I
MIGLIORI DIECI ALBUM NON-METAL FATTI DA BAND/ARTISTI METAL
3° CLASSIFICATO: “A DEEPER KIND OF SLUMBER”
Giugno
1997: usciva “One Second” dei Paradise Lost.
Con questo album la band inglese imprimeva un’altra drastica svolta
alla propria carriera: abbandonato da tempo il death-doom che aveva
caratterizzato le origini, e lasciato alle spalle anche il pregevole
gothic-metal di capolavori come “Icon” e “Draconian Times”,
il Paradiso Perduto decise di approdare ai lidi della
dark-wave ottantiana e del pop oscuro dei Depeche Mode. Il passaggio non fu da poco, dato che
i Paradise Lost iniziarono a suonare improvvisamente diversi, più
moderni, più paraculi: le eleganti e stratificate costruzioni sonore
del recente passato lasciavano spazio a riff semplici e
diretti, mischiati ad arrangiamenti di tastiere, pianoforte e pattern
elettronici, con la voce oramai pulitissima di Nick Holmes a far
loro da contorno.
Il
cambio di rotta fu traumatico, ma nessuno si sconvolse. O meglio: io
non mi sconvolsi. Come mai? Perché circa un mese prima era uscito,
nel medesimo ambito, un album ancora più sconvolgente e portatore di
drastici cambiamenti nel Mondo Metal. Maggio 1997:
usciva “A Deeper Kind of Slumber” degli svedesi Tiamat.
Un
utile esercizio per descrivere le distanze navigate da questi
audaci esploratori che osarono, prima di tutti gli altri, spingersi
oltre le Colonne d’Ercole del Metallo (vedi introduzione), è
contrapporre, uno contro l'altro, l'album di approdo alla dimensione
Non-Metal (da un lato) e quello che ha incarnato la forma più
brutale nel passato metal (dall'altro). Nel caso dei Tiamat (nati
dalle ceneri del temibili Treblinka) questa forma brutale è
rappresentata dal full-lenght d’esordio “Sumerian Cry”
(1990), in cui i Nostri erano dediti ad un ruvido e feroce death
metal di marca svedese, che fra l'altro non nascondeva le sue
simpatie per certe morbosità black metal (retroterra da cui
provenivano i Treblinka). Insomma, rispetto ai Tiamat di oggi, una
band completamente diversa.
Che le
vesti del metal estremo stessero strette al leader e fondatore
Johan Edlund fu chiaro fin dagli album appena successivi,
l’ancora rozzo e claudicante “The Astral Sleep” e il già
migliore “Clouds”, opera che si imponeva con prepotenza
nel panorama gothic-metal dell’epoca (era il 1992), grazie
ad un inedito e massiccio impiego di tastiere e voci pulite. Ma il
bello sarebbe arrivato dopo: usciva nel 1994, sotto la
sapiente guida di Waldemar Sorichta (già produttore di altre
realtà in forte evoluzione come Moonspell e Samael),
il capolavoro assoluto “Wildhoney”, ancora ascrivibile
alla categoria metal, ma giusto per qualche potente riff di
chitarra e per il growl di Edlund che sopravviveva
sporadicamente in certi episodi. Per il resto i Tiamat avevano
spostato il loro sguardo altrove: fra i primi estimatori, nel metal,
dei Pink Floyd, e proprio grazie ai loro ascolti extra-metal,
i Tiamat seppero portarsi avanti a tutti nel percorso di
emancipazione dal metal, annettendo al loro sound la fluida
psichedelia e le sontuose costruzioni sonore della gloriosa band
inglese, rilette in un’ottica squisitamente dark. Il manifesto di
tutto questo era la visionaria ballata “Gaia”, vertice
assoluto della produzione della band, sospesa fra imponenti
sinfonismi e struggenti dilatazioni chitarristiche di chiara
ispirazione gilmouriana: mai il metal estremo si era spinto
oltre.
Ma era
ancora il 1994. Tre anni più tardi Edlund avrebbe fatto di “peggio”,
dando alla luce quello che potremmo definire il suo personale
capolavoro. I Tiamat di “A Deeper Kind of Slumber” non
erano infatti più una band vera e propria (l’ultimo superstite
dotato di intelletto era stato il bassista Johnny Hagel, che
aveva cambiato casacca qualche anno prima per confluire nei Sundown,
mediocre progetto electro-goth diviso a metà con Mathias Lodmalm,
leader dei defunti Cemetary). Edlund, oramai padre-padrone
indiscusso e detentore del più assoluto controllo sulla direzione
artistica da intraprendere, decise di dare sfogo, senza più argini e
barriere, al fiume in piena della sua creatività. Una creatività
pungolata e sospinta da una pressante urgenza comunicativa che traeva
origine da vicende biografiche: il Nostro, infatti, usciva da una
importante relazione sentimentale, e come spesso capita in questi
casi, si piange, ma poi ci si lascia alle spalle la vecchia vita, ci
si taglia i capelli e ci si rimette a trombare. Hedlund non è da
meno: si rasa a zero (che volesse voluto dimostrare
di non avere le corna?) ed esce fuori dal metal.
Anzi, già che c’è (fanculo tutto!) esce direttamente fuori
dal rock. Del resto, per un dolore finalmente reale, vivido, non più
romanzato, c’era bisogno di un nuovo medium, meno artefatto, meno
plateale, più adulto ed adatto ad esprimere quel disagio.
“A
Deeper Kind of Slumber”, per quanto portatore di drastici
cambiamenti, fu dunque lo sbocco naturale di un’evoluzione che era
partita da lontano (per questo l’album è stato compreso dai
fan). L’album è infatti perfettamente coerente con quanto l’ha
preceduto, perché la musica dei Tiamat, al netto del doom, del
growl, dei riff imponenti, è sempre stata descrizione
di sogni. E’ il mondo onirico, la dimensione privilegiata
di Edlund, menestrello visionario, regista e conduttore di una vera e
propria orchestra dei sogni: i Tiamat.
In
occasione di “A Deeper Kind of Slumber”, egli si contorna di
fedeli ed onesti mestieranti, che poco aggiungeranno in termini di
estro e scrittura, ma che hanno avuto per lo meno il pregio di far sì
che le visioni del mastermind potessero fluire liberamente. Il
drumming cadenzato di Lars Skold (reduce dalle
registrazioni di “Wildhoney”, allora presente in veste di
semplice session-man) è elementare, ma è l’ideale per
accompagnare le languide ballate dei Tiamat 2.0; il basso di Anders
Iwers (che proveniva dagli appena dissolti Cemetary, dandosi
praticamente il cambio con Hagel) è di mero accompagnamento; dietro
alla seconda chitarra, infine, si nasconde il redivivo Thomas
Petersson, chitarrista dei Tiamat fino ai tempi di “Clouds”
(gli sarà stato sul cazzo Hagel?). Ma si parla di ruoli di contorno,
poiché tutto è sorretto dalle forti spalle di Edlund, impegnato
dietro al microfono (sfoggiando fra l'altro un bel canto baritonale,
monotono ma espressivo), alle chitarre, alle tastiere ed alle parti
di elettronica (tutto suonato con approssimazione, questo va detto,
ma con gran sentimento), nonché autore di musica e testi.
La
musica dei Tiamat, come si diceva, è descrizione di sogni, e proprio
come un flusso onirico si sviluppa e procede “A Deeper Kind of
Slumber”: un’ora di immagini soffuse dove realtà e sogno
si confondono, tredici brani, tutti concatenati fra loro, come
già era successo in “Wildhoney”. Solo l’opener “Cold
Seed” emerge come un corpo estraneo: scelta non a caso come
singolo apri-pista, questa rock-song dalle forti venature
dark, è l’episodio più catchy, diretto ed easy-listening
del lotto e tutto sommato il meno coinvolgente. Sono i Tiamat più
vicini ai Sisters of Mercy quelli che meno ci piacciono: peccato che
la produzione futura della band innalzerà a modello da seguire
proprio questo brano.
È
dalla seconda traccia, la bella “Teonanactl”, semmai, che
il vero viaggio inizia, per mutarsi in un continuum di atmosfere
sognanti in cui vengono amalgamate le ben note atmosfere
pinkfloydiane con inediti rimandi ai Depeche Mode e
suggestioni derivate dall’universo dark. La gamma di generi
esplorati, in realtà, è ben più ampia, visto che con gran
disinvoltura si passerà dal trip-hop fangoso di “The Desolate
One”, alle intense aperture melodiche di un brano evocativo
come “Atlantis as a Lover” (con il suo ritornello
barrettiano e il bell’assolo di violino nel finale, essa è
l’erede diretta dell’inarrivabile “Gaia”, nonché unico punto
di contatto con il passato della band). Senza particolari stridori ci
imbatteremo inoltre nelle divagazioni etniche di “Four Leary
Biscuits” (con tanto di sitar indiano, flauto traverso e
gorgheggi femminili), nel techno-pop depechemodiano
dell’ottima “Only in my tears It Lasts” (uno dei momenti
più intensi dell’album, forte di un pregevole assolo che evoca
ancora una volta il fantasma di Gilmour), nell’EBM danzereccia di
“The Whores of Babylon”.
La
primaverile “Kite” (breve interludio strumentale) apre
alla fase finale dell’album, composta da un trittico di brani al
cardiopalma, specchio ideale dei dolori del giovane Edlund: si
passa così dagli uccellini alla pioggia battente, dalla bucolica
“Phantasma de Lux” (folk-ballad dai risvolti
apocalittici), alla lunghissima “Mount Marylin” (dieci
minuti di sublime rarefazione pinkfloydiana), fino alla
dolente title-track, posta significativamente in chiusura: un
brano dove i nuovi Tiamat si esprimono al loro meglio, portando
all’eccesso, ed in una sintesi perfetta, l’anima visionaria e
quella cantautoriale dell'affranto Edlund.
Dark?
Rock? Cantautorato? Psichedelia? Elettronica? Electro-pop? “A
Deeper Kind of Slumber” è un laboratorio in cui il musicista
svedese fa confluire tutte le sue pulsioni, senza maschere, citando
senza remore modelli per lui irraggiungibili, ma sapendoli
rielaborare in un’ottica personale che lo innalzano a cantautore.
“A Deeper Kind of Slumber” sarà anche l’ultimo lavoro davvero
bello ed ispirato dei Tiamat, che dal successivo “Skeleton
Skeletron” (che titolo del cazzo…), sedotti dalle sirene del
mainstream, cambieranno pelle ancora una volta per
appiattirsi su un sempliciotto goth-rock da classifica, assolutamente
privo di quel fascino che avevano emanavano i loro vecchi lavori,
compresi i primissimi. Consoliamoci andando a riascoltare questo
insuperato capolavoro...
Sogni
d'oro a tutti...