Lettera aperta ad Alexander von Meilenwald, leader e factotum dei superbi The Ruins of Beverast!
Caro Alex,
come stai? Scusa se ti rompo le palle scrivendoti. Tu ovviamente non mi conosci e io non conosco te. Cioè, forse è meglio dire che, come artista, non ti conoscevo fino a poco tempo fa.
Grave pecca, lo so, essere
all’oscuro fino al 2017 dei Ruins of
Beverast (a proposito: monicker stupendo, band name del millennio!), visto
che sei in attività da quasi 15 anni. Sai com’è però…lavoro, figli,
commissioni, bollette da pagare, scadenze da ricordare…da semplice appassionato
di metal, e scribacchino in rete a tempo perso, non ho più il tempo,
l’attenzione e la costanza, come quando ero ragazzo, per inseguire tutte le
band che nascono ogni anno nel vastissimo mondo metallico. Insomma, spero tu mi
capisca.
Ma ciò che conta è che, dopo aver
consumato la tua ultima fatica, “Exuvia”,
lo posso dire: cosa mi stavo perdendo! Cazzo, che album Alex! Era da tempo che
non ascoltavo qualcosa di così coinvolgente, originale, brillante, vario,
intelligente. Nella musica di “Exuvia” c’è davvero (di) tutto: visione,
potenza, epicità, atmosfera, forza, eleganza. Tutto legato assieme da capacità
compositive altissime, ecc, ecc. insomma, tutto quello che già il nostro
Mementomori ha scritto sull’atmospheric black metal, lodando, a ragione, in
quel post tutta la tua discografia.
Senti, passiamo al punto: ti
scrivo non tanto (o meglio, non solo) per farti i complimenti. Per quello è
bastato il post succitato. E neppure per ringraziarti per le emozioni che mi
stai dando da quando ho inserito nel lettore cd “Exuvia” (cd che fa fatica a
uscire dal lettore stesso…). No, ti scrivo…per sfasciarti un po’ gli zebedei! Sai
com’è: noi poveri rompicoglioni della rete cerchiamo sempre il pelo nell’uovo.
E allora permettimi, in tutti questi elogi, una piccola domandina tendenziosa.
Quando ho preso il CD, guardando
la copertina, mi immaginavo sì qualcosa di esoterico, ipnotico, ancestrale (tutti
aspetti peraltro che ho ritrovato nei 67’ di musica), ma che fosse collegato al
tema della copertina! Cioè, ai Nativi Americani. E invece ‘na mazza. Cioè, qualche
canto pellerossa buttato lì (ellaejaellaeja) , quasi a spregio, all’inizio e
alla fine della title track (ma quanto è bella la title track?!?), qualche
gorgoglio sciamanico ancora all’inizio e alla fine di “Towards malakia” e della
conclusiva “Takitum tootem (trance)” e stop. In tutto pochi secondi che,
nell’economia del sound, c’entrano come i cavoli a merenda e non aggiungono
nulla ai contenuti veri dell’album. Non
che questo mi dispiaccia, anzi…il sound, nel suo riuscire in modo naturale a
creare “mondi” e suggestioni di diverso genere, non aveva assolutamente bisogno
di recuperare anche ambientazioni da prateria del Far West…(ci bastano invece
le europeissime cornamuse della sensazionale “The Pythia’s pale wolves”, per chi scrive top song del disco).
Ad ogni modo: non essendoci
nessun rimando ai Natives nella musica, mi sono allora andato a leggere i
testi. E anche lì, nisba. Parli della Madre
Terra (Gaia), dei Vanir (le
antiche divinità nordiche collegate alla fertilità, alla saggezza e alla
Natura); di Maere, gli spiriti
maligni del folklore germanico, e poi salti a Pythia, l’Alta Sacerdotessa del tempio di Apollo a Delfi. E anche
nella finale “Takitum Tootem”, dove uno finalmente si aspetta che parli di roba
indiana visto che c’è il termine “to(o)tem” nel titolo, in realtà cosa scopro?
Che Takitum Tootem non è lingua antica dei nativi americani, ma…estone! 'ca miseria,
Alex…estone…e che vuol dire più discreto, più umile. Tant’è che il fulcro del
testo è il complesso tema dell’hubris
greco, cioè il termine col quale si indica il pericoloso orgoglio che
l’Uomo spesso fa sfociare in arroganza e troppa sicurezza di sé (argomento
peraltro iper complesso, associato persino alla caduta di Lucifero e della sua
caduta agli Inferi).
Ora mi chiedo? Non è che questa
copertina, peraltro di dubbio gusto, è solo uno specchietto per le allodole? Non
è che l’hai messa in mezzo per attirare l’acquirente? Sai, l’Indiano d’America,
(at)tira sempre, nel cinema come nella letteratura, nella pittura come nella
musica. Magari hai pensato: sbatto in
copertina un bel demone/Capo Tribù evocato da un rito tribale sullo sfondo, con
tanto di spiritello a forma di serpente che esce fuori dalle fiamme del falò, e il metallaro medio si intriga a pensare a strane commistioni stilistiche e mi compra il dischetto…
Insomma, il mio vuole solo essere
un piccolo consiglio da reale estimatore della tua arte: per la prossima
copertina non tirare fuori immagini che non c’entrano niente con la tua musica.
Magari capisco che un castello avvolto nella nebbia che si affaccia su un
dirupo potrebbe essere una cover un pochettino consunta in ambito extreme
metal. Ma la proposta è così fottutamente mittleuropea che per la prossima
cover ci vedrei bene un bel lupo della “tua” Foresta Nera…sarebbe più
coerente!
Con stima, Morningrise