I
MIGLIORI DIECI BRANI “LUNGHI” DEL METAL CLASSICO
10° CLASSIFICATO: “ACHILLES, AGONY AND ECSTASY IN EIGHT PARTS” (MANOWAR)
Nella puntata precedente abbiamo indicato la mitica “2112” dei Rush come la
madre di tutte le suite del Mondo Heavy: quale miglior modo, dunque,
per inaugurare la nostra rassegna, se non con una delle più lunghe suite
mai partorite dall'heavy metal? “Achilles, Agony and Ecstasy in Eight Parts”
è qualcosa di colossale, dalla durata spropositata di 28:37, e la cosa
divertente è che l’hanno fatta i Manowar, non proprio una prog-band,
non proprio la band più raffinata del mondo…
Per fare una suite, infatti, ci vogliono perlomeno una
preparazione da conservatorio, una sensibilità classica ed una grande spocchia.
Dal punto di vista tecnico i Manowar sono degli onesti artigiani, ma possono
vantare una discreta cultura classica: non solo perché ritengono che Wagner
sia l’inventore dell’Heavy Metal, ma anche perché più volte è loro capitato di confrontarsi
con il repertorio classico, basti citare le reinterpretazioni di “William’s
Tale” (del nostro Gioacchino Rossini) e del celebre “Volo del
Calabrone” stuprato dal basso frastornante di DeMayo. Per quanto riguarda
la spocchia, i Manowar di sicuro non ne sono sprovvisti.
Nel 1992 usciva così “The Triumph of Steel”, il
quale, a seconda dei punti di vista, può essere visto come l’album più granitico
che i Manowar abbiano mai realizzato, oppure il primo passo falso di una
carriera che fino ad allora era stata in ascesa e che dopo sarebbe divenuta soltanto
discendente. L’integrità della band, del resto, era stata minata da un drastico
stravolgimento di line-up: gli storici e carismatici Ross the Boss
e Scott Columbus vennero infatti rimpiazzati da David Shankle e Rhyno,
che non seppero elevarsi al di sopra di un dignitoso anonimato. Da un punto di
vista culturale, infine, era cambiato il mondo intero: i Manowar si risvegliarono
in perizoma in una realtà sconvolta dal fenomeno grunge, dove tutto
quello di cui essi erano stati fieri portavoce (il true metal, le moto, il
machismo ecc.) sarebbe divenuto vetusto, obsoleto, ridicolo. E così, mentre il
grunge riportava il rock ad una dimensione intima ed essenziale, i Manowar
aprivano il loro ultimo album con una suite di mezzora sulle gesta di Achille:
l'impressione è che i quattro Re del Metallo abbiano reagito con la
prepotenza del marito poco (ehm...) comprensivo che, appena vede qualche atteggiamento
strano nel comportamento della moglie, decide di rincarare la dose quotidiana di
botte.
Ma vediamo i dettagli:
Prelude
i) “Hector Storms the Wall”
ii) “The
Death of Pathroclus”
iii)
“Funeral March”
iv)
“Armour of the Gods”
v)
“Hector’s Final Hour”
vi)
“Death Hector’s Reward”
vii) The
Desecration of Hector’s Body”
Part 1
Part 2
viii)
“The Glory of Achilles”
Abbiamo persino un preludio, amici miei: un drumming
marziale ed un riff epico vagamente ellenico (?!?) aggrediscono subito
l’ascoltatore; il tempo di un breve rullo di tamburi ed ecco che attacca il
ritmo cavalcante di “Hector Storms the Wall”, un brano cadenzato in
tipico stile Manowar, con un Eric Adams ancora misurato e un Rhyno che
ci dà un assaggio di quello che sarà la sua specialità: doppio-pedale a tutto
spiano. I suoni sono rugginosi, opachi, ma funzionali alle gesta distruttive di
quel figlio di Troia (mi scuso per la battuta) di Ettore. Con “The Death of
Pathroclus” è già tragedia: l’elettricità lascia spazio a campane ed organo
da chiesa (vabbé, lasciamo perdere gli svarioni storici, è l’atmosfera
che conta), Eric Adams offre una interpretazione strepitosa (evocativo,
teatrale, a tratti confidenziale ed ammiccante: insomma un grande!), che
culmina in un crescendo epicissimo in cui si legano presto gli altri strumenti.
Fino a questo punto potremmo definire la suite un capolavoro, ma
purtroppo presto inizieranno le magagne.
Patroclo (migliore amico di Achille) è morto per mano di
Ettore, ed è normale che vi sia da osservare un momento di lutto. I Manowar gli
dedicano un requiem intero (“Funeral March”) sotto forma di un prolisso
assolo di chitarra che Shankle sembra eseguire con lo stesso spirito con cui sarebbe
andato all’ufficio postale per pagare le bollette. Riuscirà tuttavia a far
peggio Rhyno in “Armours of the Gods”, altra evitabile strumentale: il
lunghissimo drum-solo dovrebbe descrivere il dio Efesto che ci dà di
martello ed incudine per forgiare e rifinire armi ed armatura per Achille, che
si prepara per vendicare l’amico. Il tintinnio di piatti prima, le mitragliate
di cassa e il rimbombar di tom tom dopo, lasciano l’ascoltatore fra l’indifferenza,
il disappunto e la noia. Ma soprattutto: c’era davvero bisogno di due
strumentali, una dopo l’altra? E c’era bisogno di celebrare prima il funerale
di Patroclo e poi assistere agli armeggiamenti del fabbro divino nella sua divina
bottega? Vabbè che a casa Manowar le spade son sacre, ma il calo di tensione è
palpabile e l’impressione è che i nostri puntino ad allungare il brodo.
Menomale che con “Hector’s Final Hour” torna la gran
voce di Eric Adams, che fra tutti pare essere l’unico in grado di reggere la
baracca: si tratta di un altro interludio evocativo, nel quale Rhyno torna
funereo, l’organo e i cori ripartono solenni ed Eric Adams presta l’ugola ad
Ettore, consapevole del fatto che presto morirà per mano di Achille. L’immagine
di un Ettore irrequieto che si aggira sulle mura di Troia bestemmiando anche in
turco è palpabile: che dire, uno dei momenti più intensi della suite,
presto fagocitato dalle ritmiche serrate della successiva “Death Hector’s
Reward” (in cui Achille, incazzato come una biscia, riesce finalmente ad
uccidere Ettore).
Ma in tutto questo non abbiamo ancora citato DeMaio,
che giunge puntuale come una sciabola svizzera ad animare le due parti di “The
Desecration of Hector’s Body”: prima strimpellando alla sua maniera il basso
ad otto corde su un tappeto di chitarra acustica, poi dedicandosi ad un
tremendo assolo di basso distorto come solo lui sa fare. Chiude l’intera faccenda
l'immancabile speed-song “The Glory of Achilles”, ai limiti del
thrash-metal e squarciata dai vittoriosi acuti strappa-tonsille di Eric
Adams-Achille galvanizzato più che mai.
Le nostre conclusioni.
C’è da dire che almeno i Manowar hanno avuto (ehm...)
l’umiltà di non voler raccontare tutta l’Iliade, accontentandosi di selezionare
solo le vicende legate allo scontro fra Achille ed Ettore. Al centro della
scena (e non pretendevamo certo uno studio psicologico del personaggio Achille)
riemerge vivido l'armamentario degli argomenti da sempre cari alla band: onore,
coraggio, virtù, battaglie e spade.
Ma attenzione, i Manowar non scelgono un tema perché questo
possa divenire il veicolo per esprimere la loro visione del mondo. Nel caso dei
Manowar questa operazione è impossibile perché essi non sono consapevoli di
avere una visione del mondo, in quanto secondo loro il mondo è così come lo
vedono e basta. Lo stesso mito di Achille viene ricondotto alla semplicità del
loro pensiero. A dimostrazione di questo concetto, basta dare un’occhiata ai
testi delle altre canzoni dell'album: il secondo brano, “Metal Warriors”,
come se niente fosse, dopo trenta minuti di Iliade, ritorna a bomba sulla
sempiterna crociata a favore del metal. E' chiaro che per i Manowar, che si
parli di mitologia greca, di Medioevo, di pellerossa (è il caso di “Spirit
Horse of the Cherokee”), di fantasy o di faide fra Defender e
Poser, è tutto uguale, la stessa identica cosa. Ed è già tanto che, a
questo giro, non ci abbiano ficcato dentro anche le moto…
Musicalmente parlando, i Manowar dimostrano di non aver la
caratura artistica per uscire dal brano di media lunghezza, dimensione a loro più
consona. Non hanno la sensibilità per creare un vero climax (per loro la suite
è evidentemente una questione di mera quantità), procedono dunque in modo
didascalico lungo le traiettorie dell’impianto narrativo, si limitano a
comporre mini-brani che, anche laddove siano passabili, non hanno quella carica
anthemica che possiedono mediamente i loro brani canonici, e, dulcis in
fundo, aggiungono in modo scriteriato inutili divagazioni solistiche, sbilanciando
l’equilibrio dell’insieme. Poche idee in quel contesto di dispersione che
ha ben presente chi ha assistito almeno una volta nella vita ad un concerto dei
Manowar: brani tirati per le lunghe con inutili ed estenuanti finali in cui
ciascun membro della band dà il peggio di sé, il tutto condito da discorsi a
culo ed esibizionismi strumentali assortiti.
Sarà dunque stata la mancanza di Ross the Boss, o il
fatto che Eric Adams abbia dovuto confrontarsi con il cambiamento di
timbrica dovuto all'età; oppure è stata tutta colpa dell’influenza nefasta di
quel porco mondo messo a ferro e fuoco da quegli “sfigati” di Seattle,
fatto sta che i Manowar di “Achilles, Agony and Ecstasy in Eight Parts”
non ci consegnano sicuramente la loro migliore prova. Quanto a noi, non
potevamo non menzionarli nella nostra rassegna, in quanto troppo significativi
per il metal e in grado di offrirci un vivido spaccato di come il metallo più
ortodosso possa uscire dagli schemi interpretando l'esperienza della suite.
Procediamo dunque avanti...