I
MIGLIORI DIECI ALBUM NON-METAL FATTI DA BAND/ARTISTI METAL
CONCLUSIONI
“Shadows of the Sun”, con cui abbiamo
completato la nostra rassegna, non è stata l’ultima sorpresa che ci hanno
riservato i grandi Ulver, campioni indiscussi del nostro “torneo”: dopo
un’opera interlocutoria come “Wars of the Roses” (nella quale a grandi
linee si procedeva lungo i binari stesi dal lavoro precedente), i Nostri hanno
avuto l’ardire prima di cimentarsi in un album di cover di brani
beat-psichedelici degli anni sessanta (“Childhood’s End”) e poi di confrontarsi
con la musica sacra in “Messe I.X-VI.X”, opera sperimentale che li ha
visti muoversi in direzione ambient, supportati da un’intera orchestra. Senza
poi contare le sperimentazioni drone fatte a braccetto con i maestri Sunn
O))) in “Terrestrial”. E chissà quali altri colpi di scena in futuro
sapranno inscenare i nostri imprevedibili Lupi!
Quanto a noi, ci fermiamo qua raccogliendo un attimo
le idee su quanto ci è stato dato modo di raccontare in questi ultimi mesi.
La conclusione generale è che il metal è un universo
così ampio che è capace di contemplare, all’interno del suo dominio, anche la
negazione di se stesso. E non è una cosa da tutti. In esso abbiamo trovato
cantautorato (Steve Von Till), rock progressivo (Opeth), shoegaze
e dream pop (Alcest), elettronica danzereccia ed industrial-rock
(Mortiis), ambient e musica cosmica (Wolves in the Throne Room),
darkwave e trip-hop (Antimatter), goth-rock (Katatonia), psichedelia
e space rock (The Gatheting), ancora psichedelia ed ancora dark-wave (Tiamat),
rock à-la Radiohead e Sigur Ros (Anathema) e folk, elettronica
d’autore e persino sofisticato pop (Ulver). Direi che gli ambiti
esplorati sono molti e decisamente lontani fra di loro, sia a livello temporale/spaziale
che concettuale: dal rock degli anni settanta alle ultime tendenze in fatto di
shoegaze e post-rock; dal folk degli antichi alla drum’n’bass della metropoli;
dal sofferto cantautorato della prateria americana alla dance ballata nei club
alternativi.
Ma se l’ambizione e il coraggio di osare non sono
mancati, a scarseggiare a volte sono state la sensibilità e la preparazione
indispensabili per affrontare determinate sfide. Anche in un contesto ristretto
quale è quello rappresentato da una top-ten, ci siamo imbattuti
in opere non pienamente riuscite. C’è chi ha toppato in fatto di arrangiamenti,
mixaggio e suoni, chi invece ha mostrato una carenza di scrittura e contenuti
laddove nella veste metallica aveva saputo eccellere. Il caso paradigmatico è
proprio quello da noi citato in apertura: i Paradise Lost, da primi
della classe in fatto di gothic-doom, si sono ritrovati impantanati nella
palude del synth pop, per poi vedersi costretti successivamente a tornare con
le pive nel sacco entro i confini di un canonico doom-death. Per questo,
nonostante il curriculum, non abbiamo ritenuto opportuno inserirli nella
classifica. E come loro, molti altri nomi illustri (Moonspell, Sundown,
Sentenced, Theatre of Tragedy, Lacrimosa, Pyogenesis
ecc., tutta gente più o meno proveniente dall’area gotica).
Ad essere ingiustamente esclusa, invece, è stata una
grande band, tagliata fuori solo per motivi di spazio: i norvegesi The Third
and the Mortal. Nell’arco di soli quattro album e tre EP essi hanno saputo
tracciare una parabola che pochi altri nel metal sono stati in grado di
compiere. Dal doom atmosferico del debutto “Tears Laid on Earth” (1994)
al trip-hop di “Memoirs” (2002), passando per i due album intermedi “Painting
on Glass” (1995) e “In this Room” (1997), che potremmo definire
avant-rock. L’importante status conferito da un inizio di carriera che li ha visti
fra gli esponenti principali del doom/gothic con voce femminile (insieme a The
Gathering, Theatre of Tragedy e Within Temptation) non
ha impedito, successivamente, forti emorragie di fan lungo il loro azzardato
cammino. Una popolarità minata non solo dalla perdita di due cantanti di razza
come Kari Rueslatten e Ann-Mari Edvardsen, ma anche da scelte
coraggiose che in molti non hanno capito. Si scioglieranno dunque nel 2005: lo
stesso identico destino che è stato riservato ai conterranei In the Woods,
dissolti nel medesimo periodo dopo che le sperimentazioni operate nel loro
terzo ed ultimo album “Strange in Stereo” li aveva portati lontano,
troppo lontano, dal black metal ispirato delle origini.
Eccoci dunque ad un altro problema: anche laddove riescano
a penetrare in modo credibile nella dimensione Non-Metal, questi migranti
del metallo devono confrontarsi con la mancanza di un pubblico a cui
rivolgersi, con l’assenza di un target di mercato di riferimento. Per
chi suonano gli Ulver? Per chi gli Anathema? Sebbene la bontà
delle loro proposte sia fuori discussione, il loro pubblico rimane
sostanzialmente composto da quei vecchi fan che li seguono fin dagli esordi. Nella
maggior parte dei casi, ahimè, sono più i sostenitori che si perdono che quelli
che si guadagnano: perché da un lato il metallaro continua ad ascoltare metal e
volge l’attenzione altrove, mentre l’appassionato di elettronica, il fan dei Radiohead
e dei Sigur Ros, tutti costoro manco lo sanno chi sono e cosa fanno gli Ulver e
gli Anathema.
Non aiutano certamente monicker scelti quando
si suonava ancora grezzi e duri. Sebbene Lupi in lingua norvegese non sia
il miglior biglietto da visita per introdursi nei salotti buoni
dell’elettronica e dell’avanguardia, tutto sommato con gli Ulver ci possiamo
ancora stare. E’ invece assurdo stravolgere il proprio sound e continuare
a farsi chiamare Anathema, richiamando la filosofia anticristiana incarnata
alle origini, peraltro promossa da un membro che non fa più parte da tempo dell’organico.
Mi riferisco al cantante Darren White che lasciò presto la band dei fratelli
Cavanagh: quegli stessi Cavanagh che oggi propongono un romantico e
sdolcinato rock molto vicino stilisticamente al pop da classifica dei Coldplay.
Si viene dunque a creare quella terra di nessuno
che abbiamo richiamato nel titolo del post: una zona attraversata da un gruppo
eterogeneo e scollegato di ascoltatori, metallari illuminati, darkettoni curiosi
ed attenti cultori del rock. Con il mondo che cambia, con i nuovi canali di
comunicazione e di diffusione musicale, con i generi e gli stili che tendono a
perdere i loro contorni, e con i giovani d’oggi sempre più privi di preconcetti,
forse un giorno esisterà un pubblico, o qualcosa del genere, per questi artisti
sospesi fra un passato metal ed un presente non-si-sa-bene-cosa.
Artisti che sopravvivono e che evidentemente hanno
senso di esistere anche dal punto di vista del mercato discografico odierno: e
questo è un bene, non tanto per i prodotti finali, che, abbiamo visto, non
sempre sono eccellenti, ma per il fatto che la creatività, l’ispirazione hanno
modo di esprimersi senza ostacoli, senza attriti dettati da confini e dogane
che non hanno più senso di esistere. Una affollata dimensione di libera
espressione artistica: ecco cosa potrebbe divenire questa che oggi è ancora una
terra di nessuno.
Con queste parole si chiude la nostra classifica, che a sua
volta mette il sigillo ad una sorta di trilogia di classifiche. La prima
era stata quella dedicata al black metal norvegese: essa ebbe il compito
di analizzare quello che probabilmente è da considerare l’ultimo genere “puro”
del metal. Il black metal veniva dal punk, dal thrash e dal death, ma non assomigliava
a nessuno di essi: si impose come un genere nuovo, con stilemi propri, non più
riconducibili a quelli dei generi che lo hanno generato. Se Black Sabbath,
Judas Priest e Iron Maiden hanno introdotto degli elementi che
hanno segnato la differenza fra hard-rock ed heavy metal; se Metallica e
Slayer hanno forgiato il thrash-metal che era cosa ben diversa
dall’heavy metal classico; se infine Chuck Schuldiner e i suoi Death
hanno sancito il passaggio da thrash a death-metal, Mayhem e Darkthrone
sono stati i responsabili della genesi del black (il quale non è post-death
metal, sebbene venga dopo di esso).
Poi che successe? Si passò a quello strano mondo che per
comodità abbiamo definito il “Nuovo” Metal: parlandone abbiamo
incontrato nuove tendenze, nuovi approcci per forgiare il metallo, fra i quali
hanno spiccato il post-hardcore, il post-metal e il post-black
metal. La parola “post”, appunto, ci fa capire quanto questi filoni siano
derivativi e dipendenti da altri generi (l’hardcore, il post-rock, lo shoegaze):
il metal non si rinnova più attraverso una ricerca stilistica, l’invenzione di
nuovi stilemi, bensì con la contaminazione, con un metodo che molto spesso
coincide con la scelta programmatica di riprodursi tramite copulazione con
altri generi musicali.
Eccoci infine fuori dal metal stesso, con tutte
quelle band che hanno deciso di abbandonare gli stilemi del metal per recarsi
altrove. E non è una coincidenza che proprio in testa a questa ultima
classifica andiamo a trovare quegli Ulver che abbiamo appunto avuto modo
di trattare nella nostra prima classifica. Nel black metal, evidentemente, era
già insita quella spinta propulsiva che avrebbe portato il metal prima a
superarsi e poi a negarsi definitivamente.
Nelle nostre intenzioni originarie a questa classifica
sarebbe dovuta seguire un’altra che ci avrebbe portato ancora più lontano dal
metal: dieci album non metal, fatti da artisti non metal, consigliabili
ad un pubblico rigorosamente metal. Tuttavia, pur non escludendo che
un’impresa del genere verrà da noi un giorno compiuta, al momento non ce la
sentiamo di distoglierci dall’obiettivo primario che ci siamo prefissati nel
momento in cui abbiamo creato questo blog: parlare di metal.
Per questa ragione ci ritroveremo presto con una nuova classifica,
questa volta dedicata ad un tema moooolto classico…
To be
continued...