Avremmo potuto fare finta di
niente. Avremmo potuto.
In fondo, MM non nasce con l’intento di far conoscere
le nostre opinioni sugli album appena usciti. Per quello, per le recensioni dei
nuovi dischi del mondo Metal, basta clickare su uno dei link sulla sinistra del
Blog e se ne trovano quante se ne vuole.
Avremmo anche potuto limitarci a
citarlo qua e là in altri post futuri. Così…en
passant… Avremmo potuto.
Però, signori, è uscito dopo 5 anni
un disco degli Iron. Si può rimanere indifferenti? Possiamo effettivamente far
finta che non sia successo nulla?
E poi che album: il primo doppio in studio
della band in 35 anni di carriera! Quello con la loro canzone più lunga di
sempre! Quello dopo la lotta contro il tumore alla lingua di Bruce!
Quello che,
chissà, data l’età dei protagonisti potrebbe essere l’ultimo disco in studio…
Avremmo potuto, si. Ma diciamocelo:
non si poteva. Quantomeno IO non potevo, cresciuto come sono stato a pane e Maiden.
E allora: “The Book of Souls”
esce il 4 settembre ed il 5 settembre fa già parte della mia discografia. Lo tengo
lì. Non lo ascolto subito. Temo. Ho paura. Della delusione, del flop. So già in
linea di massima cosa attendermi, dati gli ultimi 15 anni di produzioni
discografiche post-reunion.
Già, la reunion…quel fatidico 1999, la gioia per il
ritorno all’ovile di Bruce e Adrian. L’inizio della Quarta Era degli Iron! Con
la formazione a sei!
Si, ho il nuovo album lì, pronto all’ascolto ma preferisco prima andare indietro con la memoria, ripensando a quel 23 settembre 1999, il Filaforum di Assago stracolmo per vederli di nuovo tutti assieme: è l’Ed Hunter Tour, la tournée che celebra il ricongiungimento; una
festa, un tripudio per la band e il suo popolo. Che concerto, ragazzi! Da
pianti, da urlo! Avevo le lacrime agli occhi quando come opening fuoriuscirono dalle casse le parole registrate del “Churchill’s speach”, il preludio a “Aces High”! E poi “Wasted Years” e tanti
altri super-classici! Che carica, che classe! Sempre i primi dal vivo…e se
questi erano i presupposti, tutto faceva ben sperare per l’imminente nuovo
album in studio.
E così mi approcciai con grande
entusiasmo a “Brave New World” quando, nel 2000, venne pubblicato. Che per me
devo dire non fu una sorpresa. Mi aspettavo esattamente quell’album, con quei pezzi lunghi e dilatati. Del resto per tanti anni gli Iron avevano dimostrato ampiamente
di scrivere brani-capolavoro con qualsiasi tipo di minutaggio, anche al di
sotto dei tre minuti (vedi “Wratchild”). E quindi non aveva senso andare a
riproporre un disco in stile anni ottanta nel 2000.
Peraltro i prodromi di questo
approccio erano già ben visibili nei due dischi della tanta vituperata Terza
Era dei Maiden, quella con Blaze Bayley alla voce.
E qua devo aprire una
doverosa parentesi: so di essere profondamente impopolare a dirlo, ma per me
“The X Factor”, è un album della madonna, stra-sottovalutato, ma pregno di
un’oscurità, un pessimismo e una cupezza incredibile; sensazioni veicolate in
primis dalla stupenda copertina (l’ultima grande copertina dei Maiden, almeno
fino al 2015…); un album dalle mille sfaccettature (grazie anche alla
produzione di Nigel Green), caratterizzato da testi tra i più ispirati e
profondi della carriera dei Nostri e da un songwriting di altissimo livello, sempre
col marchio di fabbrica I.M. ben riconoscibile ma che giustamente
segnava sia un distacco perentorio dall’ultimo periodo della Seconda Era (la prima
con Bruce alla voce), sia una pista evolutiva interessante e non banale.
Una
pista tracciata in maniera profondissima dall’incredibile “The Sign of the
Cross”, posta emblematicamente, e coraggiosamente dati i suoi 11 minuti, in
apertura del platter, e ribadita nel suo prosieguo da brani memorabili come
“Fortunes of War”, “The Aftermath” (per me top
song del disco), “The Edge of Darkness” e la conclusiva “The Unbeliever”,
bellissimo brano, molto audace nel suo strano sperimentalismo progressive.
“The X Factor” fu quindi un disco
particolare e che decideva di mettere in bella mostra, in un contesto
heavy/dark, quella vena simil-prog che io, nei Maiden, in
realtà ho sempre visto, già dal primo disco!! Come chiamare infatti un pezzo
monumentale come “Phantom of the Opera” del debut album? Non era già lì una
canzone prog? E, ad eccezione di “Killers” e di “No Prayer for the Dying”, Harris
e soci hanno sempre disseminato nei loro dischi tracce di questo tipo: da
“Hallowed Be Thy Name” a “Revelations” (per chi scrive le due canzoni più belle
mai composte dalla Vergine di Ferro); da “The Rime of the Ancient Mariner” all’esplosione
heavy/prog dei capolavori “Somewhere in Time” e “Seventh Son of a Seventh Son”.
Come detto, questa propensione si perse con i due successivi full-lenght, anche
se, proprio in “Fear of the Dark” riemerse in maniera superba e perfettamente
bilanciata proprio nella title track, pezzo immortale, scolpito nella storia
dell’Heavy Metal. Tutte canzoni accomunate da una cosa: suonano tipicamente maiden, ma al quadrato, per estensione e struttura. Ecco perché ho scritto
“simil-prog”: la forma canzone non veniva, e non viene tuttora,
sistematicamente travalicata, ma, appunto dilatata, piegata ai funambolismi,
comunque sempre classicamente heavy,
dei musicisti.
E allora: nonostante Blaze, che anche dal
vivo si confermò sia tecnicamente che come presenza scenica incapace di
scaldare i cuori, rimasi stra-affascinato da TXF e contento della nuova strada
intrapresa nel 1995. Ma poi ci fu “Virtual XI” (1998), l’album peggiore dei Maiden (forse solo
dopo “No Prayer for the Dying”) e il mio entusiasmo scemò. Certo, c’era “The Clansman”
che rimaneva una perla assoluta, ma in mezzo a un mare di merda. E Blaze non lo
sopportavo più. Non sapevo se mi faceva più incazzare o mi faceva più pena.
Ricapitolando, “Brave New World” doveva
essere un album importante per tutte queste ragioni.
E lo fu. Non tanto perché qualitativamente più che buono (a mio modo di vedere da “7” abbondante) quanto per il fatto che conteneva tre-canzoni-tre fondamentali per quello che a mio modo di vedere doveva essere il futuro della nostra amata Vergine:
E lo fu. Non tanto perché qualitativamente più che buono (a mio modo di vedere da “7” abbondante) quanto per il fatto che conteneva tre-canzoni-tre fondamentali per quello che a mio modo di vedere doveva essere il futuro della nostra amata Vergine:
- GHOST OF NAVIGATOR: io la definisco la nuova “2 Minutes
to Midnight”; è una classica maiden-song con grande gusto melodico,
grandi cambi di tempo, strofe trascinanti e un chorus avvincente e azzeccato,
con un delizioso accenno di quella vena progressive che avevamo intravisto
nella Terza Era Bayleyiana, il glorioso passato riletto negli anni 2000;
- BLOOD
BROTHERS: soffusa ed atmosferica, è caratterizzata da un uso sapiente delle
tastiere in cui lo stile inimitabile dei Nostri è declinato su un mood epico da capogiro, al quale contribuisce
in maniera determinante la bellissima orchestrazione di J. Bova. La canzone,
dal sapore celtico sulla falsariga di quanto fatto due anni prima proprio con “The
Clansman”, è quella che probabilmente avrebbero da sempre voluto comporre i
Manowar, senza riuscirci…
- THE THIN LINE BETWEEN LOVE AND HATE:
beh…capolavoro. Questa è la Canzone-con-la-C-maiuscola
del nuovo millennio dei Maiden! Tutti gli elementi, del vecchio e nuovo corso, sono mixati in maniera perfetta ma con una volontà di sperimentazione e di crescita ammirevole: incedere imperioso, melodie ricercate, riffing potente e trascinante, assolo ispirati, vena progressiva, rallentamenti e arpeggi da brividi lungo la schiena. E un’interpretazione
di Bruce, con linee vocali multiple, carica di passionalità. Nonostante duri 8 minuti e rotti e contenga tutte queste sfaccettature, il brano rimane bilanciato e asciutto, non dando mai l'impressione di essere ridondante ma anzi in conclusione sintetico. L’idealtipo weberiano della nuova canzone
maideniana. Un esempio che in futuro ritroveremo davvero in rarissime occasioni e mai a questi livelli qualitativi.
Insomma tre
canzoni, diverse e complementari tra
loro, onnicomprensive dei Maiden
versione 4.0 su cui basare la discografia post-reunion e intorno alle quali giostrare a piacimento. Cosa peraltro fatta su BNW, dove si alternavano pezzi più classici e dal minutaggio più ristretto ("The Wicker Man", "The Fallen Angel", "The Mercenary") ad interessanti divagazioni desertiche (“The Nomad”) ed esperimenti più hardrockeggianti (“Out of a Silent Planet”).
Ma dal
successivo “Dance of Death” (2003), la formula di scrittura utilizzata da Harris e
soci ricalcherà solo in parte la linea di quelle tre songs; la
formula principale sarà quella che invece aveva caratterizzato altri pezzi
contenuti in BNW, come la title-track e “Dream of mirrors”; e cioè: intro lenti
e/o atmosferici, strofa+ritornello, strofa+ritornello, lunghe parti strumentali
e finale che riprende le sonorità degli incipit. Insomma, più che un heavy/prog,
una declinazione, come ha scritto giustamente il nostro Mementomori, di un Iron-sound, non più “solo” al quadrato,
ma al cubo.
Il problema non era tanto la dilatazione delle parti strumentali quanto semmai tutto il resto: i chorus latitavano (pur essendo ripetuti allo sfinimento!), l’ispirazione si vedeva solo a tratti in mezzo a cotanta prolissità e la volontà di cambiare e di evolversi pure. Su quest'ultimo punto qualche timido tentativo si intravedeva (vedi la suggestiva “Journeyman”, riuscito esperimento acustico), ma in generale “Dance Of Death” era un BNW meno ispirato e senza quei grandi highlights del suo predecessore.
Il problema non era tanto la dilatazione delle parti strumentali quanto semmai tutto il resto: i chorus latitavano (pur essendo ripetuti allo sfinimento!), l’ispirazione si vedeva solo a tratti in mezzo a cotanta prolissità e la volontà di cambiare e di evolversi pure. Su quest'ultimo punto qualche timido tentativo si intravedeva (vedi la suggestiva “Journeyman”, riuscito esperimento acustico), ma in generale “Dance Of Death” era un BNW meno ispirato e senza quei grandi highlights del suo predecessore.
E la conferma
che la china sembrava davvero essere stata presa arrivò con l’appena
sufficiente “A Matter of Life and Death” (2006), e il mediocre “The Final Frontier”
(2010), due mazzate tremende per il sottoscritto. Ascoltati molto alla loro
uscita, hanno preso polvere nel corso degli anni non avendo nessuno stimolo per
continuarne l’ascolto.
Si riprendevano tutti gli stilemi dei due dischi
precedenti, ma con sempre meno idee, sempre meno verve, sempre meno
ispirazione. Se 8-9-10 minuti di canzone reggono per qualità e intensità (come
ad esempio in DoD la title track o “Montsègur”) allora va bene per carità…ma
quando già cominciano ad essere come “The Reincarnation of Benjamin Breeg” o
“Brighther Than a Thousand Suns” allora il latte alle ginocchia è lì lì per
salire.
Certo non tutto era da buttare (del resto quando la classe non è acqua…)
ed anche in quei dischi si ritrovavano momenti di altà intensità, a volte
buttati nel cesso dai soliti disastrosi chorus (vedi “For the Greater Good of
God”, ma gli esempi tratti dagli ultimi due dischi sono numerosi), ma i momenti
da urlo si potevano davvero contare sulle dita di una mano…ed è per questo che,
se volevo riascoltare qualcosa della mia Vergine
Amata in formato Terzo Millennio, tornavo sempre a “Brave New World”.
Tutti questi
pensieri mi accompagnavano mentre tenevo lì “The Book of Souls”.
Era come avere un elefante in casa e far finta di nulla, che non ci fosse…che il problema non esistesse…
Era come avere un elefante in casa e far finta di nulla, che non ci fosse…che il problema non esistesse…
E non mi
decidevo ad ascoltarlo. Finchè il fatidico momento giunse…e l’elefante
effettivamente mi si materializzò davanti…
(continua domani con la recensione)