La scorsa settimana è scattata
l’ora solare. Uscendo nel tardo pomeriggio da lavoro non c’è, in questa fase
della giornata, la luce che mi ha accompagnato nel tragitto di ritorno verso
casa da marzo ad ottobre.
La cosa personalmente non mi
turba minimamente. Anzi. Ma ho come l’impressione che a molti invece il “cambio
di stagione”, che con l’ora solare diventa plasticamente evidente (è come se si
tirasse una riga marcata tra la stagione calda e l’inizio di quella invernale), crei
maggiore malinconia interiore. Con l’accorciarsi delle giornate, vedo le
persone sui mezzi pubblici più truci, più dimesse. Ancora più mestamente
piegate a scrivere compulsivamente sui loro smartphone o a guardare vacuamente
dai vetri con l’espressione spesso incarognita. Ho sempre avuto l’idea che con
le giornate più lunghe, le temperature più alte e la luce più persistente
l’umore delle persone intorno a me fosse migliore; il loro sguardo più vivo e
“positivo”.
A cura di Morningrise
Lunedi scorso tornando a casa la
sera, mi sono accorto di una cosa: che alcune di quelle stesse persone che,
salendo sull’autobus, mi parevano così tristi&grigie, ora stavano a loro volta indugiando
su di me, scrutandomi un po’ interdetti. Mi sono chiesto cosa avessi fatto per
attirare la loro attenzione. E subito ho capito: ero caduto in estasi
nell’ascolto dei Lake Of Tears. Nel mio lettore mp3 girava infatti
“Headstones”, album del 1995 del combo di Boras.
"Headstones" è’ un disco che non mi fa star
fermo perchè ascoltando quei riff granitici, epici e quei chorus trascinanti, non posso fare a meno, ogni qual volta lo ascolto, di accompagnare i
brani con smorfie, digrignamento dei denti e movimenti della testa. Non solo: il naso mi
si arriccia, le guance si intesiscono; la mia espressione si deforma al ritmo
delle varie “Dreamdemons”, “Sweetwater” o della struggente title-track.
Basta il riff iniziale,
sabbathiano come non mai, dell’opener “A Foreign road”, per farmi partire questi
gesti corporali in maniera del tutto automatica. Non solo: anche le dita delle
mani si muovono lungo una tastiera immaginaria di una chitarra, simulando
accordi di quinta. Dita che in realtà sono attaccate a un apposito sostegno del
mezzo urbano…
Doveroso intermezzo: non fatevi
ingannare da ciò che si legge in rete sui siti specializzati perchè i LOT non
sono, e men che meno lo erano durante i loro anni d’oro, un gruppo gothic
metal. Come abbiamo già avuto modo di accennare nel nostro post sui secondi
dieci migliori album delle cult band anni novanta, a proposito del loro
capolavoro “A Crimson Cosmos”, la band svedese ha contaminato la sua proposta
con diversi stilemi, rendendosi riconoscibile tra mille (e il gothic è solo uno
delle tante sfumature del loro sound). In quell’occasione abbiamo usato
l’espressione “carica malinconica” per sintetizzare il loro mood. Perchè c'è malinconia, c'è un'aura decadente, questo sì. Ma il tutto interpretato in modo cazzuto, potente, fortemente "metal". E questo, almeno per chi scrive, è una caratteristica che prevale su tutto il resto.
In “Headstones” lo scheletro portante, assolutamente doomico, di
scuola paradiselostiana, viene adornato da caratteristiche personali uniche, a
partire dalla voce di Daniel Brennare. Le tastiere gothicheggianti sono davvero
usate col contagocce e mai invadenti, preferendo i Nostri giocare tutto su
strutture semplici, guidate da riffoni azzeccatissimi e dannatamente
trascinanti, e da un alternarsi in chiaro-scuro di un’elettricità a tratti
distorta e a tratti pulita, vero trademark dei LOT.
Raramente viene abbandonato
il formato-canzone, canonico ma mai banale; e quando decidono di fuoriuscirne,
come ad esempio nella conclusiva “The path of the gods” con i suoi tredici minuti e mezzo
di saliscendi emozionali, i risultati sono straordinari.
L'affetto e la gratitudine che provo per "Headstones" viene anche dai testi dei brani,
oscuri, evocativi, che (sarà il potere dell'immaginazione!) mi sembrano così calzanti anche per un contesto
quotidiano e routinario, come quello che sto vivendo: un bus che mi porta a casa dopo una
giornata di lavoro. A road
dark / when the damned walk / a road old, open arms to fold me / I recall the
crossroads, the junction of the ways (dalla già citata opener “A foreign road”).
E proseguendo con la seconda traccia “Raven land”: Do you know what they hide, hide within their hearts / Can you see the
sorrow within their eyes (cazzo Daniel, ma hai scritto apposta per me questi versi
allora!)
Il disco prosegue senza un attimo
di cedimenti, senza filler noiosi. Ogni traccia ha un qualcosa di diverso dalla
precedente, ha soluzioni diverse all’interno di uno stile definito e personale.
E così il viaggio passa rapido…sto arrivando alla mia fermata. Devo scendere;
il platter, nei suoi 48 minuti (perfettamente calzanti come durata al mio
tragitto casa-lavoro), si sta esaurendo. Il buio è più intenso di quando sono
uscito dall’ufficio, ma non ho il viso stanco o annoiato di quelli che scendono
con me. Sono appagato dalla compagnia dei LOT.
Me li porto in casa; proprio mentre salgo
sull’ascensore risuonano le ultime parole di Brennare nella succitata "The path of the gods": Small creatures coming
near / then turn to disappear / all while the faeries sing / ode to waters, ode
to winds...che poesia!