"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

14 lug 2023

VIAGGIO NEL DEPRESSIVE BLACK METAL: BURZUM


Prima puntata: Burzum - "Burzum" (1992)
 

Ancora Varg Vikernes. È forse noioso ritornare ancora una volta sul monicker Burzum per ricordare quanto i suoi primi quattro album siano stati cruciali sia nel gettare le fondamenta del black metal che per i suoi sviluppi successivi. Ma non è affatto noioso riascoltare la sua musica, così densa di contenuti e stimoli da portarci con un certo entusiasmo a metterne per iscritto le qualità ancora una volta. 

Oggi, nello specifico, ci focalizzeremo sulle implicazioni che le sue intuizioni hanno avuto sulla nascita del depressive black metal come genere a sé stante. 

Sebbene sia un autore spesso citato quando si parla di DBM, è improprio indicare Varg Vikernes come un esponente effettivo di questo sotto-genere. Ne è stato indubbiamente un precursore, questo sì, ma la sua "narrazione" si è collocata agli antipodi di quella del DBM. I suoi testi non si sono mai incentrati sui temi della depressione, dell'alienazione mentale, della morte e del suicidio. Per certi aspetti il suo messaggio ha preso forma in aree di pensiero lontane, lontanissime, dalla dimensione della auto-commiserazione in cui sguazza il depressive. Il suo "lamento", prima di riferirsi alla sua dimensione individuale, ha saputo descrivere una condizione esistenziale che derivava direttamente dalla sua visione del mondo, dai suoi valori, dall'ideologia che ha inteso abbracciare e che ha abbeverato la sua arte. 

C'è sicuramente della malinconia nel suo sguardo, ma si tratta della malinconia che deriva dalla frustrazione che si prova quando le cose non vanno come vorremmo. L'avversione alla globalizzazione, ad ogni forma di progressismo sociale, l'idea di un recupero delle tradizioni e di specificità territoriali (e ci fermiamo qui!) come mezzo per contrastare la condizione di decadenza in cui versa l'umanità, in un certo senso rivestono la musica di Burzum di un impeto propositivo che, seppur frustrato dalla consapevolezza dell'irreversibilità delle forze e dei processi che si vorrebbe combattere, non appartiene agli umori nichilisti ed auto-distruttivi di chi professerà il DBM. 

Vero è che, contrariamente a molti suoi contemporanei, Vikernes ha portato il black metal su un piano più intimo, meditativo, contemplativo; i suoi versi avevano uno slancio poetico che era effettivamente inedito e che conferiva una forte potere evocativo alla sua musica, la quale si prestava in modo magistrale a supportare lo sviluppo concettuale e lirico sopra descritto. Quella stessa musica, comprensibilmente, avrebbe delineato gli scenari espressivi su cui chi suona oggi DBM avrebbe costruito il proprio edificio. Ma come nasce un nuovo genere? 

Un nuovo genere, secondo me, nasce quando si ha una deviazione dalla "strada maestra" e quella deviazione viene poi battuta e spianata da molti altri successivamente fino a consolidarsi come sentiero autonomo. La cosa strana, qui, è che la "deviazione burzumiana" avveniva in un momento in cui la strada maestra non era stata nitidamente tracciata. Nel marzo del 1992 uscivano due album fondamentali per la neo-nascente scena black metal norvegese. "A Blaze in the Northern Sky" dei Darkthrone e l'omonimo debutto del progetto Burzum. I primi operavano ad Oslo, l'epicentro del cosiddetto Inner Circle e area di influenza del guru Euronymous; Vikernes, invece, veniva da Bergen, con trascorsi negli Old Funeral (ove militava anche Abbath prima di dar vita, con Demonazagli Immortal). 

La seconda prova in studio dei Darkthrone, che veniva dopo un debutto all'insegna del death metal ("Soulside Journey", del 1991), presentava un suono effettivamente inedito per l'epoca: il riffing si faceva tanto tagliente quanto confuso, il canto assumeva la spigolosità di uno screaming maligno e dai contorni demoniaci, i suoni marci e mal equalizzati, oltre ad esalare un discreto fascino "underground" (e quindi di fiera intransigenza artistica), conferiva un alone di mistero e malvagità al tutto. L'idea di fondo era quella di plasmare una nuova forma di metal estremo che prescindesse dalle istanze del death metal, che all'epoca viveva la sua fase di maturità. Ciò fu fatto ripartendo da quelle eminenze del metal estremo che successivamente sarebbero state definite proto-black metal, ossia Bathory e Celtic Frost. Eravamo solo all'inizio di un percorso di definizione artistica, in quanto i Darkthrone avrebbero proseguito lungo un cammino di progressiva scarnificazione/estremizzazione sonora che li avrebbe condotti a pietre miliari del black metal quali "Under a Funeral Moon" (1993) e soprattutto "Transilvanian Hunger" (1994). 

La paternità di quelle intuizioni, senza niente togliere ai grandissimi Fenriz e Nocturno Culto, andava tuttavia ad Euronymous che, con i suoi MayheM, aveva messo a punto quel tipo di suggestioni qualche anno prima: esperimenti che circolavano sotto forma di cassettine già dall'inizio del 1991 (si pensi a "Live in Leipzig", con l'iconoclasta Dead al microfono e dove già figuravano diversi brani che sarebbero poi finiti nel famigerato "The Mysteriis Dom. Sathanas"). Vi erano dunque nuovi riff, una nuova impostazione vocale, una nuova attitudine ed anche una nuova iconografia, ma l'intento ultimo rimaneva quello di realizzare niente di meno che una forma di metal estremo che potesse surclassare tutte le altre quanto ad efferatezza e morbosità. Si andava nella direzione di un suono impetuoso, epico, selvaggio, caratterizzato da velocità talmente elevate da suggerire una "tensione sinfonica", come confermato negli anni appena successivi da Immortal, Emperor, Enslaved, Satyricon ecc. Ecco, ci siamo dilungati, ma il nostro era solo un modo per dare l'idea di quale fosse quella "strada maestra" che abbiamo menzionato sopra. 

In questo contesto Varg Vikernes si inseriva con personalità, e già il suo primo lavoro era in grado di settare nuovi standard, pur non distanziandosi eccessivamente dai canoni che si stavano delineando intorno a lui. Egli offriva un suono più cupo, oppressivo ed indubbiamente evocativo della media, scriveva brani a volte piuttosto lunghi e che si sviluppavano in modo disorganico e per affastellamento di idee, rifuggendo strutture ben precise. Il suo screaming isterico, riconoscibile fra mille altri, sembrava esprimere più sofferenza che odio o disprezzo. L'atmosfera, la suggestione (alimentate da uno straordinario talento melodico) sembravano prendere il sopravvento sulla forza d'urto. In più, vi erano dei brani strumentali di sole tastiere che non erano da intendere come espedienti per "fare atmosfera" o semplici intermezzi per tirare il fiato (come era costume nel metal estremo), ma tasselli facenti parte di una visione artistica organica e volti a traslare quella stessa visione su un piano di trascendenza. 

Tutti questi elementi, presenti lungo i 50 minuti di "Burzum", vanno ad anticipare le modalità espressive del DBM: l'ossessività del riffing, l'imprinting melodico che va a prevalere sul groove o sulla velocità, le grida agonizzanti, la scrittura dispersiva che intende seguire l'espressione di una interiorità martoriata piuttosto che format strutturati. Ci sono a mio parere un paio di momenti chiave per comprendere la forte connessione fra le intuizioni burzumiane e l'universo espressivo del DBM. 

Partiamo dal brano di apertura "Feeble Screams From Forests Unknown": quello che potrebbe sembrare un incipit più classico che mai, fra blast-beat e chitarre zanzarose, si rivela presto una falsa partenza, una concessione ai canoni del periodo che volevano i brani di apertura violenti ed arrembanti. Per due volte la batteria decelera, innestando semi di inquietudine in un brano che nei suoi sette minuti e mezzo di svolgimento cambierà più volte faccia, aprendo varchi su baratri sempre più profondi. Vi saranno diverse pause e ripartenze, passaggi in cui arpeggi elettrificati girano senza supporto ritmico o accompagnati da lenti, impercettibili battiti, conferendo al brano lugubri contorni rituali. È chiaro come il Nostro raggiunga i suoi intenti senza ricorrere ai canoni estetici del doom, all'esasperante lentezza, in quanto i suoi brani sono animati da un dinamismo che è emanazione della verve melodica delle chitarre. 

Troviamo qui il classico stilema burzumiano in cui la batteria (drum-machine, ad esser precisi) si defila ed epici accordi di chitarra, tutt'al più rinforzati dal suono sordo del basso, vengono associati ad arpeggi elettrificati in lunghi passaggi interlocutori: non si tratta di pause volte a massimizzare l'impatto di una eventuale ripartenza, ma di un modus operandi volto a costruire un determinato climax ed innervare il brano di una raggelante tensione. I guaiti di Vikernes, infine, squarciano il velo dell'elettricità in soliloqui che sembrano svolgersi senza tener conto della musica, quasi come se si trattasse di annaspare nel fango o, per dirla in modo più poetico, singhiozzare dalle profondità di una cripta. E tutto questo si presterà divinamente agli intenti del DBM. 

Abbiamo considerato questo brano nello specifico solo a titolo esemplificativo, perché quello sopra descritto è il linguaggio che ritroveremo in altri episodi dell'album (come nelle lunghe "A Lost Forgotten Spirit" e "My Journey through the Stars") ed ovviamente nei lavori successivi. 

"Spell of Destruction" è l'altro brano da guardare con attenzione, in quanto esso potrebbe essere addirittura descritto come il primo brano DBM di sempre. Qui la malinconia che pervade i temi melodici è cosa ben diversa rispetto alle atmosfere ancora tendenzialmente creepy ed orrorifiche che si facevano avanti nel black metal (si pensi al raggelante incipit di "Freezing Moon", atto ad introdurre ambientazioni soprannaturali piuttosto che esprimere una dimensione intimistica). Qui invece Vikernes si fa quasi commovente, con un arpeggio portante che fin dalle prime battute mi ha rammentato le deflagrazioni chitarristiche di "Good Morning, Captain" degli Slint ("Spiderland" era uscito l'anno precedente, nel 1991, ma non credo che Vikernes ne abbia tratto ispirazione o che tanto meno lo avesse ascoltato; certo però che se vi sono delle analogie, seppur fortuite, con la musica proposta dalla band che avrebbe avviato la stagione post-rock - fra i generi più emotivamente cangianti di sempre - questo spiega molto sul potenziale emotivo della scrittura del Nostro). 

Con questa nostra analisi non vogliamo dire che il debutto di Burzum sia da vedere, da solo, come la scintilla primigenia del DBM. In verità tutti e quattro i primi album di Burzum andrebbero visti insieme, analizzati in blocco, non solo per le forti connessioni fra l'uno e l'altro, ma anche perché concepiti e realizzati in un ristrettissimo lasso di tempo (editi fra il 1992 e il 1996, furono registrati prima del 1994, anno della incarcerazione per l'omicidio di Euronymous). Amo sempre dire che in ognuno di essi si guadagna e si perde qualcosa rispetto al lavoro che lo ha preceduto, mostrando sfumature diverse di una medesima poetica, ma non un vero e proprio superamento, come se il Nostro girasse in tondo, ogni volta riformulando in modo leggermente diverso i soliti elementi. 

Tutti e quattro, si diceva, avrebbero avuto una influenza sulla genesi e sulla definizione stilistica del DBM, tanto che li troviamo a volte menzionati nelle classifiche dei migliori album di questo genere - erroneamente a mio avviso. "Det Som Engang Var" (del 1993), a cui taluni fanno risalire le origini del DBM, avrebbe perfezionato quella formula, presentando una scrittura più equilibrata ed una visione artistica consolidata intorno agli elementi di novità introdotti nel tomo precedente, con annessa eliminazione dagli elementi spuri (si pensi alla breve ed incalzante "War", che nel debutto costituiva un ultimo rigurgito dell'era proto-black). Il successivo "Hvet Lyset Tar Oss" (1994) avrebbe portato quello stesso linguaggio alla sua apoteosi, estremizzandolo ulteriormente, estendendo la durata dei brani, rendendo ancora più scarne, ossessive e ripetitive le modalità espressive, e portando ad un piano superiore l'esplorazione nella dimensione ambient, solo abbozzata nei lavori precedenti. "Filosofem" (uscito postumo nel 1996) non avrebbe infine fatto altro che spingere queste premesse ancora più oltre, accedendo ad una concezione più meditativa ed ambient del black metal (se di black metal in senso stretto si poteva ancora parlare) e portando avanti una indagine orientata ad un suono sempre più rarefatto ed impalpabile. 

E così non ci stupiamo se molti album di DBM somiglieranno a "Filosofem", "Hvet Lyset Tar Oss" o a "Det Som Engang Var" in quanto quei lavori sarebbero stati letteralmente saccheggiati. Non subito, perché portatori di novità ed istanze estreme che avrebbero avuto bisogno di tempo per essere riconosciute, capite e metabolizzate. Ma in quel diamante grezzo che è l'esordio discografico di Burzum davvero troviamo per la prima volta quegli elementi che avrebbero aperto una breccia lungo la strada maestra e tracciato quella deviazione di percorso che avrebbe condotto un giorno alle sonorità del DBM.