1997,
tarda estate, o autunno inoltrato, non ricordo bene, quel che conta è che erano
più o meno venti anni fa. Un mio amico non ancora patentato mi chiede se lo
porto al CPA di Firenze a vedere i Neurosis. La cosa mi tenta per un
istante, poi però abdico, un po' per pigrizia, un po' perché quella sera avevo
altro da fare. Il mio amico ci andò lo stesso e mi raccontò cose mirabolanti su
quel concerto, che all'epoca gli costò roba come cinquemila lire.
Del
resto i Neurosis non erano ancora popolari come oggi, né i capofila di un nuovo
movimento, il post-hardcore, che avrebbe cambiato il profilo del metal
del terzo millennio. Però era il tour di supporto a "Through Silver in Blood" e il non esserci andato mi ha fatto rosicare per
anni, complice il fatto che nel tempo i Neurosis hanno principiato a diradare
le loro apparizioni in Europa, centellinando date, rendendo i loro concerti
degli eventi esclusivi per cui diveniva necessario premunirsi dei biglietti con
largo anticipo e mettere in conto molti chilometri, se non addirittura
l'espatrio. Non a caso vi scrivo da Londra, mia nuova base operativa.
7
novembre 2016: è il momento di appianare i conti. Giungo alla fatidica data
con venti anni da riscattare, venti anni di ascolti dei Neurosis sul groppone.
Durante il tragitto mi chiedo dove siano i fan della band, come mai non
c'è nessuno con la barba intorno a me. Le barbe fortunatamente iniziano a
spuntare ed aumentano in modo esponenziale mano a mano che mi approssimo al Koko,
fino a quando mi troverò in un vero e proprio tripudio di barbe infeltrite,
felpe con cappuccio e magliette di Sunn O))), Agalloch, The
Ocean ed ovviamente Neurosis. Mi sento a casa.
Una
volta entrato, la scena che mi si para davanti agli occhi ha del surreale:
interno barocco in stile "Eyes Wide Shut", musica jazz in
sottofondo, luci stroboscopiche anni settanta, un mondo fiabesco di barbuti che
si aggirano candidamente per il locale. Per la prima volta da tanto tempo mi
sento giovane e bello, nonché al sicuro, dato che sono convinto che se anche
smarrissi il portafoglio questi energumeni si azzufferebbero e farebbero a gara
per restituirmelo. Gente onesta i fan dei Neurosis. Non siamo in
tantissimi, i biglietti del resto erano ancora in vendita alla cassa e il sold
out che avevo tanto temuto non è stato lontanamente sfiorato (e anche vero
che il giorno dopo i Nostri saranno nuovamente al Koko per un’ulteriore data).
Aprono
la serata gli Earth. Dylan Carlson saluta il pubblico con una
improbabile voce nasale (meno male che gli Earth fanno musica strumentale!) e,
coadiuvato da un altro chitarrista e da una valchiria bionda alla batteria,
inizia ad officiare la sua cerimonia. Del drone-metal degli esordi,
grazie al quale gli Earth si sono distinti, affermati e divenuti un nome di
culto, rimane ben poco, assestandosi il sound dei Nostri sui movimenti
lenti ed evocativi di un doom elagico con chiari influssi southern.
Il tutto rimane però egualmente prolisso. O meglio, dipende da come si vogliono
vedere le cose. I riff circolari e suggestivi ripetuti ad infinitum
possono esercitare un fascino particolare se chi ascolta è nella giusta
predisposizione, sopratutto fissando, ai limiti dell'ipnosi, la figura
carismatica di Carlson: capello lungo ed inverosimilmente liscio (si sarà fatto
la piastra?), barba crespa da tricheco, camicia attillata anni settanta, gesti
plastici e ben scanditi come a volerci benedire con la chitarra, che si alza ed
abbassa a tempo di musica.
Mentre
lo seguo con lo sguardo, penso a quanto è vecchio questo "Nuovo Metal" (per quanto il Nostro prenda alla lettera le lezioni impartite da Tony
Iommi quasi cinquant'anni fa, gli Earth sono comunque riconducibili al
filone delle sonorità post nel metal), come se la via verso il futuro si
venisse a tracciare tramite la ricerca dell'essenza più profonda ed ancestrale
del metal stesso. Tutto molto conturbante, ma cazzo, dopo suonano i Neurosis,
mi sembra di sprecare le orecchie nell'esporle a questi volumi assordanti. Vedo
con preoccupazione che in molti attorno a me indossano intelligentemente tappi
per le orecchie, ma poi mi rendo conto che è un controsenso: sarebbe come
guardare un film porno con gli occhiali da sole. Il set si conclude
nell'arco di circa un'ora, fra qualche sbadiglio e diversi momenti di
esaltazione, dati principalmente dallo stordimento procurato dall'effetto
catartico della musica degli Earth. Comunque bravi.
Giunge
dunque il momento tanto atteso: le aspettative sono alte ed al tempo stesso
basse, diciamo incerte. Se è vero che negli ultimi tour i Nostri hanno privilegiato
i lavori più recenti sacrificando il repertorio del loro periodo di massimo
splendore, è lecito aspettarsi qualcosa di più, o di diverso, da questo tour,
chiamato a celebrare i trenta anni di attività della band. D'altro
canto, se è vero che stiamo parlando dei più-grandi-di-tutti, è
altrettanto vero che quella dei Neurosis non è una musica per vecchi: avranno
i nostri eroi ancora fiato nei polmoni per spegnere le famigerate trenta
candeline?
Questione
scaletta, che poi è quella più spinosa: i Nostri attaccano con "Stones
from the Sky", scelta insolita visto che generalmente ad essa spetta
la chiusura delle danze. Esaltazione dunque alle stelle. Se poi consideriamo
che il tutto si completerà con "Locust Star" (classico dei
classici) e che nel mezzo i cinque riescono a piazzare la possente "Lost",
tratta dal lontano "Enemy of the Sun", si può dire che si può
tornare a casa soddisfatti. In questa celebrazione, dunque, non si andrà più in
là del 1993: i sette restanti brani della scaletta (un set dalla durata
di circa due ore) verranno spartiti fra gli ultimi tre controversi album (che a
me comunque non sono dispiaciuti). Certo, poteva capitare una "Times of
Grace" o meglio ancora una "The Tide", ma in verità
vi dico: m'importa anche una sega. Quando una band conia un linguaggio,
il concetto di "hit" decade: non è importante in questi casi
il "cosa" ma il "come". A contare è infatti l'espressione
di quel linguaggio, ed affinché ciò avvenga nel modo migliore, la band deve
suonare quello che si sente. Veramente, ragazzi, fate il cazzo che vi pare,
tanto avrete sempre ragione voi!
Passiamo
dunque all'analisi dello spettacolo. Uno degli obiettivi per me era quello di
capire finalmente che differenza corre fra Steve Von Till e Scott
Kelly. Obiettivo mancato: non ci capisco ancora una mazza, i due dietro al
microfono si equivalgono, sia a livello di screaming che di pulito, e
sembrano darsi il cambio solo per permettere al compagno di ricaricarsi,
cosicché l'attacco di uno, dopo la performance dell'altro, è sempre
micidiale. Semmai scorgo delle differenze nelle persone.
Kelly
è una figura imponente: altissimo, piantato nel suo metro quadrato, acquisisce
una quasi centralità della scena grazie anche al maggiore dinamismo espresso da
Von Till, che spesso retrocede alla ricerca delle giuste vibrazioni
confrontandosi con gli amplificatori. Kelly è un gigante buono, ma ad
intenerire non è il suo mediocre taglio di capelli, bensì il fatto che dal vivo
esprime una sofferenza vera, genuina, non artefatta. Ritirato con la famiglia
in una foresta dell'Oregon, provato dalla malattia misteriosa che ha colpito
sua moglie lo scorso anno, egli dà l'impressione di essere il classico
boscaiolo in grado di uccidere un orso a mani nude, ma che ancora rimane
interdetto innanzi ai misteri della Morte e dell'Eterno.
Accanto
a lui, non si capisce bene se basso di suo o solo se confrontato al colossale
compagno, c'è Von Till: sarà perché il suo cranio è perfettamente
rasato, sarà perché le sue mosse sembrano più studiate, ma egli appare più
decisamente consapevole del proprio status di inventore di un genere musicale.
Si agita, si muove sul palco, azzarda gesti con le mani che lo avvicinano ad
una rock star, e, pur rimando nei ranghi severi della sobrietà, egli è
indubbiamente carismatico. Se in principio ci è apparso dimesso, lasciando ampi
spazi a Kelly (che ha cantato quasi per intero i primi brani), si può dire che
emerge alla grande sulla lunga distanza, crescendo brano dopo brano e
conquistando la scena nella seconda metà dell'esibizione, sfoderando momenti di
furia bestiale, fino a regalarci dei picchi di grande esaltazione (quanto
sei cazzuto, Steve!). Perché Von Till è il classico tipo che ti potrebbe
polverizzate con due colpi ben assestati, ma non lo fa perché ha un grande
autocontrollo: sei quindi sereno quando sei accanto a lui, ma basta un suo inarcar
di sopracciglio che te la fai sotto.
Quanto
agli altri, a stupirmi in positivo è stato soprattutto il bassista Dave
Edwardson, che sulle prime mi è sembrato un impiegato contabile dagli
improbabili capelli verdi: una presenza solo fintamente sorniona la sua, dato
che all'occorrenza saprà scatenarsi, sia percuotendo senza pietà il suo
strumento, sia sfoderando un growl mostruoso che in più punti ha
rinforzato l'assalto vocale dei due compagni. Vien da pensare che se costui non
avesse avuto la fortuna di far parte dei Neurosis, sarebbe oggi l’efferato
bassista di una band hardcore old school o persino death. A lui sarebbe andata
bene lo stesso.
Noah
Landis, invece, sembra il Joe Pesci di "Toro Scatenato"
e suona le sue tastiere a colpi di karatè, disegnando decisi fendenti nell'aria
(dev'essere, il suo, uno di quei marchingegni con sensori che si suonano senza
toccarli): si agita come può dietro alla consolle e il suo si conferma
un contributo di sostanza all'edificazione dell’incredibile muro di suono
allestito dalla band.
Jason
Roeder, nascosto dietro alle pelli, fa il suo dovere, senza però mai
ritagliarsi protagonismi. Del resto le rutilanti percussioni non fanno più parte
della visione artistica dei Neurosis (c'era un tempo in cui Kelly riponeva la
sua chitarra e le dava secche ai tamburi). Come del resto, almeno stasera, non
verrà dispiegato l'apparato multimediale che ha contraddistinto i Nostri fin
dagli esordi.
Il
quadro è comunque suggestivo, con i cinque musicisti in penombra perenne, via
via rischiarati da aliene luci blu o rosse. Non ci stupiamo: la musica dei
Neurosis ha subito nel tempo un processo di scarnificazione che l'ha portata a
perdere molti orpelli per farsi essenziale, a metà strada fra verbo sabbathiano
e mesto cantautorato. Eccoci dunque alla musica: nell'arco dell'esibizione
emergono i "quattro elementi" che caratterizzano il Neurosis-sound
dei giorni nostri. Analizziamoli insieme.
Fattore
Black Sabbath: il riffing sabbathiano domina oggi più che mai, e
in questo stoner misticheggiante i Nostri sembrano sentirsi sereni,
perché non deve essere semplice invecchiare da Neurosis, spolmonarsi ed
esplodere continuamente. Forse in questo si sono appiattiti, ma che gran cuore
batte ancora nei loro petti!
Dimensione
hardcore: travolti dall'evoluzione a cui abbiamo assistito album dopo album, forse ci stavamo per dimenticare che i Nostri nacquero
all'insegna di suoni aspri e che si distinsero e divennero
famosi proprio per la loro lettura personale della
materia hardcore (il post-hardcore, appunto). E questa è una cosa che riesce loro dannatamente bene ancora oggi: lo si sente nella devastante
"Lost", sporcata da campionamenti e scorie industriali, con i
suoi stop-and-go micidiali, con i suoi feroci assalti sonori, con le sue
geometrie spigolose, tutti aspetti che in parte sono andati persi lungo il
cammino della band, ma che è un vero piacere riascoltare stasera.
Psichedelia:
l'ossatura è "rock" ed alla divagazione è concesso davvero poco tempo (per lo più
lo spazio di brevi intermezzi ambientali a collegare un brano all’altro in un
unico incessante flusso sonoro). In un certo senso la psichedelia (sotto forma
di effetti, dissonanze ed organi imponenti) viene inglobata nel magma
chitarristico e ricondotta ad un unico wall-of-sound: una scelta coerente
con la tendenza a ripulire i suoni da variabili spurie. E nell’interazione fra
luci e suoni, ci sentiamo di dire che i Neurosis dal vivo sembrano i Pink Floyd in salsa apocalittica.
Cantautorato,
infine: alla voce calda e raschiante di Von Till vengono concesse un paio di
occasioni per far sì che le nostre orecchie possano riposarsi. Momenti, questi,
di grande suggestione, con il Nostro contornato da un'areola blu nella piena
oscurità. Momenti che purtroppo sono destinati a finire troppo presto, spazzati
via dalla furia elettrica di brani che quieti proprio non ci sanno stare.
Doom/stoner,
hardcore, psichedelia, intimo cantautorato compongono il post-metal dei
Neurosis, ed è nell'intreccio di questi quattro elementi che otteniamo
l'unicità della band di Oakland. Post post post post: qui siamo davanti alla vera
eccellenza, è doveroso assaporarsi ogni singolo istante, perché quel che
sentiamo non sono solo dei passaggi dannatamente riusciti, ma l'espressione
massima e perfetta di standard e stilemi musicali suonati da chi quegli standard
e quegli stilemi li ha creati. Tutti gli altri vengono dopo, qua siamo alla
fonte, per questo tutto è più puro, sublime, superiore.
Ci
emozioniamo innanzi a queste suite monumentali, e persino ci
spaventiamo allo scoppio improvviso di una ripartenza che non ricordavamo. E
mentre dal muro di amplificatori che incombe su di noi viene vomitato questo
flusso torrenziale di suoni, le teste ondeggiano all'unisono: non c'è pogo, c'è
solo questo movimento oscillatorio che fa impressione a guardarlo con
attenzione. Sembra di partecipare ad un rito, un rito ancestrale. Questa
è Religione ed adesso capisco perché il metal non ha saputo andare oltre
questi suoni: perché dopo essersi imposto con la fisicità, ed essersi
evoluto con l'intelligenza, il metal con i Neurosis ha conosciuto la
sfera dello Spirito.
Chiudo
questo mio sproloquio con la descrizione del finale del concerto, che, come si
è detto, è stato affidato a "Locust Star", apice emotivo
dell’esibizione. Per tutta la sua durata il brano si è confermato un
susseguirsi di passaggi geniali, a partire dall'introduzione straniante (preludio
alla tempesta) e dall'urlo lancinante di Kelly (che mi porto sempre impresso a
fuoco nella memoria e nel cuore): un lungo gemito di dolore che traghetta verso
le struggenti melodie di chitarra, fino al terremotate
ritornello. Ma è la porzione conclusiva quella che mi
ha definitivamente devastato e ridotto ai minimi termini come Uomo (inteso in
senso corporale): una mastodontica cavalcata di intensità slayeriana (mi
ha sempre ricordato l’imponenza wagneriana di una "Season in the
Abyss"), dove le urla belluine di Von Till e Kelly si sovrappongono con
le poderose strofe in growl di un titanico Edwardson. Un momento annichilente
in cui si fondono un passato barbarico ad un futuro catastrofico: lo
so che è un’espressione abusata, ma mai come in questo caso è calzante l’appellativo
di “esperienza”. A pensare a quei tre sul palco, nella penombra, che si
sgolano sospinti da un muro di suono ormai insostenibile e da rullate
apocalittiche, mi dà ancora oggi, a giorni di distanza, forti brividi lungo la
schiena. Poi di colpo tutto si interrompe e diviene silenzio ed oscurità. E a
te pare di aver vissuto in un sogno fino ad un istante prima. Applausi.
Grazie
ragazzi.