“Saw You Drown”, “Teargas”, “Evidence”: questi non sono i miei brani preferiti dei Katatonia, ma quelli che mi sarei umilmente aspettato come “indispensabile minimo sindacale”, mettendo insieme e confrontando le scalette dei loro concerti negli ultimi anni.
Non c’era da aspettarsi un succulento greatest hits perché si sapeva che gran parte del set sarebbe stato occupato da “Night is the New Day”, il cui decennale viene celebrato proprio in occasione del presente tour. Ma purtroppo nemmeno questo misero pugno di brani si materializzerà sul palco, nemmeno questa piccola soddisfazione ci è stata concessa, a noi che da una vita seguiamo la band e che da mesi avevamo comprato i biglietti nella speranza di coronare un sogno.
Oltre a “NITND” verranno presentati solo quattro brani extra, fra cui nessun classico, tre episodi della produzione recentissima e una cover dei Judas Priest (ma perché poi?).
Capisco che una band che si è evoluta nel corso degli anni oggi non si possa più riconoscere nel repertorio di qualche mutazione fa, e questo è sicuramente il caso dei Katatonia. Una domanda tuttavia sorge spontanea: ma sono gli artisti che devono rispettare il loro pubblico eseguendo i classici che li hanno resi popolari, o sono i fan che devono comprendere le esigenze dei propri beniamini, che magari non hanno più voglia di suonare il materiale di qualche anno prima?
Una tale negazione del passato la posso perdonare agli Anathema, che perlomeno, se non suonano più i classici, almeno fanno concerti lunghissimi e si vede che ci mettono davvero il cuore. La posso perdonare anche agli Ulver, che cambiano stile ad ogni album e i vecchi brani metal manco li sanno suonare. Non la posso perdonare ai Katatonia, che ogni sera di questo mini-tour celebrativo hanno suonato la stessa risicata scaletta, nella sempre più comune concezione secondo cui si timbra il cartellino guardando l’orologio.
Che i Katatonia vivessero una fase di disorientamento non è un segreto, tanto che è la band stessa ad ammetterlo: fermi discograficamente al 2016, ad un passo dal dissolvimento, spunta l’idea di rieditare “NITND” e di riportarlo sul palco. Cosa che peraltro potrebbe anche avere senso: in fondo l’album del 2009, che all’epoca fu accolto fra i mugugni (si aveva ancora in bocca il sapore del capolavoro “The Great Cold Distance”), sancì l’inizio di una nuova fase (l’ennesima) per la band svedese: i Nostri, a quel giro, si mostrarono infatti interessati ad avvicinarsi ai cugini Opeth e tentare un approccio più progressivo e melodico, dopo la fortunata svolta “modernista” di “Viva Emptiness” e “The Great Cold Distance”. Seguirono “Dead End Kings”, “Dethroned & Uncrowned” (costola acustica del precedente tomo) e “The Fall of Hearts”, non altro che lo sviluppo certosino delle intuizioni introdotte da “NITND”. Quale miglior soluzione per una crisi, dunque, se non tornare sul luogo del delitto ed abbeverarsi alla originaria fonte di ispirazione?
Quello però che ho dovuto fare io alla vigilia del concerto è ascoltare l’album per intero. Già ai tempi, infatti, non seguivo più i Katatonia. E cosa scopro oggi ascoltando "NITND"? Che è un bellissimo album e che in fondo un album dei Katatonia vale l’altro: anche “NITND”, infatti, presenta i tipici pregi e i difetti della band, con i consueti bei brani che si alternano agli immancabili filler che sanno di poco. E se è vero che i Katatonia rimangono una "band da best of", è ancor più vero che a contare è quel linguaggio che seppe rivoluzionare il gothic metal: la voce dolente di Jonas Renkse, le melodie dettate dalla chitarra di Anders Nystrom.
Con queste convinzioni mi sono presentato guardingo all’Islington Assembly Hall, al cui esterno si snoda una lunghissima fila dove sono rappresentate tutte le generazioni che la band ha saputo attrarre nella sua storia quasi trentennale: dal metallaro vecchia maniera con la maglietta raffigurante il vecchio logo dei Katatonia (quando ancora erano circoscrivibili nel perimetro del doom-metal) alla ragazza giovanissima in succinti abiti in pelle nera, irretita dalle sonorità goth-rock degli ultimi anni.
Qualche minuto dopo il mio ingresso nel locale, sale sul palco il primo gruppo: i Wheel. Mi hanno sempre fatto un po’ di tenerezza quei gruppi minori che nessuno conosce e che aprono umilmente le serate costretti a muoversi nel risicato spazio fra la strumentazione ingombrante e la scenografia degli artisti successivi (dietro è già appeso lo stendardo dei Cellar Darling). Ma questo non pare essere un impedimento per i Wheel, la classica band che ti conquista con la sola forza della propria musica. Dopo aver ascoltato un paio di loro brani su Youtube, avevo liquidato i finlandesi come i Tool de' noantri, e in effetti i musicisti sul palco suonano esattamente come i Tool, ma senza Keenan alla voce, Chancellor al basso e Carey alla batteria (vabbè, la chitarra di Jones è assai replicabile). Con il trascorrere dei minuti mi dovrò tuttavia ricredere e rivalutarli. Quello dei Wheel è neo-progressive con i controcazzi: dinamico, energico, tentacolare, ma con quello slancio introspettivo che possiamo oramai attribuire alla visione artistica del guru Steve Wilson. Nella loro mezzora a disposizione, i Nostri inanellano un quartetto di brani mozzafiato, fra cui possiamo eleggere la trascinante "Tyrant" come momento migliore della serata (Katatonia inclusi, tanto per essere chiari fin dall'inizio).
Alla perizia tecnica ed al gusto compositivo, si aggiunge la spinta trascinante del singer/guitarist James Lascelles (un intenso pulito il suo, rotto qua e là da grida prolungate all’inverosimile – sempre in stile Keenan), che farà di tutto per coinvolgere il pubblico. La traccia omonima, “Wheel”, pone il sigillo finale ad una esibizione decisamente in crescendo, confermando la validità della band da tutti i punti di vista: di composizione, di esecuzione e di intrattenimento, tanto che, a finito il concerto, non potrò fare a meno di stringere la mano a Lascelles allo stand del merchandising. Più che una premessa per il futuro, i Nostri sembrano un ottimo punto di arrivo per il metal contemporaneo: ci auguriamo che possano trovare la loro strada e raccogliere quel che meritano, a patto che sappiano recidere il cordone ombelicale che li lega ancora a Keenan e soci.
E’ il turno dei Cellar Darling, band svizzera catalogata come folk-metal. Ascoltando qualcosa di loro in rete mi ero reso tuttavia conto di quanto tale definizione fosse fuorviante, suggerita dal fatto che la cantante Anna Murphy (ex Eluveitie) suonasse anche il flauto traverso e uno strano marchingegno a manovella (una ghironda, per l’esattezza). Come da mie previsioni gli elvetici ci inondano immediatamente con un gothic-metal assai canonico (primi Gathering, per avere un’idea), impreziosito da graditi spunti progressive e dall’ugola potentissima della Murphy, che come timbrica ricorderà non poco la divina Anneke Van Giersbergen (e non a caso verranno più volte in mente i VUUR, nuovo progetto della dea olandese).
La ragazza (classe 1989) non vanta una grande presenza scenica (minuta, semplice nel look come nei modi), ma saprà conquistare la platea con una sentita performance vocale, caratterizzata da sentimento, convinzione e la potenza che appartiene di diritto ai giovani. Anche qui la proposta non è particolarmente originale, ma la band sa dispensare emozioni con la forza dei proprio repertorio, da cui emergono l'epica “Death”, dal ritornello immediatamente memorizzabile, e “Redemption”, chiamata a concludere le danze dopo circa tre quarti d'ora dall'ingresso sul palco. Meritati sono i calorosi applausi che il pubblico dedica a questa giovane formazione. Solo il tempo ci dirà se i Cellar Darling saranno i nuovi Epica; quello che possiamo affermare oggi è che la sostanza c’è: vi è solo bisogno di maggior coraggio nel ricercare una formula che li faccia emergere dal calderone del sempre più inflazionato metal al femminile e che, of course, rifugga dalle lusinghe del mercato e dal rischio di appiattirsi sul sound mainstream dei soliti Evanescence e Lacuna Coil. Da tenere d'occhio.
Dei Katatonia, invece, non vi è molto da dire, visto che, per quanto li riguarda, tutto si è concretizzato esattamente come ci si poteva aspettare. Un’ora ed un quarto di concerto (applausi inclusi) per riproporre “NITND” per intero, più una manciata di brani che, come si diceva, vanno a rappresentare il passato recente della band (“Lethean” da “Dead End Kings”, “Old Heart Falls” da “The Fall of Hearts” e “July” da “The Great Cold Distance”), più la cover dei Judas Priest “Night Comes Down”, che qualche brivido lo regala, ma perché i Judas son sempre i Judas.
Se avete visto qualche video di un loro live in rete o su DVD, avrete perfettamente chiaro quello a cui abbiamo assistito questa sera. I Katatonia non sono degli animali da concerto, e questo ci si poteva aspettare, ma quello che un po’ stona sono le lente movenze di Renkse accanto alle tronfie pose heavy metal che assumono via via gli altri componenti, con in prima fila Nystrom, barbuto e borchiato, tanto che sembra uscire da una band viking-metal. Possibile che in tutti questi anni i Nostri non abbiano in qualche modo messo a punto un modo più coerente ed ammaliante di stare sul palco?
Lo stesso Renkse non brilla di particolare carisma: la sua voce, grazie al mestiere, ci arriva tutto sommato forte ed intonata, ma l’impressione è che egli impieghi non poche energie e concentrazione per riproporre quanto inciso su disco. Anche i suoi interventi fra un brano e l’altro tradiscono una certa rigidità, rivelandosi poco più che didascalici. Esempio: terminato il primo brano, “Forsaker”, Renkse ricorda a tutti che verrà celebrato “NITND” e che dunque passeranno alla "canzone numero due" (che senso ha, inoltre, ogni volta presentare il titolo dei brani se tanto essi sono riprodotti nello stesso ordine che su disco?). Alla luce di questi contributi capisco ancora meglio la vena minimale e descrittiva dei suoi testi. O forse è semplicemente un ragazzo timido che si è trovato ad essere il frontman di una band di successo.
La musica dei Katatonia, del resto, per umori e dinamiche non si può certo considerare “arena oriented”: i brani procedono senza grandi variazioni, ingessati dal fatto che essi devono seguire i tempi scanditi dai pattern elettronici e dalle basi preregistrate di tastiera. Ma secondo me è il fatto stesso di essere svedesi a rendere l’esibizione molto calcolata e fredda: l’esatto contrario, per esempio, di quanto combinato una settimana prima dai Motorpsycho. Di indubbia bellezza, ad ogni modo, risulteranno gli intrecci di chitarra, le stratificazioni delle diverse linee melodiche, i vari cambi di tempo e stop & go che caratterizzano una proposta che, rispetto alle origini, si è fatta complessa e decisamente dinamica. E certo l'esperienza e la professionalità della band vanno a compensare le lacune sopra indicate.
Per quanto mi riguarda gli high-light della serata risulteranno “The Longest Year”, con i suoi continui cambi di umori (dalle sezioni acustiche alle cavalcate elettriche), la doomish “Nephilim”, presentata come il brano più metal della serata (suggestivo il lalalaaa in mezzo al brano, prima del catastrofico finale) e l’atmosferica “Departer”, dominata da avvolgenti tastiere e dal canto struggente di Renkse.
Riflettori e luci aiutano come sempre: gli uni evidenziando le gesta dei singoli musicisti, le altre irradiando di verde e blu i malinconici temi, lirici e melodici, intavolati dalla band, che, di per sé, ricorrerà a ben pochi altri escamotage scenografici (sullo sfondo un telo raffigurante la madonna della copertina di “NITND” e ai lati due cannoni che al termine dell’esibizione spareranno coriandoli sul pubblico). Quanto ai bis, segnalo la bellissima “Lethean”, splendida rappresentazione di una nuova concezione di musica oscura che gli stessi Katatonia hanno contribuito a creare, miscelando metal moderno, neo-progressive e dark-wave ottantiana.
Il pubblico sembra apprezzare, cantando i ritornelli e condendo di gridolini i passaggi più intensi. Non mi posso lamentare neanche io, fan della prima ora, considerato che vedere i Katatonia sul palco è stata la realizzazione di un sogno lungamente atteso. Senza dubbio anche il mio cuore stasera si è spezzato...
Old heart falls…