I
MIGLIORI DIECI BRANI “LUNGHI” DEL METAL CLASSICO
4° CLASSIFICATO: “JACK LUMINOUS” (VOIVOD)
“The Outer Limits”
ha rappresentato un importante snodo nella carriera dei Voivod. Correva
l’anno 1993 e dopo la sua uscita, mi ricordo, si percepì chiaramente una
sensazione di smarrimento, di “vuoto”, dovuta forse all’abbandono da parte del cantante
storico Denis Bélanger, forse ai timori per un possibile scioglimento,
forse all'incertezza di un mondo (quello metal) che stava cambiando. Ma fu solo
la sensazione di un attimo: appena due anni dopo, come se niente fosse la band
si sarebbe riaffacciata sul mercato discografico con un nuovo cantante, Eric
Forrest, ed un album, “Negatron”, che avrebbe riportato di colpo il sound
dei canadesi alla violenza ed alla pesantezza degli esordi.
Fra
un passato in costante evoluzione ed un
futuro di drastica rottura e ripiegamento verso il passato più remoto, “The
Outer Limits” fu come risucchiato da un buco nero: è come se la carriera
dei Voivod si fosse in quel punto spezzata e i frammenti di quel periodo
fossero stati proiettati in un'altra galassia. L'album divenne quasi subito
irreperibile, scomparendo per un lungo periodo dagli scaffali dei negozi (non
so nemmeno se esso sia stato successivamente ristampato – quanto a me, mi
custodisco gelosamente la copia acquistata nel 1993!) e presto i suoi
brani fecero la stessa fine, dissolti e mai più presenti nelle scalette delle
esibizioni live.
Fra
questi c’era anche la suite “Jack Luminous”, saggio fenomenale di
genialità compositiva ed impeccabilità esecutiva, un’osservazione lunga
ben diciassette minuti e ventisei secondi: meritatissimo quarto posto
nella nostra classifica dei migliori brani lunghi del metal.
E’
un peccato che un gioiello di questo valore rischi di rimanere sconosciuto ai
più. In molti oggi incensano i Voivod, ma spesso ci si riferisce ad album quali “Dimension
Hatross” e “Nothingface”, splendidi esemplari di quel thrash spaziale/progressivo/psichedelico/e-tutto-quello-che-diavolo-volete
con cui i canadesi sono stati con il tempo identificati. Ma questo è vero fino
ad un certo punto: dal caos dei primordi si pervenne sì alla iper-complessità
labirintica degli album appena citati, ma poi il vettore cambiò bruscamente
direzione, orientandosi verso schemi più semplici. In effetti i Voivod, nella
loro imprevedibilità, rischiavano di diventare prevedibili, per questo si rese
necessario un cambio di rotta: “Angel Rat” prima e “The Outer Limits”
dopo ci consegnarono dei Voivod assolutamente inediti, alle prese con pattern
lineari e melodie di facile presa. Un approccio che sacrificherà i fumi della psichedelia
sull'altare della schiettezza del punk, pur non perdendo quello spirito
di ricerca che era stato ereditato dalla migliore tradizione progressive
degli anni settanta.
Non
ci avete capito nulla? Prendete allora un genio delle sei corde come Denis D'Amour, un virtuoso che suona il “thrash metal” con una vagonata di
effetti e con ben in mente le lezioni di Robert Fripp e di David
Gilmour (e non è un caso che sia King Crimson che Pink Floyd
siano stati coverizzati più volte nel corso della carriera dei canadesi). Prendete un
batterista clamoroso come Michel Langevin: tecnico, potente, con uno
stile personalissimo che gli permettere di gettarsi in un'infinità di cambi di
tempo, senza perdere in fluidità e scorrevolezza, un vero trascinatore (nonché
paroliere, illustratore e anima visionaria della band!). Prendete infine una
voce assurda (pulita, sorniona, obliqua, beffarda) quale è quella di Denis
Bélanger, improvvido incontro fra Syd Barrett e Johnny Rotten
(!!!). Lasciate pure vacante per un momento la postazione al basso (in “The
Outer Limits” ci imbatteremo in un session-man, Pierre St-Jean, chiamato
a sostituire il dimissionario Jean-Yves Thiérault) e ricomponete questi
ingredienti in un power-trio di rushiana memoria: avrete i
suoni incomparabili di “Jack Luminous”, apice dell’astrazione
stilistica dei Voivod. Una semplificazione che odora di attenta
riduzione di elementi volta ad una essenza densa di complessità!
E non
abbiamo tirato in ballo i Rush solo perché, come i Voivod, sono canadesi:
la suite “2112”
è per esempio un calzante precedente, visto che anche i Voivod giocano la carta
della fantascienza distopica: l’idea di un brano così lungo nacque, a
detta degli autori stessi, proprio perché tutto doveva essere raccontato in una
volta sola. Il brano, attraverso le parole di un profeta inascoltato (che
presumo essere proprio il Jack Luminoso del titolo), ci racconta
dell'incombente minaccia costituita dal perfido Presidente X-D: tiranno
dominatore della galassia grazie alla sua capacità di manipolare le menti (tema
tipico della fantascienza distopica).
Menzioniamo
i Rush anche perché i Nostri, come pochi altri, hanno saputo coniugare
heavy-metal e rock progressivo in un modo così intelligente, essenziale e non
barocco (che invece è tipico del prog-metal così come lo stavano coniando i Dream
Theater proprio in quegli anni). E’ opportuno a questo punto chiarire una
questione annosa: in tanti definiscono i Voivod come i Pink Floyd del metal,
ma io, da fan di entrambe le band, non ho mai trovato grandi punti di contatto
fra le due entità, se non nelle atmosfere spaziali che possono ricordare i
primi Pink Floyd (si considerino brani come “Astronomy Domine”, fra
l’altro coverizzata dai Voivod, ed “Interstellar Overdrive”), in
certe inflessioni barrettiane nel canto di Belanger o in certi assolo
palesemente gilmouriani di D'Amour. Piuttosto trovo maggiore vicinanza
alle graffianti derive prog dei King Crimson (di album caotici e
dissonanti come “Starless and Bible Black” e “Red”), o con le
fughe allucinate dei Van Der Graaf Generator più cosmici (impossibile
non pensare alla suite “A Plague of Lighthouse Keepers”). E,
credetemi, tutto questo sarà presente in “Jack Luminous” ovviamente
trasfigurato e reso irriconoscibile dall'operare bizzarro e personalizzante dei
tre del Quebec.
Il
brano vive di una grande coesione, sebbene, a guardar bene, sia “scomponibile”
in sette sezioni. La prima è una irresistibile sarabanda strumentale
che funge da introduzione, o, se vogliamo, da overture. Fra effetti
spaziali dallo squisito sapore vintage (sembrano tirati fuori dai film
di fantascienza degli anni trenta!) ed avvincenti cavalcate di chitarra scorrono
così i primi tre minuti. D’Amour è un fiume in piena e dalle sue mani
escono note spericolate che possiamo ricondurre a binari thrash metal (più
che altro per la reiterazione dei riff) spesso spezzati da improvvise virate
hendrixiane. Tutto procede per il meglio, suscitando grandi aspettative.
In
realtà lo sviluppo delle premesse non è scontato (come del resto niente può
essere scontato quando si ha a che fare con i Voivod): il brano, sì dinamico e
variegato, non è di certo un luogo in cui capita di tutto. La sua lunghezza,
per certi aspetti, è solo concettuale, narrativa. Le tre sezioni successive
sono mini-canzoni, ciascuna dotata di un proprio ritornello, tutte e tre
fuse senza lasciar un attimo di respiro all’ascoltatore, come se si trattasse
di un medley (con risultati non distanti, nello spirito, dal travolgente
susseguirsi delle tracce nella seconda facciata di “Abbey Road” dei Fab
Four). Saranno forse abbozzi di canzoni autonome che la band aveva
concepito come episodi isolati, ma anche così legate insieme queste schegge
soniche non sfigurano affatto, grazie all’incredibile lavoro di saldatura
compiuto dietro alle pelli dall’irrefrenabile Langevin che ci trascina a velocità variabili alla quinta
sezione.
Essa
potrebbe essere definita quella dello “scazzo” centrale con assolo,
ed a mio parere è la porzione migliore: una progressione vorticosa che trascina
l’ascoltatore in un escalation di tensione crescente, di velocità
crescente, che culmina in un assolo letteralmente esplosivo. Tornano alla mente
i vecchi Voivod, abili pittori di scenette spaziali al cardiopalma, tratteggianti
navette che sfrecciano alla velocità della luce, computer fuori controllo e
dispositivi sull’orlo del collasso. La ritmiche rimangono sostenute, le
atmosfere si fanno ulteriormente allucinate, non tanto nel senso dello space-rock
degli Hawkwind, bensì per la carica visionaria e schizoide che richiama
palesemente i già citati Van Der Graaf Generator.
Undicesimo
minuto: la quiete dopo la tempesta. Finalmente la batteria si cheta e si
spalanca un’oasi acustica, una sorta di micro-ballad in cui un Belanger
candidamente sconsolato sfoggia una vocalità dimessa e vagamente anni sessanta che ricorda certi momenti di “Angel Rat” (la
title-track). Il montare delle percussioni e delle chitarre elettriche
rafforzate da effetti, delay e risucchi vari, prepara la rincorsa finale
che ci trasporta direttamente alla conclusione di questo incredibile viaggio
interstellare.
Perché
infine ci piace questo brano: perché non è la tipica suite del metallo,
perché non ha l'enfasi tipica della suite del metallo. In questo
capolavoro di ricerca e sintesi (in cui la complessità diviene focalizzazione
di idee e sviluppo ragionato delle stesse, senza ombra di dispersione), i Voivod
dimostrano di essere grandi senza ostentarlo, non ricorrendo ai
sinfonismi con cui spesso si infarcisce un'operazione di questo tipo. Se i
Voivod fossero dei delinquenti, ti ammazzerebbero con un bel sorriso dipinto
sul volto e una semplice coltellata all'addome. Se fossero una bevanda
alcolica, sarebbero un succo si frutta con gin, che al primo assaggio sembra
innocuo, ma che poi ti stende dopo due bicchieri. E tale è “Jack Luminous”:
un brano monumentale di cui scopri la grandezza solo se non ti dimentichi,
verso la fine, di buttare un occhio sul display del lettore cd...