Capitolo
4:
“TRIBUTE” (1987)
Questa
non è una recensione, ma il tentativo di descrivere una sensazione.
Potremmo tirare in ballo la nostalgia, la dannata nostalgia per
quell’era magica che il metal ha vissuto all’inizio degli anni ottanta. Io,
piuttosto, parlerei di tenerezza.
Prendiamo in esame lo scatto fotografico che fa da copertina a “Tribute”: ditemi voi se non è pregna di
tenerezza la posa in cui sono immortalati Ozzy
Osbourne e Randy Rhoads,
collaboratori, amici, protagonisti di un’epoca, culturalmente parlando,
irripetibile per il metal. Quei capelli scomposti e madidi di sudore (quando
Ozzy era ancora biondo e cotonato), quei volti sorridenti e il trucco sciolto,
quei corpi in tensione intrecciati in un abbraccio fraterno, sospesi in un
equilibrio precario che non impedisce al giovane chitarrista, sostenuto dal
folle cantante, di continuare a destreggiarsi con il suo strumento.
Una copertina che oserei
definire commovente, come commovente è il contenuto di questo documento live chiamato ad omaggiare la memoria di Randy Rhoads, uno dei
chitarristi più prodigiosi che il rock e il metal abbiano conosciuto.
Ozzy Osbourne è di diritto una delle icone più rappresentative del
metal, eppure, stilisticamente, l'ho sempre collocato più nell'hard-rock che
nel metal. Nei Black Sabbath era
l'elemento meno “metal” della formazione: fra la batteria elefantiaca di Ward, il basso ottenebrante di Butler, il rifferama rivoluzionario di Iommi,
l'eredità di Mr Osbourne come cantante è stata raccolta più che altro negli
ambienti stoner (e persino nella psichedelia e nello space-rock) o fra le band più
irriducibilmente doom, che accolsero
in modo aprioristico quella voce cantilenante pressoché incapace di edificare
ritornelli anthemici.
Nelle vesti di Madman
il suo “essere metal” si legava più al personaggio che alla sua musica: un modo
di essere eccessivo che andava ben oltre la trasgressione che da sempre caratterizza
il rocker. Il carattere più
propriamente metal si manifestava nelle pose orrorifiche (ostentate con
auto-ironia e ricercato gusto per il kitsch)
ed un alone “maledetto” ereditato dai trascorsi “oscuri” nei Sabbath.
Musicalmente parlando, Ozzy ha
sempre preferito soluzioni più vicine all’hard-rock, via via condite da quella
componente visionaria che da sempre appartiene alla sua personalità artistica.
Tecnicamente parlando non è mai stato un virtuoso, né può essere lontanamente
accostato a coloro che detteranno il modo
di cantare heavy metal (Ronnie JamesDio era indubbiamente più heavy metal, Rob Halford era, e lo è tuttora, l’heavy metal), soffrendo il Nostro di una “rigidità” che in un certo senso da
limite è divenuta nel tempo cifra stilistica e reale tratto distintivo.
Ma con un chitarrista
straordinario come Randy Rhoads,
anche l’arte di Ozzy si fece più sciolta, più agile, meno ingessata. Rhoads,
pilastro fondante nella fase di avvio della carriera solista dell'ex ugola dei
Black Sabbath, era un chitarrista che, per stile, potremmo ricondurre alla
scuola di Eddie Van Halen. Ma certo
l'estro del giovane californiano (approdato alla corte del Madman a soli ventitré anni, ma con già una gavetta importante nei Quiet Riot) non si fermava innanzi alla
brillante emulazione, ma sapeva spingersi ben oltre, pescando con disinvoltura
sia dal blues che dalla musica classica, finendo per forgiare uno stile
profondamente personale e che, se sviluppato adeguatamente, avrebbe potuto dare
molto di più al rock e al metal: una fantasia compositiva, un gusto melodico,
un fuoco nelle vene da vero istrione delle sei corde che ben sono rappresentati
figurativamente dalla mitica Polka Dot V
a coda di rondine, nera a pois
bianchi, anch’essa immortalata in quello scatto di cui si parlava innanzi.
Solo due album con Ozzy
("Blizzard of Ozz", 1980,
e "Diary of a Madman",
1981), e poi la morte improvvisa: il 19
marzo 1982 Randy Rhoads perdeva la vita in un incedente aereo. Non è
retorico dire che quel giorno il mondo della musica perse uno dei suoi più
talentuosi interpreti. Rhoads, infatti, non ebbe solo il merito storico di aver
supportato un genio instabile come Ozzy in uno dei momenti più difficili della
sua vita (appena dopo esser stato scaricato dai Sabbath, nel bel mezzo di una
depressione e funestato da dipendenze di varia natura). In questo senso egli fu
per Ozzy amico affettuoso, collaboratore paziente, musicista preparato, nonché
uomo misurato, estraneo ad eccessi di ogni tipo: insomma, l’antidoto ideale per
bilanciare le debolezze, la fragilità, l’inclinazione al rifugio nella droga e
nell’alcool, le carenze tecniche del Madman,
il quale avrebbe poi descritto il tempo trascorso con l’amico Randy come il
periodo più felice della sua vita, indicando il chitarrista come il più prezioso
compagno di viaggio nella sua lunga carriera.
Ma, si diceva, il funambolico Rhoads
non fu solo l’uomo giusto al momento
giusto. Al netto del suo effetto benefico sull’umore e sull’estro artistico
di Ozzy, seppe anche dispensare grandiosi saggi di chitarrismo illuminato: ritmiche incandescenti, improvvise fughe,
scale neoclassiche, tapping, bending, vibrato, un uso virtuoso degli
effetti, giochi di prestigio svolti alla velocità della luce. Insomma,
l’armamentario ideale per bilanciare la staticità vocale di Ozzy, che in Rhoads
trovò un alleato a lui più congeniale di quanto lo fossero stati Tony Iommi e
gli altri Sabbath.
Comprensibile che un genio
artistico di quella caratura incontrasse delle inevitabili limitazioni fra le
quattro pareti di uno studio di registrazione, e che dunque trovasse la sua
dimensione ideale sulle assi di un palcoscenico, dove il suo stile pareva
finalmente librarsi in volo senza più zavorre. Per questo il modo migliore per
ricordare Rhoads divenne proprio “Tribute”,
a lui dedicato, ma pubblicato cinque anni dopo la sua morte (esattamente nel
maggio del 1987), proprio per non dare l’idea che si volesse lucrare sul
tragico evento. Si tratta della registrazione di una esibizione tenutasi a
Cleveland in Ohio l’11 maggio 1981 con una scaletta imperniata principalmente
intorno al debutto, ma che da un lato anticipava due episodi di “Diary of a Madman” (che sarebbe stato
ufficialmente pubblicato qualche mese dopo) e che dall’altro non trascurava il
repertorio dei Black Sabbath (testimoniato con la riproposizione di “Iron Man”, “Children of the Grave” e “Paranoid”).
Ad onor di completezza, è necessario aggiungere che verranno inclusi anche due
brani dal primissimo tour dell’Ozzy
solista, registrati a Southampton il 2 settembre 1980, mentre l’assolo di “Suicide Solution” sarà estratto da una
ulteriore data (Montreal, 28 luglio 1981).
Forse penalizzato da una
registrazione sbilanciata e da una scaletta limitata alla sola primissima parte
di carriera di Ozzy (che in futuro, anche senza Rhoads, saprà rendersi autore
di un canzoniere di tutto rispetto: basti pensare a classici come “Bark at the Moon”, “Shot in the Dark”, “No More Tears”), questo documento live assolve alla perfezione il compito
all’epoca prefissato, ossia quello di evidenziare il talento del chitarrista,
contornato per l’occasione da comprimari di tutto rispetto: Rudy Sarzo al basso, Tommy Aldridge alla batteria e il
mitico Don Airey alle tastiere (Bob Daisley e Lee Kerslake, rispettivamente a basso e batteria, compariranno
invece nei due brani registrati a Southampton).
Momenti topici rimangono
senz’altro la bellissima “Mr. Crowley”,
con le sue prelibatezze solistiche, e l’assolo di “Suicide Solution”, ma tutto in realtà è leggenda in questo live, a partire dall’apertura affidata
alle orchestrazioni epiche del celebre tema di “O Fortuna” (dai “Carmina
Burana”), presto interrotte dal roboante ingresso di Ozzy (“Are you ready to rock’n’roll????!!??”),
per finire in bellezza con la chicca acustica “Dee” e i suoi “fuori onda” (si tratta di una versione in studio in
cui si può sentire la voce del chitarrista che esprime la sua insoddisfazione
per la resa del pezzo): un momento di grande umanità (non a caso dedicata alla
madre) ideale epilogo per questo manifesto che in ogni sua aspetto si tinge di Mito.
In mezzo troveremo tutte le
innumerevoli sfaccettature dell’estro chitarristico di Rhoads (fra ritmiche
travolgenti ed assoli di gusto sopraffino), estro che avrà modo di imporsi
persino nei classici dei Black Sabbath: si ascolti come viene stravolta,
arricchita di colori, “Children of the
Grave”, e come, soprattutto, l’intemperanza di quelle sei corde riesca ad
incunearsi persino nei due minuti iconici di “Paranoid”. Laddove nello stesso periodo Ronnie James Dio faticava a
riportare sul palco i classici dei Sabbath dell’era Ozzy, Rhoads conduceva a
nuova vita quei medesimi brani, togliendo loro, in un simbolico passaggio di
consegne generazionale, la dura scorsa settantiana,
per animarli di un inedito dinamismo e riverniciarli con quella gioiosa
tracotanza che era propria dell’hard rock degli anni ottanta.
Senza nulla togliere
all’immenso Tony Iommi, padre di ogni chitarrista metal (e comunque dallo stile
profondamente diverso), Rhoads dimostrò una maggiore affinità con le
caratteristiche di Ozzy, sia come artista che come persona, tanto che sulle
basi gettate dai primi due album (indubbiamente i migliori del sul percorso
solista) il Madman imposterà la
produzione discografica successiva, almeno per tutti gli anni ottanta: un patto
artistico fra due personalità enormemente diverse che si reggeva su un
equilibrio dinamico, precario, prodigioso, che è tale e quale quello che fonde
i due corpi ritratti in copertina.
Randy
Rhoads (1956 - 1982) per sempre nei nostri cuori.