Sarà stato un bene che ad un certo punto nella storia degli Anathema Darren White se ne sia andato?
Mi sento di rispondere di sì, se il risultato della scissione fra gli Anathema e il loro primo cantante è stato l'abbandono degli ultimi retaggi di metal estremo e la genesi di lavori superlativi come “The Silent Enigma”, “Eternity”, “Alternative 4” e così via fino ai giorni nostri: tasselli in cui la visione artistica della band di Liverpool si è affrancata dalle asperità doom-death degli esordi per svilupparsi prima nella direzione della psichedelia pinkfloydiana, poi in quella della introspezione radioheadiana, per infine approdare alle raffinatezze neo-progressive dei lavori dell'ultimo decennio.
Bravi, bravissimi, in particolare Vincent Cavanagh che dietro al microfono ha dimostrato doti vocali inaspettate, evolvendo di disco in disco, adattandosi ad una proposta sempre più sofisticata e lontana dalle efferatezze dell'universo metal. Bravi, bravissimi, eppure fra i picchi di maggiore intensità emotiva offerti dagli Anathema nel corso della loro mirabolante carriera, dovremmo citare per forza brani-capolavoro come "Kingdom" e "We, The Gods" contenuti nell’EP “Pentecost III”, ultima prova in studio con Darren White dietro al microfono.
Anno 1995, gettiamo uno sguardo alla sacra triade del doom/gothic-metal britannico, di cui gli stessi Anathema facevano parte con onore. I Paradise Lost, capofila del movimento, giungevano con il quinto album alla definitiva consacrazione artistica e commerciale: in “Draconian Times”, dove Nick Holmes abbandonava definitivamente il growl e le intuizioni melodiche del predecessore “Icon” raggiungevano la compiutezza della piena maturità, la band era già anni luce distante dalle recrudescenze di un caposaldo come “Gothic”, che nemmeno un lustro prima aveva dato l’avvio alla saga del gothic metal. I My Dying Bride, dal canto loro, se ne uscivano con “The Angel and the Dark River” che sarebbe rimasto l’apice insuperato della loro discografia: anche in questo caso il growl veniva accantonato in favore di un dolente pulito (e che pulito!), mente chitarre, pianoforte e violino erano un amalgama talmente ben orchestrato da rappresentare un traguardo irraggiungibile per chiunque altro all'epoca.
E gli Anathema? Gli Anathema erano ancora molto indietro nel loro percorso di ricerca identitaria, meditabondi in una fase transitoria che non li definiva ancora né carne né pesce, zavorrati dalle vocalità masticate di Darren White, poeta sopraffino, ma cantante imperfetto.
Gli Anathema puntavano ingenuamente alle emozioni, senza avere le idee troppo chiare sulla direzione da prendere. Del resto gli EP spesso sono lavori di passaggio, occasioni in cui nuove idee vengono sviluppate con esiti incerti. “Pentecost III” non fa eccezione, ponendosi a metà strada fra il predecessore “Serenades”, ancora fortemente legato al death-metal, e il successivo “The Silent Enigma”, baciato da una maggiore consapevolezza dei mezzi espressivi a propria disposizione. Un exploit di grande ispirazione, questo EP, un impeto vigoroso frenato solo dal fatto che in esso forze contrastanti si debilitavano a vicenda: da un lato il peso di un metal granitico ed al tempo stesso maestoso che vedeva nei Black Sabbath, nei Celtic Frost e negli stessi Paradise Lost un essenziale punto di riferimento; dall’altro la dilatazione sonora, il crescendo impetuoso, l'assenza di rigidi schemi formali come la classica struttura strofa/ritornello. Tutto questo, attenzione, in anni in cui il fenomeno post-metal non era ancora esploso.
Gli Anathema non sarebbero stati certo i padri del post-metal, ma è innegabile che in questo lungo EP (quarantuno minuti, per soli cinque brani + ghost-track) si sarebbe manifestata una forma innovativa di metal che si sviluppava lungo i binari del flusso sonoro. In questo flusso sonoro si palesava il carattere unico della band, distante tanto dal gothic metal dei Paradise Lost (che si stavano orientando verso uno stile asciutto ed imperniato attorno al formato canzone) che da quello dei My Dying Bride (i quali operavano con un pragmatismo che era tipico del metal, muovendosi fra intarsi sonori tutt'altro che improvvisati). Gli Anathema, guidati dal talento visionario di Daniel Cavanagh, salpavano invece per terre sconosciute, navigando in una dimensione onirica dove erano le sfumature, i suoni impalpabili, le visioni sfocate a prevalere su tutto il resto. Un fiume di lacrime, potremmo definire questo EP, dove la band trovava un equilibrio fragile, a metà strada fra una suite progressiva ed una jam psichedelica.
Gli arpeggi e i sofferenti intrecci di chitarra dei fratelli Cavanagh (dove Daniel metteva a punto il suo peculiare stile da solista fatto di feedback, giochi di volume e oscillanti armonie aeree), il drumming soffuso di John Douglas (con quel “farfugliar di piatti” che lo rendeva più vicino al Nick Mason di “Saucerful of Secrets” che ad un qualsiasi batterista heavy metal), il basso ipnotico di Duncan Patterson, che stava prendendo la rincorsa per divenire quell’autore che, in futuro, avrebbe costituito il motore primo per l’emancipazione della band dagli stilemi più tipicamente metal.
E poi, si diceva, il lacrimevole recitato di Darren White, ormai solo sporadicamente dedito al growl, e principalmente focalizzato su un sofferto reading, lui che prima di essere un cantante, è da considerare un poeta. Poeta eretico ed anticlericale, ma mai molesto o ferocemente blasfemo: un ermetismo, il suo, che si concentrava su strofe di poche e semplici parole, ma animate da un sentimento che le rendeva realmente commoventi se abbinate al canto tremolante ed alla lenta mutevolezza della musica.
Il meglio del tomo si racchiudeva nei primi tre brani: la superlativa opener “Kingdom”, con il suo lungo incipit a base di arpeggi, feedback sognanti e le clamorose liriche di White; la massiccia “Mine is Your to Drown in (Our is the New Tribe)”, memore di quanto espresso nel full-lenght di debutto, ma con una coda melodica da manuale; il capolavoro nel capolavoro “We, The Gods”, di cui si è già ampiamente parlato nella nostra rassegna sui migliori brani lunghi del metal.
Se la title-track condensa il titanismo del “doom anathemico” in una strumentale di pochi minuti e la conclusiva “Memento Mori” preferirà rovistare nelle morbosità dei primi Paradise Lost/Cathedral (non dicendo sostanzialmente niente di nuovo, ed anzi rinnegando quello che i “nuovi” Anathema si proponevano di essere), rimane fuori discussione il potenziale rivoluzionario di questa prova discografica.
Anno 1995: come i norvegesi In the Woods…, che per mezzo di “Heart of Ages” sfidavano l’universo black metal con un inedito approccio progressivo, alla stessa maniera gli Anathema di “Pentecost III” gettavano nel prolifico mercato del metal estremo di metà anni novanta una perla di indiscutibile bellezza che, se non avrebbe in seguito cambiato il mondo, avrebbe comunque costituito la premessa indispensabile per una delle progressioni stilistiche più sorprendenti che il metal abbia conosciuto.
Grazie Anathema!