I
MIGLIORI DIECI BRANI “LUNGHI” DEL METAL CLASSICO
3° CLASSIFICATO: “A CHANGE OF SEASONS” (DREAM THEATER)
Molti li amano, altrettanti
li odiano.
Perché nessuno riesce a rimanere indifferente nei confronti dei Dream
Theater? Perché anche i più tiepidi detrattori non possono semplicemente
infischiarsene? Ammettere l’oggettiva straordinarietà della band, limitarsi a
non farseli piacere e guardare serenamente altrove? Perché c’è sempre quella
goduria morbosa e trepidante nell’attendere il loro prossimo passo falso?
Perché c’incazziamo se Jordan Rudess suona troppe note? Se LaBrie
non ha più voce (è più di venti anni che canta, povera stella)? Se i Dream
Theater fanno canzoni troppo lunghe e pretenziose?
Non possono? C’è una legge
che lo vieta? Non possiamo noi semplicemente ignorarli?
Sembrerebbe, da quel che
scrivo, che io faccia parte della prima categoria, cioè di quelli che i Dream
Theater li adorano e che non capiscono le cagioni di cotanto odio nei confronti
dei loro beniamini. Invece appartengo proprio alla fazione opposta, a quella di
coloro che i Dream Theater non li digeriscono. Per onestà intellettuale,
tuttavia, non potevo non contemplarli in questa mia classifica, dato che il
quintetto americano di brani lunghi ne ha fatti a bizzeffe. Fra questi ce n’è
uno in particolare che li rappresenta ed anticipa tutti: “A Change of
Seasons”, una suite dalla lunghezza di 23 minuti e 6 secondi,
contenuta nel noto EP pubblicato nel 1995.
Sempre per onestà
intellettuale ho chiesto un supporto al collega Lost in Moments, che i
Dream Theater li conosce bene, li rispetta e li ama. Ma attenzione: li ama non
di un amore cieco e fanatico, ma di quell’amore senile che viene con la
vecchiaia, quell’amore sereno incline al perdono, volto ad assecondare le
emozioni e a sorvolare sulle puntigliosità del raziocinio. Lost in Moments ha
una vasta cultura musicale e grandi capacità analitiche, dei Dream Theater pertanto
apprezza i pregi ed accetta i difetti, volendo loro bene per quel che sono: quale
migliore voce potevamo dunque interpellare? Bando alle ciance, passiamo la
parola a Lost in Moments:
Sette parti che guidano
dentro una canzone riassunto dei Dream Theater con i loro pregi e
difetti, ma soprattutto con l'asse Petrucci-Portnoy a comandare le
danze. Una lunga canzone in un momento storico della band che poteva essere
visto come l'apice, ma anche pieno di incertezze, proprio come...un cambio
di stagione...
L'unico vero cambio è l'addio
di Kevin Moore e il debutto di Derek Sherinian alle tastiere, ma
questo non è un buon inizio... Questa suite di ventitre minuti esce dalle
sessioni di "Images And Words" e, composta infatti nel 1989,
resta nel cassetto per la lunghezza o per la fatica di inserirla nel disco
gioiello dei progsters americani.
Conosciamo i Nostri, però: se
c'è qualcosa che può essere lungo, pomposo, bello, ricamato, non può restare
nel cassetto, ma dove metterla? Cosa farne? Petrucci non ci dormiva, Portnoy
ci beveva su, Myung ci meditava, LaBrie se ne fregava... Fino a
quando dopo una serie di cover ben riuscite inserite tra esibizioni e live non
arriva l'idea giusta: un Ep con la triplice funzione di pubblicare una delle
migliori composizioni dei nostri, presentarci il nuovo (ahimè) tastierista e
raccogliere poi le cover di Elton John, Pink Floyd, Led Zeppelin
in versione Teatro del Sogno.
I suoni, gli umori e le idee
sono comunque riconducibili a "Images And Words", ma la
capacità di dare una omogenea visione del pezzo, anche se così lungo e
articolato, non è roba da tutti. Quando i minuti si sommano sul contagiri c'è
il rischio frazionamento, ma non per il talento di Petrucci che riesce a far da
collante e si dimostra anche compositore attento alle caratteristiche dei
singoli della band.
Sbirciando nell'immaginario
gruppo di Whats App ante litteram dei Dream Theater formato
dall'amministratore Petrucci, ecco un inedito scambio di messaggi proprio
durante le sessioni di registrazione di questa canzone:
- Petrucci: "Buonasera ragazzi,
domani mattina appuntamento ore 6:00 presso lo studio di registrazione. Mi
raccomando massima puntualità, portatevi qualcosa da mangiare al sacco in modo
da non interrompere il lavoro e, come sempre, fate una buona doccia dopo
esservi esercitati nella notte!"
- Myung: "Ok, posso portare due
ravioli al vapore in più per gli altri?"
- Portnoy: "Io ho una bottiglia
di whisky da finire, perciò tieniti i tuoi cazzo di ravioli e comunque arrivo
alle sette perché devo vedere una serie di incontri di Wrestling e poi dopo
mezzanotte due pornazzi non me li toglie nessuno..."
- LaBrie: "A me bastano due
acciughe per rinfrescare la voce, ma io non posso arrivare alle otto? Tanto
prima fate le vostre infinite prove strumentali ed io ho solo due tonalità da
provare…"
- Petrucci: "Ragazzi, poche
storie! Domani tutti alle 6:00 in studio, ho prenotato lo spazio per 78 ore
consecutive e non intendo sprecare tempo! Ok, chiaro per tutti? Derek?"
- Sherinian: "Ok, ma dovrei
ripassare due spartiti…e una domanda: gli strumenti li dobbiamo portare da casa
o sono già lì?"
Petrucci, Portnoy, Myung sono
usciti dal gruppo.
- LaBrie: "Derek un consiglio,
so che sei appena arrivato però basta con 'ste domande del cazzo altrimenti con
loro sopravvivi meno di Papa Luciani..."
- Derek: "Ok, a domani! Grazie
John!"
- LaBrie: "Derek, io sono
James..."
La Brie è uscito dal gruppo.
Che grande band erano (e per
me lo sono ancora), però venti anni fa quando uscì questo Ep c'era
proprio la sensazione di onnipotenza che ora non trasmettono più, avevano
l'argento vivo addosso che pian piano si è arrugginito tra fisiologici passi
falsi e cambi di line up.
Un processo di deterioramento
già innescato con il successivo "Falling Into Infinity" che
rappresenta la maggiore delusione della loro carriera, non perché sia peggio di
altri dischi usciti successivamente, ma proprio perché venne dopo i ventitre
minuti di "A Change Of Seasons", con il quale avevano stregato tutti
i fans e dopo il quale ci aspettavamo un capolavoro e invece... Ci fu solo un nuovo
cambio di stagione...
*** Fine
dell’intervento di Lost in Moments ***
Bene, rieccomi per le
considerazioni finali. “A Change of Seasons”, anche dal punto di vista di un
detrattore quale sono io, è incontestabilmente un brano clamoroso, che quasi
nessun altro poteva realizzare. Togliamo pure il quasi: tecnicamente i
Dream Theater, come ensemble, non hanno eguali (fuori e dentro il metal),
e quando ancora sapevano comporre erano capaci di miracoli come questo.
Nelle sue sette sezioni, il
brano è un alternarsi fra coinvolgenti parti cantate e sezioni strumentali di
grande pregio, momenti soft ed altri più duri, struggenti melodie e
relative controparti cervellotiche, ma tutto miscelato con grande equilibrio e
senso della misura. Nonostante vi siano dei forti rimandi che evocano tutta una
gamma di artisti che vanno dai Genesis ai Metallica, passando da Ry Cooder e persino per momenti jazz/fusion, la prova nel complesso assume i contorni di
una personalità inconfondibile, marchiata a fuoco dallo stile pronunciato di
ciascun componente e dal caratteristico timbro vocale di LaBrie. Su ogni altra
cosa, porrei la capacità da parte del collettivo di creare un continuum
dotato di senso, obiettivo che in futuro non sarà quasi mai raggiunto
(togliamo pure il quasi…). Se l’intento era di tratteggiare un sound
mutevole, ondivago, denso di sfumature, di chiaroscuri che evocassero il
trascorrere tumultuoso delle stagioni (consunta metafora – a dirla tutta
– per raccontare lo svolgersi affannoso della vita), esso è stato degnamente coronato.
In queste evoluzioni
dell’“anima”, dal forte impatto cinematografico, riaffiora quell’ispirazione
che animò “Images and Words” e che si era un po’ appannata in “Awake”.
Se però il capolavoro del 1992 fu l’incontro fortunato di cinque musicisti
superlativi, “A Change of Seasons” vede l’emergere preponderante di solo due di
essi: un Petrucci in stato di grazia, superbo su tutti i fronti, e un LaBrie
in forma strepitosa, con una voce ancora forte, limpida, potente, capace di
passare con grande disinvoltura dal velluto alla cartapesta, di trasmettere
grande pathos con il suo sommesso cantato in diaframma e di graffiare quando
necessario, ricorrendo qua e là a delle riuscitissime sovra-incisioni. Due
prove incredibili, laddove Portnoy è ordinario nell’essere straordinario, Myung
è inesistente e Sherinian non sa di niente.
Passiamo dunque ai difetti,
capitolo che mi accingo ad affrontare con sbavante bramosia:
- La produzione non è
sicuramente degna del nome della band e i suoni della batteria in stile set di
pentole, in particolare, potevano essere evitati.
- Non vorrei sparare sulla
Croce Rossa, ma Sherinian non si rivela all’altezza di chi l’ha
preceduto. Ha un suo stile, un suo tocco, trasmette un suo feeling che
potremmo definire settantiano (e non è che la cosa ci dispiaccia), ci
sta pure simpatico, ma l’affiatamento con gli altri ricade sotto la voce “non
pervenuto” e i vorticosi duetti fra Petrucci e Moore rimangono un lontano
ricordo.
- Il testo. Scaturito
dalla penna di Portnoy, esso si ispira alla morte della madre. Di rimando il concept
si sviluppa intorno ai temi del cambiamento, delle occasioni perdute, della
necessità di cogliere l’attimo (il famigerato carpe diem), del trascorrere del
tempo e degli insegnamenti che possiamo trarre dalle lezioni, anche dure, che
la vita ci riserva, con tanto di finalone disteso e consolatorio. Ecco,
scorrendo il testo, non ho potuto che esclamare ancora una volta “ma che
fresconi sono i Dream Theater!”. Apprezzabili su tutta la linea da un punto
di vista di “Images”, sul piano delle “Words” i Dream Theater
continuano ad essere portatori di una visione del mondo un po’ scontata,
patinata, da dramma hollywoodiano (un po’ in stile “L’Attimo Fuggente”, tanto
per rimanere in tema di “carpe diem”), ove si gioisce, si soffre, si cresce, si
capisce. Tutto secondo copione, dove però il copione è annacquato non solo da
buoni sentimenti ma anche dal gin di Portnoy (che in effetti porterà sempre più
amarezza, disperazione e disillusione nei testi dei Dream Theater, fino a
culminare del finale pessimista di “Metropolis Pt. 2: Scenes from a Memory”,
che tuttavia vediamo più come l’ennesimo ricercato effettone-sorpresa in
stile thriller hollywoodiano, che il frutto amaro di una lacerante ed
inconsolabile visione della condizione umana).
Ma questi sono dettagli da
incalliti detrattori che devono trovarne sempre una per criticare i Dream
Theater: le liriche, in verità, sono sincere, a tratti emozionanti,
perfettamente integrate nell’evolversi del corpus sonoro del brano ed
interpretate magistralmente dall’ottimo LaBrie, qui alla sua prova migliore. E
“A Change of Seasons”, pregiudizi a parte, rimane senza ombra di dubbio uno dei
momenti più alti nella storia del metallo progressivo e non solo...