Undicesima puntata: Abyssic Hate - "Suicidal Emotions" (2000)
A chi spetta il primato di aver inventato il depressive black metal? Nelle dieci puntate precedenti abbiamo provato a tracciare una direttrice che, partendo dalle prime intuizioni di Burzum, Forgotten Woods e Strid, avrebbe poi condotto al DBM così come lo conosciamo oggi.
Se il genere ha attecchito e guadagnato autonomia, tuttavia, questo è accaduto grazie a gruppi che sono venuti dopo, che hanno saputo forgiare determinati stilemi sonori consolidandoli in un tutt'uno organico ed associandoli a tematiche ben precise. Se i Bethlehem, a sentire loro, suonavano "dark metal", il primato di aver incarnato il verbo del depressive spetterebbe dunque o agli Abyssic Hate o agli Shining, che entrambi esordivano discograficamente nel 2000.
C'è tuttavia da aggiungere che entrambe le band godevano di uno stato di culto nell'underground grazie alla pubblicazione di demo o lavori minori rilasciati prima dei seminali full-lenght di debutto. Più specificatamente, gli Abyssic Hate avevano dato alla luce le demo "Cleansing of an Ancient Race" e "Life is a Pain in the Neck" (rispettivamente del 1994 e del 1996) e l'EP "Eternal Damnation" del 1998, mentre gli Shining, sempre nel 1998, avevano esordito con l'altrettanto fondamentale EP "Submit to Selfdestruction".
Per andare sul sicuro, decidiamo di avviare ufficialmente il nostro viaggio nell'autentico DBM (quello vero, non quello involontario) con l'epocale "Suicidal Emotions", da indicare - senza se e senza ma - come una delle prime opere, se non la prima, in cui il DBM e la sua variante suicidal sono stati interpretati in modo chiaro e senza incertezze, con convinzione e cognizione di causa.
Gli Abyssic Hate sono il progetto solitario di Shane Rout, di stanza a Melbourne, Australia. "Suicidal Emotions" rimarrà anche l'unico full-lenght rilasciato con il monicker Abyssic Hate, cosa che lo rende ancora più leggendario.
La sua lavorazione, tecnicamente, ebbe origine qualche anno prima. Nel 1997 era stata pubblicata una demo proprio con il titolo "Suicidal Emotions", sorta di versione embrionale dell'album visto che conteneva tre brani dei quattro presenti nell'album stesso. Il quarto brano in scaletta sarebbe poi stato pescato dalla demo "Betrayed" del 1999. "Suicidal Emotions", dunque, usciva nel 2000 e costituiva più un approdo che un punto di partenza, raccogliendo ciò che di meglio era stato realizzato fino a quel momento dalla one-man band. Non si capisce bene se allo stato attuale il progetto sia attivo o meno, fatto sta che ad oggi non è stato pubblicato niente altro di significativo a nome Abyssic Hate (è del 2002 uno split con gli Absurd in cui presenzia la cover di "Welcome to the Machine" dei Pink Floyd, cosa che non chiarisce molto le idee sull'effettiva vitalità del progetto...).
Si diceva in apertura che "Suicidal Emotions" è un'opera già immersa fino al collo nell'universo stilistico e concettuale del DBM e, più nello specifico, nell'immaginario ancor più morboso della sua variante suicidal. Il titolo dell'album è paradigmatico in tal senso, e lo è anche la copertina: uno scatto in bianco e nero del corpo martoriato di Einar Andre Fredriksen, chitarrista dei norvegesi Funeral (li abbiamo conosciuti nella nostra rassegna sul funeral doom), poi morto suicida nel 2003. Quindi non più foreste, lune piene, paesaggi notturni ecc., ma l'esposizione nuda e cruda della sofferenza umana, fino all'auto-lesionismo. I testi, ovviamente, saranno incentrati senza tanti giri di parole su depressione e suicidio. La tesi di fondo è che la vita sia una cosa indegna, l'umanità intera sia una cosa indegna, l'esistenza su questo mondo una menzogna e la morte auto-procuratasi il viatico per liberarsi da tutto questo insieme di sofferenza e falsità.
Mi perdonino i lettori se ho semplificato e reso puerili certi concetti, ma purtroppo questo è il sunto assai fedele di quello che si può evincere dai testi dei brani, a mio parere fin troppo didascalici (dai, "I just want to fucking die!" non si può leggere!). Il dettaglio che lascia più perplessi è che sono scritti da un madrelingua, cosa che ci fa sospettare che la povertà non sia nel linguaggio ma nel pensiero. Non mi pare infatti che i testi, assai stereotipati, lascino trasparire una vibrante umanità, e questo potrebbe gettare qualche ombra sulla autenticità delle sensazioni descritte. Ma senza fossilizzarsi troppo su un elemento che non incide più di tanto sulla resa finale (tanto i testi sono incomprensibili...), possiamo serenamente sostenere che il Nostro si rifà alla grande con la musica, consegnandoci un'opera di indubbia importanza in seno al nascente filone del DSBM.
Il punto di partenza è ancora la Norvegia, un intento dichiarato sin dal nome del progetto che è tratto dal testo di "In the Shadows of the Horns" dei Darkthrone. Evidenti i rimandi a lavori come "A Blaze in the Northern Sky" ed "Under a Funeral Moon", come del resto è profonda l'impronta del linguaggio burzumiano, ben radicato nel DNA delle composizioni e palese nel riffing ricorsivo, nelle linee melodiche, negli arpeggi, nei giochi di pause e ripartenze, nelle vocalità esacerbate: gracchianti, acuminate, monotone come a voler esprimere una sofferenza cieca, una disperazione "dagli occhi privi di iride e pupille" che è oramai al di là di ogni possibilità di salvezza. Precisato questo, v'è da dire che il Nostro ha risorse creative tali che gli permettono di lasciarsi le influenze alle spalle e di dirigersi con personalità verso lo sviluppo e il consolidamento degli approcci, delle sensibilità e degli stilemi del DSBM come entità autonoma.
La storia del genere si scrive attraverso quattro lunghi brani per una durata complessiva di 49 minuti. Ecco la scaletta (non so se rendo l'idea...):
1. "Depression - Part I" (12:39)
2. "Betrayed" (11.44)
3. "Depression - Part II" (07:23)
4. "Despondency" (17:32)
Rout si fa carico di tutti gli strumenti e padroneggia assai bene la chitarra, infilando più di un riff vincente: un fiume in piena dal quale via via affiorano anche degli spunti rock. Personalmente ci sento persino del grunge in taluni passaggi, ma prendete l'affermazione con le pinze: quel che voglio dire è che l'emotività espressa attraverso le sei corde è debordante e valica i confini del black metal. La performance dietro al microfono, invece, risulta assai dimessa e per niente sopra le righe, come invece spesso capita in questi ambiti. Rout, inoltre, è anche un batterista (ruolo che ha svolto in tutte le sue altre band: Blood Duster, Destroyer 666, Filth, Hecatomb - beninteso, tutta roba che non è andata oltre demo, split ed EP) e sebbene su quest'album impieghi una drum-machine (stranezze della vita...), questa "sensibilità ritmica" emerge nel dinamismo dei brani che vivono di frequenti cambi di tempo ed anche accelerazioni.
Non aspettatevi dunque assenze protratte allo sfinimento, minuti e minuti di arpeggi lasciati a girare a vuoto o il classico quattro quarti reiterato ad oltranza. L'elemento depressive è dato dalla rovente emotività che traspare dalle melodie chitarristiche, ossessive nell'incedere, ma dinamiche ed inclini alla variazione tematica: i brani coinvolgono, in essi le idee non vengono centellinate e non si disdegna nemmeno qualche momento più quadrato ed epico che tradisce qualche reminiscenza bathoriana.
Del resto l'immediatezza e la mancanza di rigore (o, per meglio dire, l'arte di tirare via e fare le cose a cazzo di cane!) sono tratti che ritroveremo spesso nel depressive. Non si opera per sottrazione, come avremmo potuto aspettarci: "Suicidal Emotions" non è un album minimale. Tagliare, selezionare, del resto, sarebbe stato troppo faticoso, sarebbe stato come mediare e tarpare le ali a brani che volano grazie all'istinto e non alla ragione. Tutto esce di getto e tutto quadra perché l'ispirazione supporta l'urgenza. Peccato solamente per la leggera ingessatura procurata dall'utilizzo della drum-machine, laddove un batterista in carne ed ossa avrebbe dato più calore e scorrevolezza al tutto.
La superiorità del linguaggio del black metal nel descrivere le sfere dell'interiorità diviene evidente in lavori come questo che sanno coniugare una notevole ispirazione melodica (impressionante la quantità dei riff da antologia disseminati per l'intero platter) all'estro estemporaneo che porta ad allestire brani considerevolmente lunghi ma che non annoiano un istante. Ce lo spiega bene la conclusiva "Despondency", diciassette minuti sempre sulla cresta dell'onda, un tour de force chitarristico che si sviluppa attraverso riff coinvolgenti e il pulsare infaticabile del basso e delle ritmiche. Gli ultimi minuti verranno affidati ad un outro di tastiere, chiamate a sigillare il tomo con gli umori di un tragico requiem, degna chiusura e specchio strumentale delle ultime fatali parole proferite qualche minuto prima con l'ultimo residuo di fiato in gola:
"With death I'll grow in strenght and might
Fading away without remorse
With death I'll this weakened earth
I am at one with the night".