Paese di Owen, Baden Württemberg, 3500 anime nel sud della Germania.
A distanza di 7 anni esatti (era
il 25 marzo 1995), Eric Clayton riporta in scena nello stesso luogo i Saviour Machine.
Se escludiamo l’introvabile
collezione “Rarities/Revelation” del 2006 (oltre 5 ore di materiale mai
rilasciato e stampato in sole 500 e rotte copie) e il fantomatico “Legend III.II”, su cui già avevamo dissertato, questa è l’ultima testimonianza della band
americana.
Oggi vi ritorniamo perché ai SM continuiamo a voler bene e, periodicamente, andiamo a riascoltare la loro
discografia.
Memori proprio di quel bellissimo
“Live in Deutschland 1995”, forte di una scaletta invincibile, composta dai
classici dei primi due capolavori (il debut omonimo e “Saviour Machine II”, rispettivamente
del 1993 e del 1994), ci approcciamo a questo live con una duplice
consapevolezza: quella di assistere a un qualcosa di unico, un concerto sui
generis, a metà tra rito religioso e spettacolo teatrale, ammantati dalla
musica composta da Erica Clayton; ma anche quella di sapere bene che ormai i SM
non sono più una band ma una creatura a immagine e somiglianza del suo deus ex
machina.
E infatti, le aspettative vengono
confermate dalla visione del concerto che pesca solo e soltanto dalla saga di
Legend, inserendola visivamente in un’ambientazione molto suggestiva.
L’armamentario scenografico è effettivamente notevole, semplice ma potente nel
trasmettere emozioni forti. Palco sormontato da lunghe e pesanti catene che si
incrociano, parossistici giochi di luce (spesso a tinte rosse…), paramenti
chiesastici, ceri accesi…attenzione, qua non siamo di fronte a pacchianità e
kitchaggini assortite. Qui è tutto sentito, è tutto parte di un progetto e di
un modus operandi che nasce da uno studio e da riflessioni profonde filosofico-esistenziali. Non vi svelerò come Eric, durante l’interpretazione dei brani, utilizzerà
tutto questo. Starà agli interessati scoprirlo, ma sappiate che nulla è
lasciato al caso.
Passando alla musica: abbandonato
ormai dal fratello Jeff (sostituito egregiamente dal session svedese Carl Johan
Grimmark) ma coadiuvato dai due fedelissimi della prima ora, Charles Cooper al basso e Nathan Van Hala alle tastiere, e
avvalendosi di un five-pieces d’archi e 7 coristi, Eric porta in scena il suo
grande “figlio”, quell’opera magna per cui ha lavorato per una vita (la saga di
Legend, appunto). Si gioca molto sui crescendo emozionali (vedasi l’incredibile
accoppiata “The invasion of israel” – “World War III”); crescendo nei quali ha un
ruolo fondamentale la batteria di Thomas Weinesjö, che dona al sound una marzialità diffusa e continua.
Ma la musica da sola non rende
l’idea: i risvolti religiosi (nell’ottima “The promise”, ad esempio, non ci verrà
risparmiato l’elenco di tutte le tribù d’Israele) e politici sono continui e
Eric non usa mezzi termini per veicolare i suoi messaggi. Vedremo così una
bandiera dell’ONU campeggiare in mezzo al palco e sulla quale il Nostro
dipingerà la scritta simbolo del suo fallimento istituzionale (“no order”), per
poi, durante la marzialissima “The beast” (quasi 10’ di incedere
percussionistico), darle fuoco…Nemmeno mancherà il riferimento al conflitto in
Medio Oriente: Clayton intinge le bandiere israeliana e
palestinese in una brocca piena di liquido rosso per poi tenerle alte e
appenderle alle suddette catene che scendono dall’alto. E si potrebbe
continuare con gli esempi…
In tutto questo, gli altri membri
della band, da un punto di vista scenico, sembrano essere lì come appendici dello spettacolo di Eric,
monoespressivi, fermi come delle statue di cera. Ma ciò che colpisce ancor di
più è l’atteggiamento del pubblico, completamente ammaliato dal rito che si
produce in scena. I volti sono a metà tra l’estatico e l’inespressivo.
Tantissime facce occhialute da nerd seguono i movimenti sciamanici di Eric e
l’effetto che si produce in questi momenti è molto emozionale (da vedere l’accoppiata
“Four trumpets” + “The locust”); momenti che troveranno una loro catarsi eruttiva solo nelle
conclusive “Legend I.I” – The Lamb” e nell’encore “American babylon”, 20 minuti totali di un’intensità pazzesca.
Un live quindi che esprime tutta la
grandezza e al contempo i limiti di un progetto del genere, totalmente
autoreferenziale. Se fino a “Saviour Machine II”, la band riusciva ad esprimere
un sound vario, sfaccettato, dark e progressivo, da quel fatidico 1997 e
l’uscita del primo tomo di “Legend” i SM sono divenuti una creatura personale
di Eric, piegando la magniloquenza del loro sound al concept che il Nostro ha
sviluppato. Portando il tutto a livelli inimmaginabili sia da un punto di vista
del concepimento che della realizzazione.
Soprattutto a partire da “Legend II”
(1998) sfido il fan più indefesso della band a distinguere, come anche in questo live, i
brani l'uno dall’altro senza avere sott’occhio la tracklist. Impossibile...
Questo perchè i Legend sono un unico, immenso mosaico, di
fatto con la stessa colonna sonora, un mid-tempo dark/doom progressivo; e questo live corrispettivo è conseguentemente una sorta di
unica canzone della durata di 130’ (sic!).
Uno show per Eric estenuante. Così come per noi spettatori che, per l'infinita stima che riponiamo in lui, ce lo siamo sciroppato dall'inizio alla fine...