” (“Boys Don’t Cry”, 1980)
“A Forest” (“Seventeen Seconds”, 1980)
“Funeral Party” (“Faith”, 1981)
“The Figurehead” (“Pornography”, 1982)
“In Between Days” (“The Head on the Door”, 1985)
“Just Like Heaven” (“Kiss Me Kiss Me Kiss Me”, 1987)
“Lovesong” (“Disintegration”, 1989)
“Friday I’m in Love” (“Wish”, 1992)
“The Last Day of Summer” (“Bloodflowers”, 2000)
Playlist per metallari:
“At Night” (“Seventeen Seconds”, 1980)
“Seventeen Second” (“Seventeen Seconds”, 1980)
“The Holy Hour” (“Faith”, 1981)
“Charlotte Sometimes” (singolo, 1981)
“One Hundred Years” (“Pornography”, 1982)
“Cold” (“Pornography”, 1982)
“The Kiss” (“Kiss Me Kiss Me Kiss Me”, 1987)
“The Same Deep Water as You” (“Disintegration”, 1989)
“Apart” (“Wish”, 1992)
“From the Edge of the Deep Green Sea” (“Wish”, 1992)
“Watching Me Fall” (“Bloodflowers”, 2000)