"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

11 ott 2015

MANOWAR: “ACHILLES, AGONY AND ECSTASY IN EIGHT PARTS”




I MIGLIORI DIECI BRANI “LUNGHI” DEL METAL CLASSICO

10° CLASSIFICATO: “ACHILLES, AGONY AND ECSTASY IN EIGHT PARTS” (MANOWAR)

Nella puntata precedente abbiamo indicato la mitica “2112” dei Rush come la madre di tutte le suite del Mondo Heavy: quale miglior modo, dunque, per inaugurare la nostra rassegna, se non con una delle più lunghe suite mai partorite dall'heavy metal? “Achilles, Agony and Ecstasy in Eight Parts” è qualcosa di colossale, dalla durata spropositata di 28:37, e la cosa divertente è che l’hanno fatta i Manowar, non proprio una prog-band, non proprio la band più raffinata del mondo…


Per fare una suite, infatti, ci vogliono perlomeno una preparazione da conservatorio, una sensibilità classica ed una grande spocchia. Dal punto di vista tecnico i Manowar sono degli onesti artigiani, ma possono vantare una discreta cultura classica: non solo perché ritengono che Wagner sia l’inventore dell’Heavy Metal, ma anche perché più volte è loro capitato di confrontarsi con il repertorio classico, basti citare le reinterpretazioni di “William’s Tale” (del nostro Gioacchino Rossini) e del celebre “Volo del Calabrone” stuprato dal basso frastornante di DeMayo. Per quanto riguarda la spocchia, i Manowar di sicuro non ne sono sprovvisti.

Nel 1992 usciva così “The Triumph of Steel”, il quale, a seconda dei punti di vista, può essere visto come l’album più granitico che i Manowar abbiano mai realizzato, oppure il primo passo falso di una carriera che fino ad allora era stata in ascesa e che dopo sarebbe divenuta soltanto discendente. L’integrità della band, del resto, era stata minata da un drastico stravolgimento di line-up: gli storici e carismatici Ross the Boss e Scott Columbus vennero infatti rimpiazzati da David Shankle e Rhyno, che non seppero elevarsi al di sopra di un dignitoso anonimato. Da un punto di vista culturale, infine, era cambiato il mondo intero: i Manowar si risvegliarono in perizoma in una realtà sconvolta dal fenomeno grunge, dove tutto quello di cui essi erano stati fieri portavoce (il true metal, le moto, il machismo ecc.) sarebbe divenuto vetusto, obsoleto, ridicolo. E così, mentre il grunge riportava il rock ad una dimensione intima ed essenziale, i Manowar aprivano il loro ultimo album con una suite di mezzora sulle gesta di Achille: l'impressione è che i quattro Re del Metallo abbiano reagito con la prepotenza del marito poco (ehm...) comprensivo che, appena vede qualche atteggiamento strano nel comportamento della moglie, decide di rincarare la dose quotidiana di botte. 

Ma vediamo i dettagli:

Prelude
i) “Hector Storms the Wall”
ii) “The Death of Pathroclus”
iii) “Funeral March”
iv) “Armour of the Gods”
v) “Hector’s Final Hour”
vi) “Death Hector’s Reward”
vii) The Desecration of Hector’s Body”
Part 1
Part 2
viii) “The Glory of Achilles”

Abbiamo persino un preludio, amici miei: un drumming marziale ed un riff epico vagamente ellenico (?!?) aggrediscono subito l’ascoltatore; il tempo di un breve rullo di tamburi ed ecco che attacca il ritmo cavalcante di “Hector Storms the Wall”, un brano cadenzato in tipico stile Manowar, con un Eric Adams ancora misurato e un Rhyno che ci dà un assaggio di quello che sarà la sua specialità: doppio-pedale a tutto spiano. I suoni sono rugginosi, opachi, ma funzionali alle gesta distruttive di quel figlio di Troia (mi scuso per la battuta) di Ettore. Con “The Death of Pathroclus” è già tragedia: l’elettricità lascia spazio a campane ed organo da chiesa (vabbé, lasciamo perdere gli svarioni storici, è l’atmosfera che conta), Eric Adams offre una interpretazione strepitosa (evocativo, teatrale, a tratti confidenziale ed ammiccante: insomma un grande!), che culmina in un crescendo epicissimo in cui si legano presto gli altri strumenti. Fino a questo punto potremmo definire la suite un capolavoro, ma purtroppo presto inizieranno le magagne.

Patroclo (migliore amico di Achille) è morto per mano di Ettore, ed è normale che vi sia da osservare un momento di lutto. I Manowar gli dedicano un requiem intero (“Funeral March”) sotto forma di un prolisso assolo di chitarra che Shankle sembra eseguire con lo stesso spirito con cui sarebbe andato all’ufficio postale per pagare le bollette. Riuscirà tuttavia a far peggio Rhyno in “Armours of the Gods”, altra evitabile strumentale: il lunghissimo drum-solo dovrebbe descrivere il dio Efesto che ci dà di martello ed incudine per forgiare e rifinire armi ed armatura per Achille, che si prepara per vendicare l’amico. Il tintinnio di piatti prima, le mitragliate di cassa e il rimbombar di tom tom dopo, lasciano l’ascoltatore fra l’indifferenza, il disappunto e la noia. Ma soprattutto: c’era davvero bisogno di due strumentali, una dopo l’altra? E c’era bisogno di celebrare prima il funerale di Patroclo e poi assistere agli armeggiamenti del fabbro divino nella sua divina bottega? Vabbè che a casa Manowar le spade son sacre, ma il calo di tensione è palpabile e l’impressione è che i nostri puntino ad allungare il brodo.

Menomale che con “Hector’s Final Hour” torna la gran voce di Eric Adams, che fra tutti pare essere l’unico in grado di reggere la baracca: si tratta di un altro interludio evocativo, nel quale Rhyno torna funereo, l’organo e i cori ripartono solenni ed Eric Adams presta l’ugola ad Ettore, consapevole del fatto che presto morirà per mano di Achille. L’immagine di un Ettore irrequieto che si aggira sulle mura di Troia bestemmiando anche in turco è palpabile: che dire, uno dei momenti più intensi della suite, presto fagocitato dalle ritmiche serrate della successiva “Death Hector’s Reward” (in cui Achille, incazzato come una biscia, riesce finalmente ad uccidere Ettore).

Ma in tutto questo non abbiamo ancora citato DeMaio, che giunge puntuale come una sciabola svizzera ad animare le due parti di “The Desecration of Hector’s Body”: prima strimpellando alla sua maniera il basso ad otto corde su un tappeto di chitarra acustica, poi dedicandosi ad un tremendo assolo di basso distorto come solo lui sa fare. Chiude l’intera faccenda l'immancabile speed-songThe Glory of Achilles”, ai limiti del thrash-metal e squarciata dai vittoriosi acuti strappa-tonsille di Eric Adams-Achille galvanizzato più che mai.

Le nostre conclusioni.

C’è da dire che almeno i Manowar hanno avuto (ehm...) l’umiltà di non voler raccontare tutta l’Iliade, accontentandosi di selezionare solo le vicende legate allo scontro fra Achille ed Ettore. Al centro della scena (e non pretendevamo certo uno studio psicologico del personaggio Achille) riemerge vivido l'armamentario degli argomenti da sempre cari alla band: onore, coraggio, virtù, battaglie e spade.

Ma attenzione, i Manowar non scelgono un tema perché questo possa divenire il veicolo per esprimere la loro visione del mondo. Nel caso dei Manowar questa operazione è impossibile perché essi non sono consapevoli di avere una visione del mondo, in quanto secondo loro il mondo è così come lo vedono e basta. Lo stesso mito di Achille viene ricondotto alla semplicità del loro pensiero. A dimostrazione di questo concetto, basta dare un’occhiata ai testi delle altre canzoni dell'album: il secondo brano, “Metal Warriors”, come se niente fosse, dopo trenta minuti di Iliade, ritorna a bomba sulla sempiterna crociata a favore del metal. E' chiaro che per i Manowar, che si parli di mitologia greca, di Medioevo, di pellerossa (è il caso di “Spirit Horse of the Cherokee”), di fantasy o di faide fra Defender e Poser, è tutto uguale, la stessa identica cosa. Ed è già tanto che, a questo giro, non ci abbiano ficcato dentro anche le moto…

Musicalmente parlando, i Manowar dimostrano di non aver la caratura artistica per uscire dal brano di media lunghezza, dimensione a loro più consona. Non hanno la sensibilità per creare un vero climax (per loro la suite è evidentemente una questione di mera quantità), procedono dunque in modo didascalico lungo le traiettorie dell’impianto narrativo, si limitano a comporre mini-brani che, anche laddove siano passabili, non hanno quella carica anthemica che possiedono mediamente i loro brani canonici, e, dulcis in fundo, aggiungono in modo scriteriato inutili divagazioni solistiche, sbilanciando l’equilibrio dell’insieme. Poche idee in quel contesto di dispersione che ha ben presente chi ha assistito almeno una volta nella vita ad un concerto dei Manowar: brani tirati per le lunghe con inutili ed estenuanti finali in cui ciascun membro della band dà il peggio di sé, il tutto condito da discorsi a culo ed esibizionismi strumentali assortiti.

Sarà dunque stata la mancanza di Ross the Boss, o il fatto che Eric Adams abbia dovuto confrontarsi con il cambiamento di timbrica dovuto all'età; oppure è stata tutta colpa dell’influenza nefasta di quel porco mondo messo a ferro e fuoco da quegli “sfigati” di Seattle, fatto sta che i Manowar di “Achilles, Agony and Ecstasy in Eight Parts” non ci consegnano sicuramente la loro migliore prova. Quanto a noi, non potevamo non menzionarli nella nostra rassegna, in quanto troppo significativi per il metal e in grado di offrirci un vivido spaccato di come il metallo più ortodosso possa uscire dagli schemi interpretando l'esperienza della suite.

Procediamo dunque avanti...