E dunque è pandemia. In momenti come questi, lungo il solco di una ferita umanitaria in cui si affrontano ferocemente emergenza sanitaria, interessi politici ed economici, piccolezze umane e (mai sopite) paure ancestrali, morte e sopravvivenza, a prescindere dalle opinioni e dalle sacrosante percezioni soggettive, è consigliabile starsene a casa: passerà.
Passera??? Nel dubbio andiamoci ad ascoltare i dieci album (più uno) che Metal Mirror vi consiglia per affrontare l’isolamento.
Passera??? Nel dubbio andiamoci ad ascoltare i dieci album (più uno) che Metal Mirror vi consiglia per affrontare l’isolamento.
1) Burzum: “The Ways of Yore”
Nel momento in cui la faccenda del Covid-2019 assumeva le fattezze di una minaccia globale e localmente hanno iniziato a profilarsi provvedimenti drasticamente restrittivi, il mio pensiero è andato a Varg Vikernes. La verità è che da sempre Vikernes è un alienato: alienato mentale, alienato da se stesso, alienato dal mondo perché incarcerato prima, auto-recluso poi nella sua fattoria in Francia con la famiglia. E chi meglio di costui ci può fornire l’ideale colonna sonora per una condizione di surreale alienazione? “The Ways of Yore”, ultimo album rilasciato a nome Burzum, è un ponte volto a ricongiungerci in “luoghi altri”, in un passato ancestrale lontano dagli odierni patemi. Dead Can Dance e Tangerine Dream flirtano con l’indissolubile poetica del Conte, che per l’occasione riprende in mano la chitarra elettrica, regalando, fra una lunga escursione di sintetizzatori ed un ispirato canto odinico, qualche magia del black metal che fu.
2) Death in June: “Something is Coming”
Anche Douglas Pearce è un eroe dell’isolamento, uno che da sempre lotta in solitudine. E tutta la sua discografia lo dimostra. Rispolveriamo la sua arte apocalittica in questo tesissimo live registrato a Zagabria, Croazia, nell’ottobre del 1992, in pieno conflitto armato. I Death in June, di fatto, furono la prima band britannica a suonare dall’inizio del genocidio balcanico, cornice che getta in una atmosfera di grande tensione le marziali ballate della Morte in Giugno, le quali sono qui restituite in una veste ancora più minimale che su disco, immerse in un silenzio irreale, con la voce tonante di Pearce a sovrastare il tutto. Da brividi.
3) High Tide: “High Tide”
E’ una autentica caccia alle streghe quella inscenata da Tony Hill e Simon House con il loro mostruoso heavy-prog. Siamo nel 1970 e questo è il secondo lavoro della band inglese: meno duro del debutto “Sea Shantes”, “High Tide” si articola in tre lunghe composizioni dove inquieti momenti acustici si alternano a brusche impennate di chitarra e violino. Musica, questa, dall’elevato potere straniante che genera nella mente dell'ascoltatore mesti paesaggi rurali, caseggiati abbandonati, nebbiose brughiere, ombre ed antiche storie di fantasmi. Ancora brividi.
4) Paul Chain: “Park of Reason”
Il doom ha il pregio di apparire un genere in cui tutto può succedere, sebbene, a guardar bene, non è che poi succeda molto. C’è sempre un po’ di noia nel doom, ma nella noia il doom mostra la sua utilità: il mondo smette di correre, non c’è più fretta, si insedia la solitudine, forse si palesa qualche riflessione sulla morte. Il doom metafisico del mitico Catena offre tutto quello di cui abbiamo bisogno in occasioni di questo tipo: riff enormi, passo elefantiaco, assoli di una bellezza disarmante, passaggi di organo chiesastico, una lunghezza spropositata tanto che l’idea che l’opera non finisca mai si palesa realmente e, a dirla tutta, ti arreca quasi conforto. La durata di novanta minuti su un supporto cd che può contenerne al massimo ottanta è un'altra magia del nostro Paolone nazionale. A proposito: nel dubbio, ascolta Paul Chain!
5) Summoning: “Oath Bound”
Devo dire la verità, non ho mai tempo per ascoltare i Summoning, ma forse una condizione di isolamento può essere l’ideale per potersi abbandonare al maestoso procedere dei suoni ammaestrati da Protector e Silenius, perché l'immaginazione è l'unica cosa che non ci possono togliere le quattro mura di un edificio. Sdraiarsi sul letto, chiudere gli occhi e calarsi nei pittoreschi mondi fantasy ritratti dal duo austriaco, fra paesaggi incantanti, laghi, maestosi picchi montuosi, incantesimi e cruente battaglie: il tutto raccontato con il linguaggio aspro, ma anche struggente, di un black metal tanto epico quanto atipico che intreccia in modo suggestivo solenni drum-machine, riff ispirati e superbi giri di tastiera. Buon viaggio!
6) Swans: “Soundtrack for the Blind”
E per smarrirsi al meglio nel nulla della quarantena, ecco che vi proponiamo questo mastodontico doppio album: una immaginaria colonna sonora (per ciechi) dove succede tutto e nulla, fra fruscii, field recording, angoscianti assenze, denotazioni elettriche e il cantautorato dolente di Michael Gira. Sublime nella sua dispersività, questo è un lavoro che offre una infinità di sfaccettature, con il pregio di violare le coordinate spazio-temporali, stordirti, disorientarti e farti vivere, in un estatico slow-motion, un solo attimo. Un attimo che, tuttavia, si dilatata fino a raggiungere i contorni dell’eternità.
7) Tehni: “Saivo”
Umori da Oltretomba regnano in questo gioiello di oscuro folk nordico, dove, bisogna ammetterlo, si scava più a fondo del solito. I finlandesi Theni sono quanto di più vicino ci possa essere alla Morte, ma non deprimono, anzi ispirano e quasi fanno venire voglia di spegnersi. Ma quello che sulla carta potrebbe sembrare un inutile immolarsi alla Dea Noia, in realtà si rivela un viaggio affascinante che ci sorprenderà ad ogni passo fra tundra e licheni metafisici, laghi ghiacciati e notte gelide rischiarate dall’aurora boreale. I Nostri offrono infatti un sound solido ed ottimamente orchestrato, ricco di strumenti (chitarre acustiche, archi, fiati, pianoforte, percussioni ecc.) e suggestioni, rese anche da un canto cavernoso che sembra venire direttamente dall'Aldilà. E chi sa variare in un contesto di grande rigore e limiti cromatici, in certi giorni si rivela davvero vincente.
8) Third and the Mortal: “Tears Laid in Earth”
Ve li ricordate, i norvegesi gentili, mentre nelle loro terre imperversava il black metal? I Nostri hanno sempre costituito un caso a parte nel panorama norvegese degli anni novanta, un fenomeno solo tangenziale al metal in quanto le sonorità esplorate si sarebbero presto spostate su versanti elettronici ed avanguardisti. Eppure in questo brillante debutto, che potremmo ancora definire doom, o perlomeno gotico, il gelo del Nord si fonde alla psichedelia pinkfloydiana, con la sublime voce di Kari Rueslatten che, come un angelo custode, ci guiderà fra paesaggi innevati, foreste di conifere ed una malinconia che difficilmente vi si scrollerà di dosso dopo l'ascolto.
9) Ulver: “Shadows of the Sun”
Lupi 1. Trovo sempre tempo per ascoltare gli Ulver, ed anche quando potremmo dedicarci a qualche ascolto più inusuale, ci rendiamo conto che la calda voce di Kristofer Rygg è sempre una toccasana per lo spirito. Più che mai in questi giorni caotici, dove “Shadows of the Sun” potrebbe costituire uno squarcio di quiete, una voce di intelligente sobrietà, un'oasi di intimo raccoglimento e riflessione. Questo breve ma intenso album si regge su un equilibrio perfetto fra elettronica, ambient e chamber music: pianoforte, archi, beat elettronici, un canto sofferto confluiscono in un requiem purificatore che fluisce nell’aria, e nelle nostre coscienze, conferendo valore ad ogni singolo secondo trascorso. In memory of us all.
10) Wolves in the Throne Room: “Diadem of 12 Stars”
Lupi 2. Spesso trascurato in quanto acerbo, questa debutto dei Wolves in the Throne Room è invece qualcosa da riscoprire, rivalutare e a cui vale la pena dedicare un po’ di tempo, a maggior ragione se l’ispirazione dei Lupi di Olympia oggi mostra qualche segno di cedimento. Brani lunghi ed articolati che, dalle foreste della Cascadia, resuscitano il fiero spirito del black metal delle lande norvegesi, che all’epoca (correva l’anno 2006) sembrava ormai estinto. Proprio perché nella reclusione il tempo non sembra mai terminare, diviene gradevole perdere la bussola in queste lunghe composizioni dagli sviluppi liberi ed imprevedibili. Ma a legare le diverse suggestioni, nella velocità come nella lentezza, nel passaggio acustico come nella distorsione, nella furia selvaggia come nella poesia, è l’ispirazione di una band unica che ha saputo riportare in auge il black metal nel terzo millennio.
Ed infine il “più uno” della nostra play-list: “The Astonishing” dei Dream Theater. Perché alla fine può essere deprimente, o troppo serioso, cimentarsi negli album sopra menzionati. Ed allora la rassicurante logorrea di John Petrucci e compagni, riversata in questa mega operazione (album doppio con concept pretenzioso a sfondo distopico-futurista), potrebbe rappresentare una variante costruttiva da coltivare nella prigionia. E chissà, forse è la volta buona che riusciamo ad ascoltarlo tutto per intero...