"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

17 ott 2015

PENSIERI A CAZZO SU “THE BOOK OF SOULS” (IRON MAIDEN)


E dunque sarei l’unico a cui è piaciuto l’ultimo degli Iron Maiden? Volete dire che sono uno stronzo?? Che non capisco un cazzo???

Forse la mia vista si è appannata a forza di ascoltare depressive black metal o drone-ambient, ma mi conforta il fatto che sia d'accordo con me quel fighetto di Nergal (leader dei Behemoth) che in “The Book of Souls” ci ha visto qualcosa di “Powerslave” e “Seventh Son of a Seventh Son”, che lo considera il miglior album degli Iron dai tempi di “Brave New World” e che non smetterebbe mai di ascoltarlo...

Quanto a me, correva l’anno 2000 e festeggiavo il ritorno di Bruce (ed anche di Adrian Smith, già che c’ero) comprando “Brave New World” (sì, avevo saltato a piè pari l'era Bayley) ed andandomeli pure a vedere al Gods of Metal di quell’anno. L’album lì per lì non mi dispiacque, ma presto finì rimboccato in una bella trapunta di polvere. A resistere nel tempo, invece, fu il ricordo di quel bellissimo concerto in cui gli Iron (con Bruce in testa) dimostrarono di essere, almeno sul palcoscenico, più vivi che mai.

Terminato l’effetto reunion me ne tornai ad ignorare gli Iron. Me ne disinteressai fino al punto di perdere il conto degli album che via via venivano da loro pubblicati. Sapevo solo che si erano messi a fare canzoni lunghe, rompendo le palle un po’ a tutti. Le copertine, poi, francamente facevano schifo, ed anche questo, se ci pensate, è una assurdità: passi il fatto che dopo vent’anni di carriera una band possa anche perdere lo smalto di un tempo, ma che addirittura l’ufficio marketing che ne cura l’immagine si sia messo a fare cazzate, questo è davvero inconcepibile.

Poi principiarono a fioccare i primi annunci dell’uscita di “The Book of Souls”, le prime anticipazioni, le prime indiscrezioni. Iniziai a riconoscere in me una sensazione strana, a maturare un’inaspettata fiducia in Harris e compagni, nonostante le premesse non fossero buone (se gli Iron erano stati all’unanimità tacciati di essere prolissi, forse riavvicinarmi a loro proprio con un doppio-album lungo più di novanta minuti poteva non essere la scelta più intelligente...). Questa sensazione continuò ad accarezzarmi subdolamente l’inconscio, fin quando, ad un certo punto, mi chiesi ad alta voce: “E se lo prendessi ‘sto “The Book of Souls”? In fin dei conti è un po’ di tempo che non compro un album degli Iron…” (un po' di tempo...quindici anni, nda).

E così l'ho comprato, ed adesso lo posso dire, anzi urlare: Dio benedica Bruce! E non si azzardino ad avvicinarsi a me, nemmeno a cinque metri di distanza, quelli che pensano che Paul-voce sgolata-Di’Anno sia stato un cantante migliore. Bruce E’ La voce degli Iron Maiden e quella voce ha marchiato tutte le mie canzoni preferite degli Iron che, per inciso, sono (in ordine cronologico, le prime dieci): “The Number of the Beast”, “Run to the Hills”, “Hallowed Be Thy Name”, “Flight of Icarus”, “The Trooper”, “2 Minutes to Midnight”, “Rime of the Ancient Mariner”, “Wasted Years”, “Seventh Son of a Seventh Son”, “Fear of the Dark”.

Dio benedica Bruce, si diceva, perché potevamo non avere più lui e la sua lingua a nostra disposizione ed invece rieccolo fra di noi in grande spolvero! Bruce inoltre scrive in totale autonomia il primo e l’ultimo pezzo dell’album, che a mio parere sono i migliori. “If Eternity Should Fail” è un'opener perfetta (fra le migliori opener mai sentite in un album degli Iron), la definirei quasi la “Moonchild del 2015”: intro etereo di tastiere, passo cadenzato da pugilatore, ritornello convincente ed una bella accelerazione nel mezzo. E poi “Empire of the Clouds”, di cui diremo in seguito. E quando il primo e l’ultimo brano di un album funzionano, di solito funziona anche l'album intero.

Vado al punto: tanta gente si lamenta che le nuove canzoni degli Iron sono lunghe e noiose, appesantite da collage strumentali che potevano essere sforbiciati alla grande. Non sono d’accordo: quello che semmai gli Iron non sanno più fare sono i ritornelli. Appurato questo, perché mai si dovrebbero mettere a scrivere brani di quattro/cinque minuti come una volta? Ben vengano allora le lunghe porzioni strumentali, le infinite cavalcate, la pomposità progressive (anche se, più che di progressive, sarebbe opportuno parlare di Iron al cubo!).

A me gli Iron mancavano: siano pertanto benvenuti questi Iron al cubo, queste “infinite Iron” da sorbirsi senza pietà, incondizionatamente, ripetutamente. Meglio una cavalcata strumentale tirata per le lunghe che un ritornello poco riuscito, ecco cosa penso. Esempio degli esempi: “The Red and the Black” (quasi quattordici minuti di roba...) ci affligge con uno scialbo coro da stadio che pretenderebbe essere un ritornello trascinante (ohibò), ma al tempo stesso ci fa commuovere durante la lunghissima sezione strumentale nella quale si avvicendano stupefacenti assolo e fraseggi melodici che-più-Iron-non-si-può, a cui seguono altri stupefacenti assolo ed altri fraseggi melodici che-più-Iron-non-si-può.

Lo so, lo so, è tutto decisamente prevedibile, tutto uguale, e lo dimostra questa scenetta famigliare: l'altro giorno ero in macchina con la mia ragazza ascoltando (e segretamente apprezzando) “The Book of Souls”. Guidavo e di tanto in tanto commentavo ad alta voce qualche passaggio a mio parere significativo, quando ad un certo punto mi fa lei indifferente: “Ma quanto dura questa canzone?”. In realtà eravamo già alla quinta traccia, ma non me la sono sentita di indignarmi più di tanto, perché sostanzialmente aveva ragione: “The Book of Souls” è una melassa sonora assai uniforme, eppure, anche nei passaggi più insulsi, vorrei tanto che non finisse mai. Gioisco innanzi al rock'n'roll smithiano di "Speed of Light" (singolone paraculo), alle scorribande marchiate "Puro Maiden 100%" della title-track (Dio benedica Harris), ad ogni singolo assolo di Murray (Dio benedica anche lui): sarà dunque la vecchiaia che mi porta ad essere così sentimentale?

In molti dicono che non c’era bisogno di fare un doppio album, ma se “The Book of Souls” fosse durato cinquanta minuti non sarebbe stata la stessa cosa: quest’album doveva essere semplicemente così, perché gli Iron erano costretti a strafare, come se, scarichi di energie, avessero avuto bisogno di lunghe rincorse per spiccare il volo.“The Book of Souls” suona vecchio? Di già sentito? Sono d'accordo, ma è un vecchio e un già sentito di tipo piacevole, confortevole, scorrevole, come potrebbe suonarmi un album recente dei Deep Purple: storia della musica che si replica sempre uguale a se stessa, ma con professionalità, classe ed eleganza. Questa è roba che dovrebbe essere protetta dall’Unesco, altroché!

La sensazione di vecchiaia si ha principalmente per via di Nicko McBrain: il suo colpo si fa secco e duro come quello del vecchio che non ha più forza nelle braccia e deve picchiare forte per reggere il tempo. Hanno criticato la sezione ritmica in quanto scarica e monotona, ma io, che son propenso a perdonare i metallari di sessantatre anni (tale è l’età di Nicko McBrain, che ha pure fatto outing e per questo gli voglio ancora più bene!), penso sinceramente che non vi potesse essere performance migliore dietro alle pelli: cadenzata, implacabile, "ATTUTTOIRON", al servizio di quel "TUTTOIRON" edificato da Harris, Murray, Smith e Gers, che procedono inarrestabili ed indolenti come pupazzi caricati a molla.

Ma soprattutto: Dio benedica Bruce! Perché ha scritto “Empire of the Clouds”, che con i suoi diciotto minuti è il brano più lungo nella storia degli Iron Maiden. Il testo si ispira ad un tragico evento avvenuto il 5 ottobre del 1930: lo schianto del dirigibile britannico R101 durante il suo volo inaugurale, un incidente che provocò l’incendio dell’aeromobile e la morte di quarantotto passeggeri. In questa rievocazione c’è tanto del Bruce solista, quel Bruce epico cantautore che non ha mai trovato grandi spazi negli album degli Iron, ma c'è tanto anche del Bruce pilota e del Bruce che ama volare. E il Bruce, in definitiva, che ha lottato contro il cancro.

L’inizio a base di pianoforte e di archi ha suscitato diverse perplessità nel popolo metallico, ma sinceramente me ne infischio: siamo solo ai primi vagiti del brano, che decollerà (in tutti i sensi) al settimo minuto. Chitarre, percussioni marziali e solenni orchestrazioni battono all’unisono suggerendo il dramma che il brano si presta a descrivere. Dei fantasiosi giri di chitarra, in realtà, disegnano immagini bellissime, trasmettendo prima la bellezza del volare e poi l’inferno del precipitare, in un tripudio di emozioni contrastanti (levità, tensione, epicità, disperazione): tour de force chitarristici, cavalcate a denti stretti ed assolo nervosi, una maratona ATTUTTOIRON (che gran cuore hanno gli Iron...) con un Bruce da lacrime nel finale (Dio benedica Bruce) che quasi prende la prima stecca della sua vita per la foga di entrare in scena nell’esatto momento in cui doveva esattamente entrare in scena. Tutti son stanchi, tutti son vecchi, ma con la forza della disperazione riescono a farmi emozionare ancora, riportandomi in una confusa era “pre metal” in cui la voce di Dickinson e le melodie dei Maiden (fra i primi gruppi metal che abbia mai udito) bucavano ed affascinavano le mie orecchie ancora vergini di metal, ma già attratte da quella musica così potente ed affascinante. E piango pensando (senza un motivo in particolare che me lo faccia sostenere) che questa sia l’ultima canzone, non dell’album, ma degli Iron Maiden...


Chissà, forse è solo un’esaltazione momentanea, ma intanto correggo la lista delle dieci mie canzoni preferite: fuori “The Flight of Icarus” e dentro “Empire of the Clouds”…