Come
accennato nel report sul concerto dei Neurosis, ad aprire la
serata abbiamo trovato il buon vecchio Dylan Carlson e i suoi Earth.
Dato che il pezzo non era su di loro, abbiamo deciso di liquidare in poche
righe la descrizione della loro esibizione, consapevoli però che ci saremmo
rifatti con un post ad hoc. Perché mentre seguivo ipnotizzato i gesti
lenti di quella smilza e grottesca figura (e qui mi cito: "Capello lungo
ed inverosimilmente liscio (si sarà fatto la piastra?), barba crespa da tricheco,
camicia attillata anni settanta, gesti plastici e ben scanditi come a volerci
benedire con la chitarra, che si alza ed abbassa a tempo di musica"),
mentre assistevo a tutto ciò, nella mia mente si formulavano pensieri che ho
deciso di sistemare e mettere per iscritto.
Partiamo
da un assunto di base. Carlson è “noto” per due cose: l'invenzione del drone-metal
e l'essere stato amico e coinquilino di Kurt Cobain. A dirla tutta è
stato anche colui che prestò al leader dei Nirvana il fucile con
cui poco dopo si sarebbe tolto la vita. Beninteso, Carlson non è responsabile
in nessun modo della morte di Cobain, il quale, ormai avviato lungo un cammino
senza ritorno, avrebbe trovato altre modalità per compiere il gesto fatale. Non
sappiamo nulla e francamente non ci interessa oggi intentare processi, però su
un paio di punti possiamo esprimere delle riflessioni.
La
prima è che perlomeno in quella circostanza, nonostante la buona fede, Carlson
ha difettato in lucidità: il tuo migliore amico è depresso (e questo dovresti
saperlo bene) e gli presti un'arma da fuoco?? Io ci avrei pensato due
volte, ma quello che per noi può sembrare una leggerezza, evidentemente per
Carlson è stata una cosa normale. Complice probabilmente il fatto che Carlson è
figlio di un ufficiale militare, e per lui maneggiare armi, che sia per caccia
o per difesa personale, dev’essere un atto di ordinaria quotidianità, come
lavarsi il viso la mattina.
Un'altra
riflessione, che si lega direttamente alla prima, è di natura artistica, ed è
la dimensione che più ci interessa. Gli Earth sono nati prima del suicidio di
Cobain e l'idea di esplorare territori estremi del rock era sicuramente
nell'indole del Nostro, che indica fra le sue influenze principali compositori
minimalisti come La Monte Young e Terry Riley, e band come Melvins,
che peraltro rientravano nel bacino di interessi degli stessi Nirvana.
L'America
dei primissimi anni novanta era in pieno fermento: si tornava alle sonorità
ruvide degli anni settanta, raccogliendo le migliori energie del rock
alternativo ed indipendente degli anni ottanta. Prima che si venisse a parlare
di grunge, quel manipolo di band che poi ne diverranno il simbolo si
muovevano in territori di confine fra hard-rock, punk, metal,
indie-rock, noise e cantautorato à la Neil Young. E
gli Earth erano sicuramente figli di questo periodo. Con la differenza che il
genio autistico di Carlson, incurante del successo, era proiettato verso lidi
avanguardistici. Basti pensare agli intenti manifestati scegliendo come monicker
la parola “Earth”, che era stata il primo nome, poi scartato, dei Black
Sabbath.
L’arte
di Carlson, già nei propositi, si pone infatti come opera di riciclaggio
di rifiuti, e non è un caso che le prime creazioni degli Earth assomigliassero
ad un insieme di scarti, riff incompleti, abbozzi di canzoni di Iommi
e soci, il tutto contornato da feedback e il ronzio di amplificatori
imponenti (i celeberrimi Sunn) lasciati a friggere con gli strumenti accesi di
fronte. Attenzione però, con un ordine ed un rigore marziale dovuti sicuramente
all'educazione "militare" ricevuta.
La
musica degli Earth, almeno agli inizi, era inascoltabile e verrà rivalutata
solo in seguito grazie alla promozione fatta dai Sunn O))), che indicheranno
Carlson fra i loro maestri (di fatto riproponendo paro paro quanto già
contenuto in "Earth 2: Special Low-Frequency Version", del
1993, ma con qualche accortezza in più a livello di marketing che varrà il loro
successo).
Poi
c'è la morte di Cobain, qualche altro album uscito nel semi-anonimato e sei o
sette anni di assoluto silenzio che verranno giustificati da Carlson con
generici motivi legati a droga e a problemi con la Legge.
Quando
gli Earth si riaffacceranno sul mercato discografico nel 2005, ormai come nome
di culto pompato dall'ascesa dei discepoli Sunn O))), il loro sound sarà
molto diverso. Dietro al minaccioso titolo "Hex (or Printing in the
Infernal Method)” ed alla inquietante copertina (una fotografia ritraente,
in un suggestivo bianco e nero, un lugubre edificio in legno sperduto nel
deserto) troviamo un rock metafisico che rinuncia quasi del tutto ai riffoni
ed alle distorsioni per farsi desolata e lisergica psichedelia, a
metà strada fra gli incubi di Angelo Badalamenti e il Neil
Young della colonna sonora di "Dead Man". Spruzzi di droni
e note al minimo, reiterate fino alla sfinimento, ricordano l'antico modus
operandi, ma la musica degli Earth del nuovo millennio è decisamente più
accessibile che in passato.
Attenzione
però: Carlson rimane un artista avulso dai suoi tempi, autoreferenziale,
interessato a sviluppare pazientemente quei mostri che la sua mente spostata
gli suggerisce. E' semmai il mondo ad essersi avvinato a lui…
Ci
piace immaginarcelo solo nella sua stanza disadorna, magari seduto sul letto e
con una chitarra acustica in mano, che sfiora con gesti lenti il suo strumento,
in attesa della giusta vibrazione. La sua musica è piena di vuoti, che egli
tenta di colmare con le poche note a sua disposizione, mosso da scrupoli che
solo lui conosce. Una natura parsimoniosa (dovuta ancora alla
disciplina militare impartita dal padre?): il classico uomo di poche
parole, chiuso in un mutismo (artistico) probabilmente reso ancora più duro da sensi
di colpa che pesano, magari anche silenziosamente, sulla coscienza. Perché
il rammarico per aver prestato l’arma che ha fatto fuoco contro il suo migliore
amico è grande e difficile da smaltire: un “carico” che la musica degli Earth
probabilmente si porta ancora oggi sulle spalle.
Gli
album successivi si rivestiranno nuovamente di una potente coltre elettrica,
avvolti nelle "confortevoli" spire di un evocativo doom, qua e
là ricoperto di polvere e sabbia del deserto. Ma laddove il drone-metal dei
Sunn O))) suona tronfio ed auto-compiacente, quello degli Earth porta con sé
una velata fragilità, forse nemmeno del tutto consapevole: un viaggio
introspettivo che nel suoi continuo avvilupparsi (i soliti riff
circolari che si ripetono ad infinitum) non sembra trovare un punto di approdo.
Il classico "girare intorno alle cose" di chi, se ci possiamo
permettere una interpretazione, non ama nella vita prendere il toro per le
corna.
Chi
va invece dritto al punto è un'altra figura collegata a Kurt Cobain: il
ben più popolare David Grohl, batterista dei Nirvana prima e leader
dei Foo Fighters poi, nonché produttore e personaggio di spicco nel music
business odierno.
Come
non abbiamo dato colpe a Carlson, non accusiamo Grohl di aver lucrato
sull'immagine di Cobain, sebbene la provenienza dai una così famosa compagine
lo abbia innegabilmente aiutato nella fase di start-up della sua
carriera solista. Riteniamo che, pur non essendo un artista particolarmente
talentuoso o ispirato, oggi il Nostro brilli di luce propria. Del resto dal 95
ad oggi ha avuto più di vent'anni per dimostrarlo, e se i Foo Fighters sono
oggi una delle band più popolari del rock mainstream, dei meriti,
almeno a livello di tempismo e di lettura della realtà, glieli riconosciamo.
L'ideal-tipo dell'uomo giusto al momento giusto, ma anche dell'audace
aiutato dal Fato che sa volgere gli eventi a proprio favore.
Egli
ha una personalità diametralmente opposta a quella di Carlson: da batterista ha
imbracciato la chitarra e si è messo dietro al microfono per avanzare in prima
fila e farsi front-man ed icona di una nuova band, ama apparire nei
video (sfoggiando anche discrete doti attoriali), è un iperattivo e quando non
compone o è in tour con i Foo Fighters, lo troviamo a suonare la
batteria in album di altri artisti (Queens of the Stone Age un nome su
tutti), o impelagato in qualche bislacco progetto (si pensi ai Probot,
dove ebbe il privilegio di lavorare a fianco di grandi glorie del metal come Lemmy,
Cronos, Max Cavalera, King Diamond, Lee Dorrian, Thomas
G. Fisher ecc.), o a produrre band esordienti, sempre con l'entusiasmo di
chi ama la musica ed è consapevole di averne fatto il proprio (redditizio)
lavoro. Dei Nirvana egli prenderà il lato più sbarazzino; delle nevrosi di Kurt
Cobain nemmeno l'ombra.
Proprio
l'esatto contrario di Carlson che dell'epopea grunge ha scelto la facciata più
rancida. Cowboy solitario e stralunato, apolide (per via del
lavoro del padre da piccolo si è dovuto trasferire spesso) ed al tempo stesso
saldamente legato alle sue radici (la tradizione americana, il country,
il southern rock sono tutti aspetti che ritroviamo nel suo DNA di
artista), Carlson è forse sempre stato l'uomo sbagliato al momento giusto,
“figura sfasata” oggi sospinta in alto non tanto dalla sua forza interiore,
quanto dalle tendenze del metal degli ultimi quindici anni ad uscire dal formato
canzone (dimensione a lui da sempre estranea), a riscoprire le proprie radici
più autentiche e genuine (Black Sabbath in primis) e a compiere uno scavo
metafisico che va a svelare le potenzialità più spirituali del genere.
Oggi
Carlson è il campione (quasi un “eroe per caso”) di questo stato di
cose, maledetto ed al tempo stesso benedetto dal suo modo di essere: un
qualcosa di irrisolto sospeso fra caserma, fattoria e luridi appartamenti ove
ci si iniettava l'eroina nelle vene. Un personaggio alieno, forse un
disadattato, in cui si scontrano un'apprezzabile intransigenza ed una tragica
trascuratezza: ricetta assurda per la genesi di un artista unico…