I MIGLIORI 10 ALBUM DI BLACK METAL NORVEGESE
10° CLASSIFICATO: "WRITTEN IN WATERS"
Mi
accingo a parlare dei Ved Buens Ende..... con lo spirito di rivalsa del
giocatore di calcio che, ancora scottato per aver sbagliato il rigore decisivo nella
competizione precedente, si presenta per primo al dischetto per esorcizzare
l’errore del passato.
Guardate
un po’ cosa scrivevo su “Written in Waters” il 5 novembre 2006 sulle
pagine di Debaser (per leggere l’intera recensione cliccare qui):
“Ci
sono dischi che cambiano il corso della storia, altri invece che, pur essendo
fenomenali, nessuno si caga, e per questo condannati irrimediabilmente a
sprofondare nell'oblio della dimenticanza. Di certo "Written in
Waters" dei norvegesi Ved Buens Ende..... appartiene a questa seconda
categoria.”
E leggete
ora con quali parole concludevo la recensione:
“Questo
"Written in Waters", insieme "Filosofem" di Burzum, e
"Heart of Ages" e "Omnio" degli In the Woods, rimarrà
un episodio isolato che non
apporterà sostanziali novità alla scena, ma che costituirà per
sempre un importante patrimonio per
tutti coloro che ragionano fuori dagli schemi ed apprezzano la
musica in quanto veicolo emozionale ed espressione artistica.”
Cazzate!
Mi viene in mente quel discografico geniale che disse ai Rolling Stones: “Cambiate
cantante o non farete mai successo!” Il fatto è che sul finire degli anni novanta
persi interesse per il black-metal, ritenendolo (erroneamente) un filone
esaurito. Semplicemente non credevo più in una sua evoluzione, ingannato dalle
tendenze di fine millennio in cui certi guardavano indietro in direzione
Motorhead e Celtic Frost (è il caso del black’n’roll reazionario di
Darkthrone, Satyricon e Carpathian Forest), mentre altri uscivano direttamente fuori
dal genere (gli Ulver approdavano all’elettronica, gli Emperor non so a che
cosa).
Ma
mi sbagliavo: un po’ per ignoranza, un po’ perché i tempi non erano effettivamente
maturi, non avevo previsto che l’evoluzione del black metal avrebbe
effettivamente ripreso il suo corso, dopo qualche anno di assopimento.
Quando
nel 2006 scrissi la recensione di “Written in Waters” ignoravo l’esistenza
della sotto-categoria “depressive”, ed ignoravo che sia in Europa (Shining,
Silencer) che negli States (Xasthur, Leviathan) proliferasse un
numero sempre maggiore di adepti del Conte che vedevano nel suo epitaffio
artistico (pre-carcere) “Filosofem” una fonte di ispirazione. E così la
velocità si stemperava in tempi lenti ed ossessivi; i riff al vetriolo affogavano
nella rifrazione riverberata di arpeggi elettrificati; lo screaming malefico si
tramutava in un singulto di sofferenza ed agonia.
Ma è
anche vero che nel 2006 molte cose non erano ancora successe. Per esempio
l’etichetta Cascadian Black Metal non era stata coniata (gli Wolves
in the Throne Room, avrebbero debuttato proprio in quell’anno con l’acerbo
“Diadem of 12 Stars”). I francesi Deathspell Omega avevano fatto il
salto di qualità appena due anni prima con il capolavoro “Si Monvmentvm
Reqvires, Circvmpisce” del 2004; i connazionali Alcest, paladini del
rinnovamento “blackgaze”, avrebbero invece pubblicato il loro folgorante
esordio “Souvenirs d'un Autre Monde” un anno dopo, nel 2007. Dall’altra parte
dell’oceano, i newyorkesi Krallice ancora non esistevano, visto che avrebbero
debuttato nel 2008. Questi ultimi e i Deathspell Omega, in particolare, avrebbero
riverniciato a nuovo il vetusto black-metal con una formula a base di
dissonanze e destrutturazioni ritmiche.
Un
po’ quello che facevano i Ved Buens Ende….nel 1995 in occasione del loro
unico parto discografico “Written in Waters” (se non si considera la ristampa
del demo “Those who Caress the Pale”). “Written in Waters” è il tomo “post
black metal” per eccellenza, in anni in cui l’etichetta “ post” non
era così in voga. E proprio con questo album intendo inaugurare questa mia disanima
dei dieci album più significativi del black metal norvegese (per vedere l’introduzione
clicca qui). Godibilissimo fin dalla sua uscita, ma ignorato dai più in quanto “troppo
avanti”, “Written in Waters” ha gettato semi i cui frutti solo molti anni dopo sarebbero
stati raccolti: un potenziale che tutt’oggi non è stato ancora completamente
esplorato (se il tempo mi darà nuovamente torto, mi riservo di riscrivere
un’altra recensione fra dieci anni!)
Come
la Firenze del Rinascimento, la Norvegia degli anni novanta è stata un
luogo di incontro-scambio in cui gli artisti hanno potuto godere di un terreno
di interazione privilegiato per sviluppare idee e stilemi. Se nel 1994 Mayhem
e Darkthrone, rispettivamente con “De Mysteriis dom Sathanas” e “Transilvanian
Hunger”, definivano gli standard del nuovo black-metal, già nel 1995 usciva
“Written in Waters” a distruggere tutto.
Se
il black-metal, come ce lo descrivevano Mayhem e Darkthrone, era qualcosa di
tremendamente veloce, minimale, feroce, ecco che i VBE trasfigurano questi
elementi per svilupparli, senza rinnegarli, verso i lidi della psichedelia,
del noise e dell’avanguardia. I VBE ci insegnano dunque che il black
metal è sostanzialmente un linguaggio ed in quanto tale può essere
declinato come meglio si crede. Un confronto utile, per capire questo concetto,
è quello con i Therion, che suonano originali ed innovativi solo per aver
operato un inedito incrocio fra heavy metal e musica operistica, facendo combaciare
questi mondi apparentemente inconciliabili, ma senza variarne le
caratteristiche intrinseche. Il black metal, invece, forgia un linguaggio essenzialmente
nuovo, non più riconducibile al punk, al thrash metal, al death metal da cui esso
indubbiamente deriva. All’epoca in pochi se ne rendevano conto, considerandolo
come una dei tanti distretti del regno del metallo, quando invece, con il senno
di poi, il black metal avrebbe rappresentato l’ultima vera grande
rivoluzione stilistica del metal. Dalla fine degli anni novanta in poi, con
l’avvento del post-hardcore prima, e del post-metal successivamente, il metal
si riciclerà attraverso l’equalizzazione dei suoni e l’espansione della durata
dei brani. Da un certo punto in poi, l’evoluzione del metal sarà solo una
questione di distorsioni e diluizione.
Il modus
operandi dei VBE, per quanto destrutturante, è invece principalmente progressivo
(qualcuno addirittura ci vede del jazz), in quanto costruisce, o meglio,
smembra, disseziona, rimodella la materia per ricomporla in qualcosa di nuovo,
senza trucchi e senza andare a pescare altrove. Quello che poteva essere un semplice
interludio, qui diviene corpus sonoro: un arpeggio, un riff in tremolo, se
sviluppati, portano a suite complesse. Il basso di Skoll (già membro di Ulver
e poi in campo con gli Arcturus) rimbomba che è una bellezza, ed agisce
sull’incredibile interazione fra le architetture sonore allestite dal fantasioso
Vicotnik (chitarra e voce, direttamente dagli avant-black-metaller Dødheimsgard) e il drumming
dinamico di Carl-Michael (batteria e voce, cortesemente prestato dagli Aura
Noir): costruzioni imprevedibili, dall’andamento sornione e dominate dalle
dissonanze, che ricordano il math-rock dei Don Caballero, il “noise
ante-litteram” dei King Crimson di “Red”, gli esperimenti cacofonici dei
primissimi Velvet Underground. L’operazione non è banale, anche perché ciò non
avviene citando l’uno o l’altro riferimento (la mia teoria rimane che certe
influenze siano state indirettamente assorbite tramite l’ascolto dei Voivod,
che nel metal sono stati fra i più lungimiranti ammiratori del progressive e
della psichedelia), ma sviluppando il discorso in maniera autoreferenziale, attraverso
il linguaggio malleabile del black-metal, che può essere scomposto e slabbrato
a seconda delle esigenze. Non è un caso che proprio il black metal trovi
oggi le maggiori applicazioni, sapendosi adattare al post-rock come allo
shoegaze.
Certo,
a tratti si pesta duro, ma ciò è un atto dovuto, forse indispensabile (come è
indispensabile uccidere in una missione di pace); ben più interessanti sono
quei momenti in cui i tre musicisti si perdono in jam allucinate che
traslano, in una forma più meditativa e cervellotica, il classico riffing deragliante
del black metal. Il tutto condito da voci cantilenanti ed oblique che conferiscono
ai brani un’aura surreale e straniante (laddove le voci pulite nel black
metal, alla stregua di cori di vichinghi od evocazioni odiniche, erano un fattore
atto a creare un’atmosfera solenne ed arcaica).
Diremo
in seguito cos’è il black-metal: per oggi ci limiteremo a dire cosa è il
post-black metal come già lo concettualizzavano i VBE venti anni fa,
ossia l’estensione, in senso progressivo della ferocia di uno dei generi più
estremi che il metal abbia contemplato. Una contraddizione di termini solo
apparente: il terzetto, nelle sue stravaganti movenze, conserva i crismi del
black metal più puro (misantropia, nichilismo ecc.) tant’è che mai i tre
verranno additati come poser: l’agonia e l’odio primigenio del black
metal, elevati ad un livello superiore di astrazione, si fa, grazie ai VBE, atto
artistico, progressione stilistica, crescita e percorso costruttivo verso
qualcos’altro.
Non
come il Lou Reed di “Metal Machine Music”, che era pura
provocazione…