La Wembley
Arena è un bell'auditorium di fianco al ben più noto stadio, teatro di
concerti che hanno fatto epoca. Il palco è ampio: uno spreco di spazio se si
pensa che gli artisti che si avvicineranno sulle "assi" non si
possono definire proprio degli animali da palcoscenico.
Si
parte con gli Anathema che anche stasera recitano la parte della
"povera Cenerentola", visto l'ingrato ruolo di spalla con un set
risicato di circa un'oretta suddivisa in soli sette brani. Personalmente
parlando posso dire di aver pianto tutto il tempo, ma è anche vero che
"sono di parte" essendo io da sempre un supporter
incondizionato dei fratelli Cavanagh, mentre a molti non sembra
interessare più di tanto quello che succede on stage. Tira infatti aria
di distrazione: la gente arriva alla spicciolata, ridendo e sorseggiando birre
come se in filodiffusione vi fosse musica d'ambiente. In particolare ho odiato
una coppia di energumeni (non ho capito bene se fidanzati o padre e figlia) che
ci hanno messo una vita a trovare posizione ed una volta sistemati si son messi
a commentare ad alta voce i contenuti delle rispettive pagine Facebook sui
cellulari. Fra un fattore distraente e l'altro cerco con tutta la mia forza di
concentrarmi sull'esibizione.
La
scaletta, si sa, pesca esclusivamente dal repertorio recente, privilegiando le
ultime tre pubblicazioni e concedendosi un solo tuffo nel passato con
l'immancabile "Fragile Dreams" (da "Alternative 4").
Inutile dirlo, il concerto è stato tanto breve quanto intenso, a mio avviso da
pelle d'oca costante, con in prima fila Danny (a dividersi fra chitarra
e piano/tastiere), Vincent (grande front-man) e Lee Douglas,
oramai sempre più importante nell'economia del suono dei "nuovi"
Anathema: sarà tutto suo il momento più suggestivo della serata, protagonista
di una splendida e sentita interpretazione di "A Natural Disaster".
Il
fatto è che i "ragazzi" non hanno solo la musica dalla loro parte, ma
anche una dannata voglia di interagire con il pubblico e rendere memorabile lo
spettacolo da essi offerto. E così con "A Simple Mistake"
incitano a battere le mani, sfruttando uno dei brani più progressive del loro
repertorio (si veda la "cavalcata porcupiana" nella seconda
metà del pezzo); in "Distant Satellites" i beat elettronici
prendono il sopravvento e il tutto si fa decisamente Radiohead, con
Vincent nel finale a picchiare sul tamburo ad allargare a tre l'assetto dei
percussionisti su questo brano; ad un certo punto i Nostri convinceranno
addirittura l'intera platea ad accendere la luce del telefonino (un po' come
una volta si faceva con gli accendini), creando, con l'aiuto dell'oscurità
scesa in sala, un quadro a dir poco suggestivo. Menzione a parte merita "Untouchable
part.1", divenuta un classico in tempi record e riproposta
regolarmente dal vivo. Dolce all'inizio e travolgente poi, è un brano che ha un
solo obiettivo: dare emozioni. E l'obiettivo viene pienamente raggiunto!
La
scarsità di durata del set non si fa sentire, tanto l'architettura dello
spettacolo è stata ben bilanciata nelle sue parti. Giusto per chiudere il
cerchio: tutto era iniziato con "Thin Air" (sempre una
goduria, con quel suo incedere teso ed incalzante destinato a sfociare
nell'intenso finale) e tutto si è concluso con l'anticipazione di un brano
inedito che verrà incluso nell’album che uscirà indicativamente in maggio 2017.
Che dire a tal proposito: il percorso degli inglesi sembrerebbe proseguire
verso sensuali territori depechemodiani, ma il terremotante crescendo in
cui i Nostri letteralmente tirano giù il tetto dell'auditorium ci rassicura sul
fatto che i fratelli Cavanagh non intendono ancora riporre le loro chitarre
nelle custodie.
Bene,
bravi, ma non siamo qua per loro. E' l'Opeth-event, che non
equivale a dire che stiamo per assistere ad un normale concerto heavy metal. La
popolazione è più variegata che mai, si va dallo sbarbatello di venti anni a
signori brizzolati che sembravo reduci da altre epoche musicali: sono i fan
acquisiti che gli Opeth si sono guadagnati grazie alle (ehm...) simpatie
espresse negli ultimi tempi per il prog più smaccatamente settantiano.
Una popolazione che accettiamo di buon grado e che nobilita l'ambiente nel suo
complesso, brulicante ovviamente di truci" metallari, nerd con
occhiali e capelli corti, e ragazze bellissime che esaltate si scattano selfie
con la maglietta degli Opeth appena acquistata. Che le trombi tutte
Akerfeldt? Questo non ci è dato saperlo, e in tutta sincerità non ce ne
frega molto, il fatto è che l'atmosfera è decisamente particolare, resa ancora
più particolare dalla musica diffusa nell'aere: una strana rotazione che
vede convivere Celtic Frost, Black Widow e Tool, tanto che
pare quasi di stare nel salotto di Akerfeldt. E poi tutte quelle "O" che
ti passeggiano intorno sulle magliette e che sembrano rispondere segretamente
alla stessa "O" stampata sulla cassa della batteria, lontano sul
palco: e io mi rendo conto per la prima volta di quanto sia bello il logo
degli Opeth.
Ma
basta con i futili pensieri: le luci si spengono e dal silenzio emergono le
note dei Popol Vuh a fare da introduzione e ad alzare il livello di
spocchia della situazione. Irrompono le note iniziali di "Sorceress",
con sul palco il solo Martin Mendez, spalleggiato da Joakim Svalberg
e Martin Axenrot, rispettivamente a tastiere e batteria, che incombono
dall'alto su un soppalco alle sue spalle. La platea accoglie la band con un
caloroso applauso, ma la vera ovazione spetta di diritto al patron
Akerfeldt, che entra tronfio come un tacchino godendosi il momento. Anche da
questo dettaglio capisco il motivo per cui il Nostro ha scelto per il suo
ultimo album un incipit a base di batteria/basso/tastiere: l'intento è
chiaramente quello di valorizzare il suo ingresso, come chitarrista e come
divo, sul palcoscenico.
"Sorceress"
(il brano) rende alla grande, i suoni sono forti e chiari ed Akerfekdt sfoggia
una bella voce pulita: di colpo mi ritrovo a cantare l'inutile ritornello e a
mimare con le mani movenze di batteria e chitarra, sì, lo ammetto, come farebbe
il peggior fan dei Dream Theater. Ma è solo una parata
sfavillante, uno scenario di cartapesta che viene sgretolato dall’avvento di
"Ghost of Perdition", che mostra la pasta dei "vecchi
Opeth". E sì, "Ghost Reveries" è stato l'ultimo grande
album degli svedesi, e son contento che questa sera sia stato tributato con ben
due pezzi, questo e "The Grand Conjuration", altra mazzata
infinita dai mille momenti emozionanti a cui verrà affidata la chiusura delle
danze prima dei bis.
La
staticità dei musicisti sul palco viene compensata da eccezionali giochi di
luce e da una prestazione ineccepibile, con un dimesso Fredrik Akesson a
dare continuo supporto alle sei corde a patron Akerfeldt, divisi
entrambi fra chitarre elettriche e acustiche. Ognuno dei musicisti sul palco si
ritaglierà i propri spazi (i solismi verranno evidenziati dai riflettori
di volta in volta puntati sul virtuoso di turno), con in mezzo Akerfeldt a
fungere da faro. Anche nei momenti in cui torna a fare la "voce
grossa" il Nostro si difende assai bene, sfoggiando un growl profondo
e corposo che non mi sarei più aspettato, sebbene sia un po' penalizzato dal mixer:
del resto è ormai chiaro che la dimensione del pulito sia quella a lui più
congeniale.
La
discografia dei Nostri viene così percorsa in lungo e in largo con chicche come
"Demon of the Fall" (devastante come sempre), "Face of
Melinda" (momento di grande suggestione), "The Drapery Falls"
(top emotivo della serata) ed una violentissima "Heir Apparent",
scelta non scontata che ho apprezzato molto, in quanto ritengo quel brano il
momento più tonico del "così così" "Watershed".
Spiace constatare che un album come "Morningrise" non sia
stato contemplato a questo giro, ma del resto i brani degli Opeth sono lunghi e
tortuosi, e dunque non si può pretendere che vi sia spazio per tutto. Una assenza
che viene comunque compensata dalla gradita mancanza di eccessivi estratti
dalla discografia recente dei Nostri, rappresentata da una dignitosa "The
Wilde Flowers" (sempre dall'ultimo album) e da una ben fatta "Cups
of Eternity", che, nonostante rendesse molto bene, è stata da me
sacrificata per andare al cesso a pisciare, visto che la quantità di birra
iniziava a farsi sentire.
Si
spengono le luci e rimane l'impressione che gli Opeth siano una grande band a
cui però manca qualcosa, sospesa fra un passato estremo ed un presente
prog che, paradossalmente, invece di integrarsi meglio, dal vivo fanno
ferocemente a cazzotti. Spiegherei così il paradosso: da un lato la grandezza
degli Opeth si esprime nei brani storici, i quali però soffrono un poco il fatto
che la band chiamata ad eseguirli svolge il proprio lavoro un po' freddamente e
in modo meccanico. E senza l'alchimia che c'era fra i musicisti che quei pezzi
li avevano scritti. Del resto di quel magico periodo rimangono solo Akerfeldt e
Mendez, che conta meno del due di picche (a proposito: ma quanto cazzo è
basso???). Dall'altro lato, i brani più nuovi, che invece girano meglio
stasera sul palco che su disco, sono penalizzati dalla fiacchezza compositiva
che ha caratterizzato il cammino della band negli ultimi dieci anni.
Agli
Opeth manca inoltre un front-man carismatico, perché Akarfeldt non lo è
ed andrebbe ucciso per quello che combina fra un brano e l'altro, riuscendo
nell'intento di interrompere quel flusso magico che la sua musica riesce a ricreare
ogni volta. Al Nostro piace chiacchierare con il pubblico, peccato che dica
cazzate che non sanno di niente. Eppure il pubblico pende dalle sue labbra e si
sganascia dalle risate ad ogni sua battuta. E l'ego del Nostro non può che
gonfiarsi in una maniera smisurata: "Come faccio ad essere umile?" si
chiederà tronfio l'Akerfeldt innanzi all'ilarità suscitata da battute come
"Adesso suoniamo una canzone di merda", oppure "Questa la
riconoscerete perché assomiglia ai Morbid Angel", o anche "Calmatevi"
(per sedare l'entusiasmo del pubblico festante) e persino "Io non so
ballare...eccetto l'electric boogie…" (qui in effetti una mezza
risata l'ha strappata anche a me, ma è vero che ero ubriaco e stonato dalla
contentezza). Anche in questo caso ho una teoria: se come artista Akerfeldt non
sa cestinare nulla di quello che gli passa per la testa (in fondo la formula-Opeth
è un po' il frutto di questa sua logorrea), è inevitabile che nemmeno come uomo
non riesca a fare a meno di dire tutte le cazzate che pensa (che palle
dev'essere avere come padre o nonno Akerfeldt!).
Si
esce dunque soddisfatti, ma senza l'impressione di aver visto il più grande
gruppo metal esistente… no, aspettate, le luci si riaccendono, e quello che uno
pensa sia il classico uno-due per i bis, si tramuta in un'intera sezione
dedicata agli album-cugini "Damnation" e "Deliverance"
(del resto, se la serata era stata battezzata "An evening of sorcery,
damnation & deliverance" un motivo ci sarà stato, no?): cosa da me
inaspettata e che mi dà una grande gioia, visto che fino a quel momento avevo
un po' sofferto la prevedibilità della scaletta. Addirittura quattro saranno i
brani estratti dal "tomo acustico", con in evidenza un'ottima "Windowpane"
(fra le mie preferite del loro canzoniere) ed una coinvolgente "In My
Time of Need" (dall'enfatico ritornello kingcrimsoniano). Si
difendono bene anche una sempre gradita "Death Whispered a Lullaby"
("regalo" dell'amico Steven Wilson) e "Closure"
(con la sua bella coda prog): qua le luci si fanno di un blu avvolgente, con
sporadici fari rossi a creare contrasti psichedelici. A parere di chi scrive,
la migliore fase della serata. Tre sono invece i pezzi chiamati a rappresentare
"Deliverance" ("Master's Apprentice", "By
the Pain I See in Others" e l'immancabile title-track),
i quali costituiranno il solido sigillo apposto alla serata: forse la fatica
nel governare a fine esibizione la complessità di questi brani mostruosi si
inizia a far sentire, ed è comprensibile dopo più di due ore di concerto mica
facile, però non si può negare che, nonostante le sbavature, "Deliverance"
(il brano) rimane proprio una vagonata di belle idee...
Le
luci si spengono nuovamente e questa volta è davvero la fine. Dopo
l'inevitabile bagno di folla insieme al resto della band, Akerfeldt se ne va
con passo da Celentano lanciando la chitarra ad un povero cristo
della crew che si trova a diversi metri di distanza, dimostrando ancora
una volta la sua idiozia. Viene spontaneo chiedersi: sarà mai quell'uomo
all'altezza della sua musica?