I lettori di Metal Mirror sanno che è nostra consuetudine, il giorno di Ferragosto, parlarvi di artisti non proprio balneari. Quest’anno, riflettendo su qualcosa di veramente oscuro da poter trattare in questa occorrenza che più estiva non si può, fra spiagge gremite e gavettoni che esplodono in ogni dove, ci sono balenati nella testa gli svizzeri Darkspace, realtà di cui non si sente parlare da qualche anno (l’uscita del loro ultimo lavoro in studio, “Darkspace III I”, risale al 2014).
Chiariamo subito che non è stata una nostra imprecisione aver utilizzato nel titolo l’espressione “in uno spazio scuro” al posto di “nello Spazio oscuro”: sappiamo infatti benissimo che il monicker “Darkspace” non si riferisce ad un generico spazio/area/zona, ma allo Spazio inteso come Universo/galassie/pianeti ecc. Il fatto è che, in questa giornata assolata, abbiamo voluto penetrare nella più profonda essenza della musica dei Darkspace: l’oscurità.
Tutto il black metal, in verità, può essere definito come musica oscura. Una oscurità che spesso si è ottenuta scavando: scavando nell’Occulto, scavando nella natura ancestrale dell’uomo, scavando negli abissi dell’inconscio. In altre parole, ci si è calati, tramite il medium espressivo del black metal, in quell’insieme di forze oscure che ci governano, oltre la nostra consapevolezza, oltre la nostra volontà. Dal satanismo all’esoterismo, dal paganesimo al folclore, dalle correnti romantiche alla filosofia esistenzialista, sostanzialmente il black metal, sotto le mentite spoglie della devozione al Male, non ha fatto altro che cercare di trascendere l’Esistente. E laddove il death metal si è fermato alla morte fisica, il black ha sempre nutrito ambizioni spirituali.
L’idea dell'Universo come dimensione esplorativa per il black metal non è ovviamente una invenzione dei Darkspace, che si sono affacciati sul mercato discografico solo nel 2003. Potremmo dire che, già in tempi non sospetti (correva l'anno 1992 ed usciva il primo album a nome Burzum), Varg Vikernes sfiorava l’argomento con il brano “My Journey Through the Stars”. Dal punto di vista stilistico, tuttavia, furono forse gli Emperor i primi a creare una correlazione diretta fra “vastità siderali” e black metal: basti pensare a come si sposasse bene la loro magniloquenza sinfonica con le immagini suggerite dal testo di “Cosmic Keys to My Crations and Times” (da “In the Nightside of Eclipse”, anno 1994). E’ importante però precisare che il riferimento all’infinità del Cosmo veniva collegato al superamento dell'Io (“I will realise I existed before myself”, chiosava il testo di Mortiis). Gli Arcturus nello stesso anno rilasciavano l’EP “Costellation”, sancendo istituzionalmente il legame fra la profondità dell’anima e quella dell’Universo, e sempre ricorrendo, in ambito black, a soluzioni progressive. Due anni dopo, nel 1996, le intuizioni di Emperor ed Arcturus sarebbero state innalzate a standard grazie all’operato di una nuova band, i Limbonic Art, i quali debuttavano con “Moon in the Scorpio”. Tornando di colpo ai Darkspace, sicuramente i Nostri saranno stati influenzati in qualche modo dai conterranei Samael, che sempre nel 1996 davano alle stampe “Passage”, album della svolta industrial, nonché preambolo di una avvincente seconda parte di carriera lanciata fra stelle e pianeti.
Da notare che in tutti questi casi (quelli indicati non sono certamente gli unici) raramente si approdava alla fantascienza intesa come “saga spaziale in stile “Star Wars” (fu questo, per esempio, il caso dei Covenant – poi costretti a cambiare il nome in The Kovent per ragioni di copyright – che nel 1998 avrebbero dato alla luce l’avventuroso “Nexus Polaris”). La vocazione spirituale del black metal tendeva giustamente a rifuggire da certe pagliacciate, riportando sistematicamente l'idea di Universo ad una visione filosofica, proprio come avevano fatto certi capolavori filmici quali “2001: Odissea nello Spazio” di Stanley Kubrick e “Solaris” di Andrej Tarkovskij.
In queste forme d'arte la cosa che accomuna Spazio e Umano è essenzialmente l’Ignoto, ossia la quasi certezza che tali entità esistano ma che difficilmente le comprenderemo con le categorie del nostro pensiero. Qualsiasi artista che si è voluto confrontare con le forze oscure che animano la sfera esistenziale umana ha cercato di localizzare le proprie “argomentazioni” in luoghi metafisici che rispecchiassero quella medesima incapacità di comprensione. Quando Herman Melville, per esempio, scriveva “Moby Dick” (tutt’altro che un romanzo d’avventura), i cetacei erano considerati alla stregua di mostri mitologici, figure astratte descritte nei rapporti vaghi e pittoreschi degli esploratori. Questo clima di indeterminazione aiutava lo scrittore a suggestionare il lettore e a calarlo in un mondo di simbologie per affascinarlo, ma anche a veicolare con maggiore efficacia, tramite vivide metafore, il proprio messaggio poetico. Laddove il pianeta Terra, grazie al progresso dei mezzi di trasporto e di comunicazione, sembra oggi non avere più segreti ai nostri occhi, lo Spazio rimane per lo più imperscrutabile, nonostante i notevoli passi avanti compiuti dalla Tecnica. Lo Spazio coincide con l’Ignoto e ha la caratteristica fondamentale di essere infinto, offrendo vastissime potenzialità di esplorazione: per questo motivo, fra tutti i sotto-generi del metal, l’impalpabile black rimane la chiave di accesso più adatta per accedervi.
I Darkspace, per esplicitare questa loro volontà di ricerca esistenziale tramite la metafora dello Spazio, non avevano bisogno di ancorarsi esplicitamente a “2001: Odissea nello spazio”, frequentemente citato nei loro lavori. Non ne avevano bisogno perché suonano black metal e per questo il loro intento era evidente senza bisogno di didascalie. Del resto non ritroviamo nelle loro caotiche composizioni l’eleganza, le simmetrie, l’attenzione al dettaglio, la perfezione plastica del cinema kubrickiano. Laddove in Kubrick astronavi ed astronauti oscillavano nello spazio cullati dalla musica dei grandi compositori classici, nell'universo artistico dei Darkspace non esiste armonia, se non una lontana eco di melodia rifratta nei mille specchi neri di cui si compone la loro musica. Non vi sono concreti punti di contatto formale fra le due concezioni artistiche: l’unica intersezione si ha forse nella celebre “sequenza psichedelica”, sorta di "iper-spazio ante litteram" che conduce alla scena finale di "2001: Odissea nello spazio": un “corridoio di luce” realizzato con la tecnica dello slit-scan che, tramite la deformazione/schiacciamento dell’immagini, ha come intento quello di generare un effetto tunnel. Ad un qualcosa di analogo, seppur ottenuto tramite l’impiego di sole tinte scure, giunge la musica nerissima (in tutti i sensi) dei Darkspace, fautori di una esperienza destrutturante che stranisce l’ascoltatore, facendogli perdere i riferimenti spazio-temporali, un po’ come accadeva in certe suite dei Van Der Graaf Generator.
Ma qua non si parla del linguaggio del prog: tre voci (fra cui una femminile, se riuscite a riconoscerla...), due chitarre, un basso, tappeti di tastiere a go go ed una sparatissima drum-machine sono le "attrezzature" che il trio svizzero decide di caricare sull’astronave prima di decollare e lanciarsi nello spazio per un viaggio sicuramente senza ritorno. Il risultato è un black intensissimo che, continuando a guardare alle lezioni dei maestri Mayhem ed Emperor, cerca di estendersi, di farsi ancora più inafferrabile, fino ad assumere, nella forma come negli intenti, dei connotati ambient. Come se in effetti la monumentalità dei gruppi appena citati venisse deformata, risucchiata e frullata nella vorace centrifuga di una buco nero (entro il quale tutto cambia). Il miracolo compiuto dai tre svizzeri è quello di scrivere una sorta di nuovo “In the Nightside Eclipse” in salsa sci-fi caratterizzato da un magma di suoni cacofonici ancora più impalpabili: composizioni lunghissime e dall’incedere disorientante, riff che brillano di melodie bellissime, avvolgenti fraseggi doom, improvvise virate thrash, magniloquenza marziale, oasi di kosmische musik, il tutto scandito da pattern ritmici disumani a cui possiamo attribuire le funzioni più svariate, ma certo non quella di dettare l’andamento dei brani, i quali si muovono con dinamiche decisamente non canoniche (si è detto che siamo dentro ad un buco nero, no?).
Lo stesso impiego delle tre voci (un accavallarsi di screming laceranti, sussurri ed oscuri recitati) rende la parola nella musica dei Darkspace un qualcosa di poco codificabile, utile più nel suo significante che nel suo significato: non altro che un ulteriore componente suggestionante da aggiungere al coro stordente delle altre suggestioni (ecco perché risulta coerente l’idea di identificare album e brani con una mera numerazione progressiva; ecco perché, invece, non ci sembravano indispensabili i campionamenti tratti da “2001: Odissea nello spazio”). I risultati sono brillanti e nel corso dei quattro album, la proposta dei Nostri, oltre ad essere particolarmente originale, si è rivelata difficilmente emulabile, in quanto sono necessari talento ed ispirazione davvero rari per rendere fruibile, se non accattivante, un caos di tal fattispecie.
Alla stessa maniera in cui, nella scena sopra citata, Kubrick deformava le immagini al fine di trascinare lo spettatore in un viaggio oltre i confini del Conosciuto (e di questo ne avremo la certezza nella memorabile scena finale del film), i Darkspace compiono, con la loro musica inafferrabile (un lungo e spesso fascio di luce nera proiettata in luoghi altrettanto oscuri), uno scavo metafisico che intende condurre l’ascoltatore in quel famoso abisso profondo che da sempre è prerogativa del black metal: uno spazio scuro prima ancora che lo Spazio oscuro in sé.