"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

21 mar 2016

DIECI ALBUM (PIÙ UNO) PER CAPIRE PAUL CHAIN (parte prima)




Paul Chain: tutti ne parlano ma nessuno sa chi è veramente. Ricostruire la sua discografia è un processo lento e faticoso, fatto di scatoloni umidi, di chicche rinvenute per puro caso in banchetti di fiere del disco usato, o in stand allestiti in occasione di concertacci underground, o in scaffali polverosi di anfratti per metallari che nessuno conosce, neppure i metallari stessi: per questo è necessario fermarsi un attimo e mettere un po’ di ordine.

Un atto doveroso, indispensabile per introdurre, ma anche capire, un artista che ha consacrato la propria vita alla produzione artistica: comporre, suonare, registrare, sempre e comunque, sfruttando ogni briciolo di tempo a disposizione, anche la notte, tanto che (così sostenne il Nostro in un’intervista) l’incondizionata dedizione alla musica, il gravoso dispendio di energie, il sonno continuamente sacrificato hanno rischiato di pregiudicargli la salute. Una bulimia creativa che ha generato una mole esagerata di materiale, il quale è stato sistematicamente diffuso in modo indipendente, al di fuori di ogni logica di mercato. Ecco dunque la necessità di una guida che ci faccia strada a colpi di machete in questa giungla di pubblicazioni. Ma perché proprio noi? Perché, contrariamente a tanti altri, noi Paul Chain l’abbiamo ascoltato. E tanto.

Il personaggio ve lo presentiamo con la nostra consueta formula del “dieci più uno” (già sperimentata con Danzig). Sarebbe stato forse opportuno fare una disamina cronologica, ma considerato da un lato il nostro amore per le classifiche e dall’altro la volontà di mantenere un alone di mistero intorno all’universo artistico di Chain, preferiamo procedere a modo nostro, simbolico: guardando a quelle che riteniamo le sue opere più rappresentative in un ordine che rispecchia i nostri gusti.

Ma prima di procedere è utile tracciare un quadro generico entro cui inserire la multiforme produzione di Paul Chain, all’anagrafe Paolo Catena (nato a Pesaro, classe 1962). Il suo cammino è suddividibile in tre macro-periodi.

Il primo è costituito dagli anni passati in seno ai Death SS (1977 – 1984), anni in cui Chain, cofondatore della band insieme a Steve Sylvester, è stato il punto di riferimento in una formazione in continuo subbuglio e in modo particolar durante quel breve lasso di tempo in cui Sylvester lasciò la band e fu sostituito da Sanctis Ghoram.

Vi è poi la lunga fase della carriera solista, aperta dall’esperienza Paul Chain Violet Theatre (1984-1987) e poi diramatasi in una miriade di rigagnoli e progetti dalle etichette sempre diverse (1987 – 2003).

Vi è infine la terza ed ultima fase, quella dal 2003 ad oggi, caratterizzata dalla “morte artistica” del “personaggioPaul Chain con l’abbandono dello storico pseudonimo. L’artista pesarese, negli ultimi anni, si è dedicato a percorsi vicini all’avanguardia, fra sperimentazioni a quattro mani con la moglie e la diffusione gratuita tramite web della propria opera. E’ questo il periodo meno conosciuto di Chain. Da segnalare, al riguardo, la serie “Quadri Musicali”: cinque album usciti fra il 2012 e il 2015 che vanno a coniugare musica e pittura. Del chitarrista stesso sono i dipinti che ispireranno i contenuti di questi lavori. E per la prima volta, egli deciderà di pubblicare con il suo vero nome, Paolo Catena: come se il suo percorso, originato dalle maschere e dagli eccessi visivi e concettuali dei Death SS, avesse imboccato una via progressivamente volta all'essenza delle cose, fino a pervenire alla più completa e veritiera nudità. 

La nostra attenzione, ovviamente, sarà rivolta alla lunga fase intermedia. Prima, tuttavia, vanno doverosamente spese due paroline per i Death SS, da cui tutto ebbe inizio. In essi il Nostro ebbe modo di distinguersi come chitarrista tecnicamente dotato e dalla scrittura fantasiosa. Il suo estro, comprensibilmente, non ebbe modo di dispiegarsi in tutto il suo potenziale, dovendo necessariamente spartire la scena con l’ego di Sylvester, che, si sa, non aveva certo un caratterino accomodante. Chain di fatto lasciò la band prima ancora che il primo album ufficiale “…In Death of Steve Sylvester” vedesse la luce nel 1988. Per sentire la chitarra di Chain accanto all’ugola spiritata di Sylvester dovremo attendere i lavori solisti di quest’ultimo (“Free Man” del 1993 e “Mad Messiah” del 1998): album nei quali i due compari ebbero modo di collaborare nuovamente insieme.

Chi possiede la discografia ufficiale dei Death SS non si imbatterà dunque in Paul Chain: per questo sarà necessario rispolverare la raccolta “The Story of Death SS 1977 – 1984”, dove egli ancora figurava in formazione nelle vesti della Morte (The Death), non solo come chitarrista, ma anche come organista  (“Violet Overture” è un brano strumentale di solo organo). L'operazione costituisce un documento importantissimo per i die-hard fan, raccogliendo essa le prime registrazioni della band (demo, live e l’EP “Evil Metal”): materiale raccolto proprio da Chain e fatto uscire dalla sua etichetta Minotauro nel 1987, quando ormai aveva abbandonato la barca. La scaletta presenta classici come “Terror”, “Zombie”, “Cursed Mama” e Horrible Eyes”, i quali presenzieranno  con onore nei primi due album dei Death SS, mentre dietro al microfono troveremo in certi brani Steve Sylvester, in altri Sanctis Ghoram. E in uno (“Schizophrenic”) lo stesso Chain.

L’album risulta penalizzato da una pessima produzione, la quale rende l’ascolto non sempre gradevole: il fascino malsano e maledetto della musica in esso contenuto, tuttavia, deriva anche da questi suoni confusi e mal equalizzati, che potremmo definire "da cripta". Certo, anche l'aspetto scenografico giocava il suo ruolo: i membri erano travestiti da esseri mostruosi:  quelli dei classici della letteratura gotica e della filmografia horror (dal vampiro alla mummia, passando per lo zombie e l’uomo lupo). Questa componente, legata alle atmosfere orrorifiche ed alle tematiche legate all’occulto che venivano trattate nei testi, fece sì che la band potesse fin da subito distinguersi e guadagnarsi lo status di band di culto (con tanto di genere musicale coniato ad hoc per loro: quell’“Horror Metal” di cui negli anni rimarranno praticamente gli unici esponenti).

In mezzo a tutto questo baraccone, doveva ergersi necessariamente il carisma iconoclasta di Sylvester (sorta di Alice Cooper posseduto dal demonio), fattore limitante per l’energia creativa di Chain, a sua volta costretto a muoversi nelle pareti anguste del classico formato canzone (dimensione prediletta per l’heavy metal anthemico proposto dalla band). Se dovessimo scegliere un brano dei Death SS che più di tutti esalta la personalità di Chain è proprio quella “Horrible Eyes” comandata da un irresistibile riff sabbathiano,  che ritroveremo anche in “Black Mass”.

Per saggiare il reale potenziale di Chain diverrà dunque necessario volgere lo sguardo altrove: prima ai già citati Violet Theatre, dei quali il Nostro aveva il controllo assoluto, e poi nei lavori della carriera solista. In essi, una volta abbattuti gli ultimi ostacoli, Paul Chain avrà modo di dirigersi in una miriade di direzioni, dal doom tout court (di cui sarà un illustre e rispettato interprete in tutto il mondo) al chitarrismo free dello space-rock e della psichedelia, spingendosi persino verso i lidi dell’elettronica ambientale e dell’avanguardia.

Lo chiamavano Psycho-Doom: variante psichedelica, visionaria, mistica del doom…

Ma per comprendere veramente l’arte di Chain è necessario considerare l’assunto principe su cui essa si basa: l’improvvisazione. Ma se per improvvisazione si intende quella dei musicisti jazz, quella delle band psichedeliche, siamo fuori strada. Non è la jam “fumosa” la dimensione privilegiata dall’artista pesarese (sebbene egli a volte deciderà di battere anche quella strada), ma quella di un heavy-metal/doom fatto di riff talvolta pesanti, altre taglienti; corredato da assolo limpidi, puliti, cristallini; condito, infine, da organi liquidi ed effetti che costituscono l’altra faccia dell’armamentario espressivo di cui dispone Chain.

Un Chain che, più o meno efficacemente, si è destreggiato anche dietro al microfono, pur non essendo egli un cantante. La sua è una voce anomala per l’heavy metal, sorta di Robert Wyatt delle tenebre: falsetto metafisico capace di conferire contorni surreali alla sua musica. Peraltro utilizzando una lingua tutta sua, o meglio: i suoi testi sembrano redatti in inglese, ma come da egli spiegato, si tratta solo di fonemi inventati dal retrogusto anglofono. Un po’ per il solito discorso dell’improvvisazione (dunque nemmeno scrivere testi è concesso), un po’ perché l’inglese Paul Chian non l’ha mai masticato veramente bene: idolatrato in tutto il mondo come personaggio di culto del metal underground (si abbiano in mente, per esempio, le collaborazioni con Lee Dorrian e Scott “Wino” Weinrich), egli avrebbe potuto sfondare all’estero se solo avesse voluto. Ma Chain, di tutte ‘ste fregnate, tipo parlare inglese con artisti inglesi o americani o stranieri in generale, non ne ha mai sentito la necessità. “Chi mi ama mi segua”, sembrava essere il suo motto, e così registrava album intransigenti e ciechi al mercato, nella solitudine, nella notte, per poi lavarsi la faccia e i denti all’alba ed andare a lavorare per mantenersi.

Seguiamolo, dunque, attraverso i dieci gironi che abbiamo individuato come i migliori rappresentanti del suo affascinante viaggio artistico…