IL
CONTATTO CON IL MONOLITO SLAYERIANO E LA NASCITA DEGLI OBITUARY.
Come
un monolito sceso dal cielo (o scaturente dagli Inferi, fate voi) “Reign
in Blood” è stato un elemento “alieno” nel mondo metal del 1986: i
fatidici ventinove minuti che cambiarono la storia della musica estrema.
Vi
ricordate la celebre pellicola di Stanley Kubrick “2001: Odissea nello
Spazio”, quando nel capitolo iniziale, “L’alba dell’uomo”, il nero
monolite si materializza e gli ominidi vi si accalcano attorno? Essi, entrandovi
in contatto, riceveranno un dono, svilupperanno l’intelletto e diverranno
capaci di costruire strumenti rudimentali per distruggere ed uccidere: nasce
l’Uomo.
Alla
stessa maniera, il capolavoro degli Slayer è un emblema della musica estrema
che diverrà una rivelazione per tutti gli ominidi del metallo. Non siamo
però nella preistoria dell’heavy metal: il 1986, per esempio, è l’anno di
“Master of Puppets”, uno dei momenti più alti del metal tutto, a dimostrazione
di come il genere vivesse allora già una fase di splendente maturità. Eppure
“Reign in Blood” assume un significato storicamente diverso, tanto che, grazie
ad esso, gli Slayer sarebbero divenuti la stella polare per la musica estrema a
venire.
Gli
Slayer, con “Reign in Blood” stendono il Manifesto dell’Estremo. Artisticamente
superano loro stessi, non solo da un punto di vista formale (tecnica esecutiva e
creatività fuori dal comune al servizio della musica più selvaggia possibile),
ma anche da un punto di vista concettuale. In “Reign in Blood” i quattro
musicisti sviluppano un discorso nuovo, operando per riduzione: in
questa opera, privandolo di inutili orpelli, si perviene ad una forma pura
di thrash metal, un thrash metal senza le parti lente, senza la melodia,
senza gli arpeggi, senza i ritornelli orecchiabili (se Araya avesse cantato in
growl, il death metal sarebbe già stato definito nei suoi tratti salienti).
Come
i Black Sabbath, più di un decennio prima, con l’omonima traccia dell’omonimo
primo album recidevano definitivamente il cordone ombelicale che ancora univa
il neonato hard-rock alle radici blues, gli Slayer scollegavano il thrash da
tutto quello che l’aveva preceduto. Quello che rimaneva non era altro che
ritmiche serrate, cambi di tempo storcicollo, riff violentissimi, assolo caotici,
grida lancinanti: una roba che se non eri Dave Lombardo, Jeff Hanneman, Kerry
King e Tom Araya facevi casino e basta. Prima, se volevi essere cattivo, ti
limitavi a pestare duro ed urlare il più possibile, continuando però ad avere
in testa Motorhead, Venom, Discharge e Dead Kennedys. Dopo “Reing in Blood” la
musica estrema non sarebbe stata più uno sfogo senza controllo, ma una scienza
con le sue regole. E queste regole l’avrebbero scritte gli Slayer.
Innumerevoli
band, negli anni, emuleranno le gesta dei quattro Einstein della Teoria
della Brutalità, e fare una lista di queste band sarebbe ozioso quanto
inutile. Chi prima, chi dopo, chi direttamente, chi indirettamente, chi più, chi
meno, un po’ tutti hanno attinto da questa fonte miracolosa. Io stesso amo
periodicamente tornare, con intenti di catarsi, a questo capolavoro (come a
voler tracciare una riga e ripartire da capo), e devo dire che non solo questa
opera non mi stanca mai, ma ogni volta che la riascolto vi riesco a trovare
dettagli sempre nuovi, nuove epifanie. L’altro giorno, per esempio, mi è
balenata nella testa la seguente scena, che poi è il fulcro di questo mio
scritto tutto sommato inutile.
C’è
un passaggio che a parer mio costituisce il momento esatto in cui sono nati
gli Obituary. Ciò accade quando “Altar of Sacrifice” sta per finire e nel
suo svanire irrompe la successiva “Jesus Saves”, senza soluzione di continuità
(un’entità unica potremmo dire, e non è un caso che i due brani, poco più di
cinque minuti in tutto, siano stati ripresentati nella medesima sequenza nel
live ufficiale “Decade of Aggression”).
Il
passaggio in questione fate prima ad andarvelo a riascoltare, tanto si tratta
di qualche manciata di secondi. Provo comunque a descrivervelo: “Altar of
Sacrifice” è di per sé uno dei brani più violenti e dinamici dell’album,
che vanta una parte centrale da manuale in cui, su ritmiche schiacciasassi, si
danno il cambio le grida furibonde di Araya e rasoiate di chitarra solistica.
Non è un caso che essa sia divenuta un classico, sebbene non presenti riff
degni di nota o refrain/chorus da ricordare. Nella parte finale del brano, la
locomotiva slayeriana sembra finalmente deragliare, collassando
progressivamente in una delle poche decelerazioni presenti nell’opera. Il riff
è ossessivo e, mano a mano che rallenta, sembra sfiatare sbuffi di vapore come
farebbe una caldaia sotto pressione, o gemere come una bestia furibonda che
morde il freno dopo una folle corsa.
Ma
proprio mentre questa marcia spossante svanisce con l’ultimo possente accordo, prima
che la nota si esaurisca, attacca il proverbiale riff (quello sì memorabile) in
crescendo di “Jesus Saves” che richiama subito alla mente quei sublimi
minuti iniziali (puro condensato di genialità metallica) del super classico
“Hell Awaits”, di un anno prima. Nel momento in cui l’una si fonde nell’altra, si
crea involontariamente un effetto che potremmo definire progressivo, come se si
allestisse un clamoroso cambio di tempo, quando invece si tratta dello sfumare
di una traccia in quella successiva che si muove ad una velocità differente.
E’
questo l’istante preciso in cui gli Obituary nascono, il punto esatto in
cui avviene il contatto fra il monolito e la zampaccia di scimmie pelose che,
incuriosite, si avvicinano ballonzolando all’oracolo. E’ in quel momento che Donald
Tardy riceve l’illuminazione e grida (sbavando): “Ecco, cazzo, quello
che voglio suonare!”. L’intera carriera della formazione death-metal
floridiana sarà dunque un susseguirsi di riff pesanti e lenti trasportati da ponderate
variazioni ritmiche. In altre parole l’arte degli Obituary non sarà altro
che una serie di variazioni su quell’unico tema, l’eterna ripetizione di quell’unico
momento contenuto in “Reign in Blood”.
In
questa cupezza, ovviamente, rivivono i Celtic Frost (da sempre influenza
dichiarata per la band, e pure tributati con la cover di “Circle of Tyrants” in
“Cause of Death”), ma sono gli Slayer il vero DNA di cui si compone la materia
organica degli Obituary. Gli Slayer, per gli Obituary, sono fondamentali come
l’aria lo è per gli esseri viventi: così fondamentale da essere data per
scontata. Possiamo apprezzare le farfalle o una fetta di torta della nonna,
ma spesso ci scordiamo di ringraziare quell’aria che continuamente esce ed
entra nei/dai nostri polmoni e ci tiene in vita.
Gli
Obituary, del resto, sono solo un’infinitesima parte di quella miriade di
ominidi che entrarono un giorno in contatto con il monolito slayeriano:
di esempi ve ne sarebbero molti altri da fare, ma oggi le nostre futili riflessioni
terminano qui. Altre rivelazioni ci attendono nel futuro, in vista dei prossimi
illuminanti ascolti di “Reign in Blood”.