"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

9 mag 2020

IMMORTAL: L'ERA ABBATH


Ancora Immortal. Se ne è parlato abbastanza sul nostro blog, ma l’esibizione di Abbath di qualche tempo fa (per l'esattezza l'ultimo concerto prima dell'avvento del coronavirus) ci esorta ad approfondire quella fase della storia della band che ha visto  proprio Mr. Olve Eikemo detenere, da solo, le redini della band.

L’Era Abbath consta di quattro album rilasciati nell’arco di circa dieci anni, dal 1999 al 2009. In questa fase le coordinate stilistiche degli Immortal, che negli anni precedenti si erano imposti come nome di punta dell’emergente movimento black metal in Norvegia, si sono spostate in modo significativo: dalle sonorità estreme dei primi quattro album, dove la band si era distinta per un suono cruento e il più delle volte velocissimo, si passò ad un approccio più melodico e dai tratti marcatamente epici (chi ha detto Bathory?). Forse un boccone amaro da inghiottire per i fan oltranzisti della prima ora, ma certamente una via, quella intrapresa, che ha dato alla band una maggiore visibilità, con positivi riscontri in termini di popolarità.


Se si guarda allo scorcio finale degli anni novanta, non è possibile tratteggiare un ritratto esaltante del black metal come genere: il black metal norvegese, per come si era sviluppato ed affermato, mostrava evidenti segni di stanchezza. Molti nomi storici, senza contare coloro che per un motivo o per un altro andarono incontro al dissolvimento, si videro costretti a cambiar pelle; qualcuno decise di indietreggiare verso sonorità thrash/punk, altri invece guardarono ad altri lidi; vi fu persino chi iniziava a valutare ambiti fuori dal metal stesso. E certo qualche domanda se la saranno posta persino i compari Abbath e Demonaz, rappresentanti dell’ala più tradizionalista del movimento e che nel 1997 avevano rilasciato il loro album più debole di sempre, quel “Blizzard Beasts” che, in aggiunta all’esigua durata e ad una produzione terribile, mostrava grossi limiti a livello compositivo.

Paradossalmente ci pensò il destino avverso a salvare il buon nome degli Immortal: una grave forma di tendinite costrinse Demonaz ad appendere il proprio strumento al chiodo. A farsi carico delle sei corde, pertanto, ci pensò il front-man Abbath, cantante e bassista (all’occorrenza anche batterista) che già in passato aveva sfoggiato buone doti di song-writing. Ciò portò sicuramente freschezza in casa Immortal, ma quello che più di ogni altra cosa colpì fu scoprire nell’“improvvisato chitarrista” una chiara visione di intenti che andava ad approfondire specifici aspetti dell'Immortal sound : aspetti che erano sempre stati graditi, ma presenti in quota nettamente minoritaria nell’economia complessiva del suono.

Mi riferisco in particolare alla predilezione di  un mood epico e maestoso che guardava in modo palese ai maestri Bathory, come si diceva sopra. Lo stile chitarristico di Abbath si sarebbe rivelato forse meno personale di quello del suo compare e sicuramente più derivativo, pescando esso a piene mani da quel thrash e da quel death metal che avevano indubbiamente contribuito a forgiare lo stile stesso degli Immortal. Un’inedita vena melodica, tuttavia, avrebbe adesso reso maggiormente scorrevole i brani e dunque fruibile la proposta anche a coloro che non si potevano definire fan sfegatati del black metal. La continuità concettuale con il passato veniva comunque garantita dalle liriche di Demonaz, che rimaneva il paroliere della band (sua, ricordiamo, l’ideazione del mondo immaginario di Blashyrkh). Un bell’aiuto , infine, l’avrebbe fornito il portentoso Horgh, seduto dietro alle pelli fin dai tempi di “Blizzard Beasts”, ma che solo con le nuove composizioni (mediamente più lunghe ed articolate che in precedenza) avrebbe trovato spazi per esprimere in pieno il suo talento.

Proprio intorno all’asse Abbath-Horgh si andava consolidando il nuovo sound degli Immortal: un sound che, lungi dal costituire lo sfruttamento di un patrimonio di credibilità che il marchio poteva ancora garantire, contribuì ad accrescere la stessa notorietà della band. Uno, perché la proposta si faceva più abbordabile ed intrisa di quelle atmosfere fantasy che andavano per la maggiore nel periodo (ricordiamo che erano gli anni in cui la trilogia de “Il Signore degli Anelli” di Peter Jackson sbancava i botteghini di tutto il mondo). Due, perché nel mondo di internet le pose bizzarre e i pittoreschi face-painting dei componenti della band ispiravano esilaranti foto-ritocchi destinati a divenire virali: quella che una volta era l’espressione, probabilmente convinta e seriosa, di un immaginario “malefico” chiamato a supportare iconograficamente una proposta indubbiamente estrema, sarebbe divenuta di grande appeal per una nuova generazione di giovani che vedevano il kitsch involontario come un valore aggiunto. Un kitsch che risultava tanto più simpatico se rapportato ai drammatici fatti di sangue per cui altre band norvegesi si erano tristemente rese note anni prima. Diamo dunque uno sguardo più approfondito a questa seconda fiorente fase artistica degli Immortal.

“At the Heart of Winter” (1999)
Dopo il necessario passo indietro di Demonaz, gli Immortal si ripresentano come duo, con i soli Abbath e Horgh. Già la copertina raffigurante un fumettoso paesaggio invernale (la prima nella storia della band a non contenere uno scatto fotografico dei musicisti) fa intuire che qualcosa è cambiato. A confermare l’impressione troviamo il minutaggio dei singoli pezzi, mai così esteso: con soli sei tracce per quarantasei minuti di durata, ci troviamo al cospetto di quasi otto minuti per brano. In questo affascinante viaggio fra i ghiacci nordici, i due figuri si abbandonano più che volentieri a riottosi mid-tempo ed immaginifiche escursioni acustiche, con misurati interventi di tastiera. Abbath, in un certo senso, sembra ripartire dalla bellissima “Mountains of Might”, l’unico episodio salvabile dal mediocre “Blizzard Beasts”. Il classico gelo che siamo soliti associare al nome della band abbandona la ferocia del black metal sparato a mille all’ora di una volta, per cristallizzarsi intorno ad un extreme epic metal che ama avanzare per mezzo di baldanzosi tempi medi, con svariati cambi di tempo ad imprimere dinamismo al tutto. Il peculiare latrato di Abbath è oramai una garanzia e laddove si percepisce qualche colpo a vuoto nella scrittura, il drumming marziale di Horgh mette le cose apposto. La produzione professionale degli Abyss Studios di Peter Tagtgren fa il resto, valorizzando adeguatamente le gesta dei due e ammantando i brani del giusto pathos. “At the Hearth of Winter”, al netto di qualche sbavatura o prolissità, è un genuino colpo di talento che oramai non era più lecito aspettarsi da una band e da un genere che parevano esser giunti al loro capolinea.
Voto: 8

“Damned in Black” (2000) 
Appena un anno dopo i Nostri si ripresentano sul mercato discografico con un album più violento e dal minutaggio contenuto (solo trentasei minuti). La formula non viene stravolta, e se da un lato si apprezza un sound più compatto e una rinnovata sicurezza nei propri mezzi, dall’altro si nota un calo di ispirazione che appiattisce l’estro di Abbath, costringendolo nelle maglie strette di un thrash metal dai miasmi fortemente teutonici (e non a caso, nello stesso periodo, il produttore Tagtgren aveva firmato anche la resurrezione dei Destruction con il devastante “All Hell Break Loose”). Horgh, da parte sua, fa il suo porco dovere dietro alle pelli, migliorando ulteriormente in precisione e potenza esecutiva, mentre del tutto irrilevante risulta la new entry Iscariah (al basso) che sembra esser stato reclutato solo per presenziare come terzo figuro in copertina. Una partenza con il botto (qualcuno già parlava di un ritorno ai fasti di “Battles in the North”) che presto avrebbe ceduto il passo al mestiere, sacrificando la componente epica e la "magia nordica" in nome di una impronta più thrash-oriented: non un brutto album, ma nettamente inferiore rispetto al brillante precedessore.
Voto: 6,5

“Sons of the Northern Darkness” (2002)
Sons of the Northern Darkness” rialza le quotazioni della band, mostrando finalmente una macchina perfettamente oliata e costituendosi come sintesi delle due precedenti prove. Di “Damned in Black” si conservano la compattezza e la produzione volta a valorizzare la potenza quanto il dettaglio; di “At the Heart of Winter”, invece, si recuperano la penna ispirata e le accentuate tinte epiche che erano state smorzate nel tomo precedente. Il risultato è un album violentissimo e nero come la pece: cinquanta ispiratissimi minuti divisi in otto brani fra velocità (mostruoso come sempre Horgh) e maestosi mid-tempo evocatori di aspre battaglie combattute nel ghiaccio artico. Iscariath, presente in formazione (ma soprattutto in copertina!), presta il suo basso solo nel brano di apertura, lasciando l’onere delle quattro corde all’infaticabile Abbath, oramai alfiere indiscusso del nuovo corso degli Immortal. La seconda giovinezza della band, tuttavia, verrà bruscamente interrotta da un temporaneo scioglimento che farà credere che questa opera superba avrebbe costituito il degno canto del cigno di una carriera a suo modo leggendaria.
Voto: 7,5

“All Shall Fall” (2009) 
A sorpresa nel 2007 la band si ricompone con l’aggiunta di Apollyon al basso. Il risultato, tuttavia, è leggermente sotto le aspettative, considerata la lunga attesa sofferta per ascoltare nuovo materiale a firma Immortal. “All Shall Fall”, come suggerito dal titolo, è un album decadente, amaro, che già porta dentro di sé quella stanchezza compositiva che avrebbe poi condotto la band ancora una volta alla sua dissoluzione. Poco dopo la sua uscita, infatti, gli Immortal si sarebbero nuovamente sciolti per insanabili dissidi interni, lasciandosi alle spalle un album sì compatto ed all’altezza della loro fama, ma discontinuo, sorretto più dal mestiere che da reale ispirazione. In questi sette brani (quaranta minuti la loro durata complessiva) le citazioni a Bathory ed al thrash di marca tedesca si sprecano, mentre la produzione laccata di Tagtgren, chiamata a supportare un generale alleggerimento dei suoni, smussa le maggiori asperità. Fatta eccezione per qualche spunto di heavy metal classico, (già in odore della futura carriera solista di Abbath), "All Shall Fall" porta avanti un discorso già noto, senza grandi sorprese. E questa, in sostanza, rimane la sua colpa maggiore.
Voto: 7

L'album che avrebbe dovuto scrivere la parola fine nella storia degli Immortal, si sarebbe rivelato invece l’ultimo con Abbath in formazione. Dopo una contesa durata anni, il marchio sarebbe infatti rimasto a Demonaz che, colpo di scena!, una volta rimessosi in sesto fisicamente, avrebbe ripreso le redini della band, coadiuvato dall’inaffondabile Horgh (rimasto l’unico elemento di continuità con il passato). “Northern Chaos Gods”, rilasciato nel 2018, è un gran bel lavoro che recupera con convinzione le sonorità della prima metà degli anni novanta, pur non archiviando del tutto quanto fatto di buono nei quattro album precedenti. C'è tuttavia tanta nostalgia per lo screaming inconfondibile di Abbath e per il suo contributo in sede di scrittura: tributiamoli entrambi con l'ascolto di quei dieci brani che a nostro parere hanno rappresentato i momenti più esaltanti della sua "reggenza":

Playlist essenziale: 
1) “Triumph” (“Damned in Black”, 2000) 
2) “All Shall Fall” (“All Shall Fall”, 2009) 
3) “Tragedies Blows at Horizon” (“At the Heart of the Winter”, 1999) 
4) “Where Dark and Light Don’t Differ” (“At the Heart of the Winter”, 1999) 
5) “In My Kingdom Cold” (“Sons of the Northern Darkness”, 2002) 
6) “Against the Tide (In the Artic World)” (“Damned in Black”, 2000)
7) "Unhearthly Kingdom" ("All Shall Fall", 2009)
8) “One by One” (“Sons of the Northern Darkness”, 2002) 
9) “Whitstand the Fall of Time” (“At the Heart of the Winter”, 1999) 
10) “Beyond the North Waves” (“Sons of the Northern Darkness”, 2002)