Probabilmente molti cultori del solo Metallo non conosceranno Robert Wyatt: per questo si rende necessaria una breve presentazione del personaggio, da annoverare sicuramente fra le figure più geniali del rock.
Robert
Wyatt nasce come batterista: il suo stile fonde progressive e jazz. E’
lecito definirlo un virtuoso e quello che combina dietro le pelli possiamo
sentirlo nei primi quattro album dei Soft Machine, esponenti di
prim’ordine della cosiddetta scena di Canterbury, nonché una delle più
influenti band in tema di rock progressivo. Wyatt militò nei Soft
Machine Wyatt dal ‘66 al ’71, ma la sua indole visionaria e surreale lo
portò presto fuori dal gruppo. Fondò così una nuova band, i Matching Mole,
mentre qualche tempo prima, nel 1970, aveva rilasciato il suo primo
album da solista: il capolavoro “The End of an Ear”, che verteva verso i
territori dell’avanguardia dadaista.
La
sua carriera di batterista terminerà il 1° giugno del 1973: durante una
festa di compleanno, per fare uno scherzo agli altri invitati, deciderà
di uscire dalla finestra per potersi ripresentare alla porta d’ingresso e così
lasciare tutti a bocca aperta. Lo scherzo però non andrà bene e per l’ebbro
Wyatt la bravata si tradurrà in un salto nel vuoto di tre piani che lo
costringerà su una sedia a rotelle per il resto della sua vita.
Quella
notte il rock perse un grande batterista, ma guadagnò un autore immenso:
Wyatt, infatti, decise di non abbandonare la musica, dedicandosi al canto, alle
tastiere, agli strumenti a fiato e facendosi predisporre delle batterie
speciali prive di charleston e grancassa. Il frutto della sua degenza in
ospedale sarà il classico “Rock Bottom”, uscito nel 1974, indubbiamente
uno dei momenti più alti del rock tutto. Da quel momento egli condurrà una vita
ritirata, curato dall’amorevole moglie, circondato dall’affetto degli amici, nell’intimità
delle quattro mura domestiche. E continuando, nel corso degli anni, a sfornare ottimi
lavori.
Robert
Wyatt aveva la barba fin dagli anni settanta, ma la barba che ci
interessa è quella della maturità, quella della sua vita da invalido: una barba
da grande artista, da uomo intelligente e raffinato militante politico. In
Wyatt la barba la posso capire: è simbolo di saggezza, di una vita placida e
riflessiva fatta di cultura, musica ricercata e visione profonda della vita.
Quello
che non capisco è invece la barba di Araya…
Anno
2015: gli Slayer tornano con il loro nuovo album “Repentless”,
il primo senza Hanneman.
Nel
frattempo, da qualche anno a questa parte, la barba è tornata prepotentemente
di moda: la portano gli hipster e non ci stupiamo se, dal fotomodello
dell’alta moda, fino allo studentello universitario, tutti oggi “indossano”
una folta barba.
Anche
gli Slayer si sono “imbarboniti”, ma non penso che ciò sia dettato dalla
volontà di seguire lo stile hipster. Holt e Bostaph hanno
una “peluria” assai curata e nel complesso non sfigurano come onesti signori di
mezza età. King, vabbè, non si può guardare: la sua barba è la
tipica del metallaro che soffre di forti sensi di colpa perché ad un certo punto
si è tagliato i capelli. Con la sua corpulenta figura egli sembra volerci dire:
“Intanto mi raso a zero, per dimostrarti che non sono un fighetto, e poi mi
faccio crescere una barba da camionista che come minimo mi arriva all’ombelico,
e già che ci sono ingrasso di altri cinquanta chili!, vienimi adesso a dire che
mi sono tagliato i capelli!”. Sebbene sia molto sgradevole alla vista, paradossalmente
King è degli Slayer quello che ci tiene di più al look: è quello che
appena possibile inforca gli occhiali da sole, che si fa tatuare nei posti più
impensabili, che si rasa il cranio, che non solo si sfoltisce la barba ai lati,
ma anche la pettina e l’attorciglia. No, indubbiamente la sua barba non ci
preoccupa: come si diceva, è tipica del metallaro.
Nel
metal, infatti, la barba non è un tabù, c’è sempre stata, soprattutto nelle
zone meridionali degli Stati Uniti: lasciando perdere gli ZZ Top che
fanno storia a sé e che sulle barbe c’hanno costruito una carriera, la barba,
per esempio, al texano piace molto, probabilmente per meglio conservare gli
aromi della birra e della rostinciana “catturati” durante un bel barbecue
a rutto libero. Ma senza scomodare il profondo sud, la
barba è molto in voga negli ambienti del post-hardcore e del post-metal,
dove il dress code da boscaiolo è praticamente d’obbligo.
Ma Araya
cosa c’entra con il post-hardcore? Vederlo in quelle condizioni mi ha un po’
impressionato: capello bianco, barba crespa, incolta, sfibrata e sbiancata di
brutto, sembra proprio il clochard della stazione. Ci saremmo magari
aspettati un pizzo lungo cinquanta centimetri, basettoni da tamarro
sudamericano, ma non una barba così. Non ci scandalizziamo, ma ci chiediamo: perché
lo ha fatto?
La
barba richiama un universo ancestrale a cui spesso fanno riferimento le
band dedite al post-hardcore, ma non è il caso degli Slayer, che certo non ci
parlano di tribù, riti pagani e caccia al cervo. Anzi, proprio l’incontrario:
l’ultimo loro album è un concentrato di odio urbano, di avversione,
ostilità, disprezzo, inimicizia, malevolenza, risentimento, rancore, animosità,
astio, acredine, livore incondizionato verso la politica, l’economia, la
società, l’America, il mondo, tutti. Testi che sembrano scritti da Beppe
Grillo:
“Stufo
di questa merda chiamata politica
Supporto
vitale di un’economia morta
Leader
mondiali dal cervello morto cospirano
Agiscono
con malizia solo per alimentare il fuoco”
Questo,
per esempio, è quello che recita il singolo “Implode”. Niente viene
perdonato dagli Slayer, niente viene compreso perché non c’è niente da
comprendere: la merda non si giustifica e la merda fumante annebbia il mondo
intero. Non c’è niente di costruttivo nella nuova novella degli
Slayer: al massimo c’è un invito ad assecondare l’escalation di
violenza e distruzione per velocizzare il processo di disgregazione della
società e del mondo.
Allora
torno al buon Wyatt, che m’immagino a tavola in un bel cascinale nella sua
buona campagna inglese a fare discorsi educati con gente pacata, davanti ad un
buon vino e pietanze prelibate, e con un bel jazz d’annata di sottofondo.
Discorsi sui grandi sistemi, volti a comprendere la complessità
che ci circonda, a trovare soluzioni, il modo per agevolare il transito pacifico
verso un nuovo sistema mondiale condiviso da tutti i popoli e basato sulla solidarietà
e sull’eco-sostenibilità.
In “Just
as You Are”, bel brano di “Comicopera” (del 2007), udiamo: “Perché
non cambierò niente di te/ mai e poi mai cambierò una cosa di te/ proverò ad
amarti così come sei”. Versi, questi, che esprimono un sofferto e faticoso
processo di accettazione del Diverso. Nel suo caso una bella barba folta e
sbiancata è l’ideale compendio di un volto intelligente, rilassato, ironico,
sorridente, ma anche in grado di riflettere una vasta e complessa interiorità
affranta dalle sue difficili condizioni di salute e da un’intelligenza emotiva
che gli permette di entrare in empatia con gli altri, di essere partecipe e
soffrire delle ingiustizie subite dai più sfortunati.
Ma
la barba di Araya? Faccia rugosa da cileno che da più di trent’anni
sbraita senza pietà una rabbia dilagante che non sembra avere confini. Una violenza
vocale e verbale che, passo dopo passo, ha abbracciato tutto lo scibile umano:
in pratica non si salva più niente. Laddove un preoccupato ed irrequieto Wyatt
si accarezza la lunga barba riflettendo sui temi della guerra e dello
sfruttamento, la barba incolta di Araya si alza ed abbassa trascinata da una
mascella che secerne incessantemente invettive contro tutti.
Ho
cercato dunque la risposta nei testi di “Repentless” e forse ho capito: Araya
s’è rotto i coglioni, ha perso ogni velleità estetica perché,
sorpassati i cinquant’anni, di illusioni se ne fa oramai ben poche. Un po’ come
quegli anziani che da un certo punto in poi escono di casa e vanno a comprare
il giornale in tuta e ciabatte. Fanculo dunque anche il
barbiere, fanculo la moglie se mi dice che faccio schifo, fanculo
tutti quanti. La morte dell’amico Hanneman non deve sicuramente aver
migliorato l’umore. La barba di Araya nasce da questo: dall’amarezza, dalla
trascuratezza, dalla non-speranza, dalla mancanza di uno spirito costruttivo
abbinata alla convinzione di dover lottare corpo a corpo, giorno dopo giorno, casa
per casa, fino al sopraggiungere del collasso definitivo del pianeta terra.
Anche
Araya, come Wyatt, ha la sua ricetta per cambiare il mondo:
“Stai
fissando il venditore di atrocità
Un
fottuto delinquente di pari opportunità
Ho
il piano che cambierà questo mondo
Stai
indietro e guarda i semi dell’odio aprirsi
Non
esiterei mai a spezzarti
Violentarti,
recidere ogni parte di te
Ti
illumino con il cherosene
Ti
osservo bruciare, ti osservo sanguinare
Sono
una tortura senza restrizioni
Cancro
sparato dai miei occhi
Certo
che sì, l’agonia è reale
Posso
mostrarti come ci si sente
La
violenza pulsa nelle mie vene
La
morte regna per sempre”
(da “Atrocity
Vendor” – “Repentless”, 2015)