Avete presenti quei film che hanno la loro parte migliore nelle recensioni?
O meglio, prendiamo un’esperienza di vita vissuta. Per problemi di tempo, a scuola non si svolgeva mai tutto il programma di letteratura: di opere vere e proprie ne leggevamo davvero poche, in classe. Al resto ci pensava il libro di testo, o le letture critiche. Un libro di testo accessorio in cui erano raccolti brani di critica letteraria, che le opere te le commentavano, raccontavano, spiegavano. Leggendo quelle critiche, le opere sembravano sempre qualcosa di interessante, geniale, compiuto, solo pietre miliari. Anche quelle considerate meno belle, erano comunque “importanti”, o riflettevano l’epoca, insomma avevano qualcosa di grande, di definitivo. Una fila di centri nel bersaglio. Dopo di che, avevi paura a leggerle, perché non potevano essere così belle, e infatti mediamente non lo erano. Erano meglio le recensioni, le riflessioni, cioè la letteratura secondaria su quelle stesse opere.
Purtroppo vi devo parlare dei Darkthrone. Il loro percorso di viraggio verso le radici sporche e sgraziate del metal è altamente interessante.
Ci si potrebbe scrivere una saga, alla Guerre Stellari:
I Darkthrone contro l’Impero delle Tendenze Musicali.
I Darkthrone come custodi della brace nera del metal, da cui tutto deriva.
I Dakthrone come metal staminale, forse questo l’ho scritto anche io, che può evolvere in diverse direzioni, anzi è già evoluto in diverse direzioni.
I Darkthrone come metal regressivo, che celebra il già dato, fa il verso al passato con consapevolezza.
I Darkthrone come momumento al rudere, e non ruderi di monumenti, come tanti artisti falliti che continuano a sforzarsi con l’ernia di stare a galla, o trovare nuove e insulse vie.
Ci si potrebbe scrivere una saga, alla Guerre Stellari:
I Darkthrone contro l’Impero delle Tendenze Musicali.
I Darkthrone come custodi della brace nera del metal, da cui tutto deriva.
I Dakthrone come metal staminale, forse questo l’ho scritto anche io, che può evolvere in diverse direzioni, anzi è già evoluto in diverse direzioni.
I Darkthrone come metal regressivo, che celebra il già dato, fa il verso al passato con consapevolezza.
I Darkthrone come momumento al rudere, e non ruderi di monumenti, come tanti artisti falliti che continuano a sforzarsi con l’ernia di stare a galla, o trovare nuove e insulse vie.
Bellissimo, da riempire un libro. La verità è questa, e ve la confesso tutta qui. Alcuni dei brani della produzione dei Darkthrone da "Ravishing Grimness" a ora mi sono piaciuti, e mi ripropongo di farmici un cd da mettere in auto. Non so se mi riuscirà, perché non mi ricordo i titoli, e quindi mi toccherebbe riascoltare tutti i dischi per trovarli. Ecco, questo è troppo.
Ma non chiedetemi il perché. Lo possiamo sapere tutti, basta ammetterlo. "Hate them" fu registrato in 26 ore (e mixato)…neanche i Venom, che infatti con quei tempi lampo facevano dischi sempre più penosi. Se quindi l’intento era di recuperare il troiaio-metal dei Venom, che tolto "Black Metal" non hanno fatto niente di memorabile (oggi è il giorno delle confessioni), allora complimenti! La cosa migliore di quel disco? Forse il titolo che non gli hanno mai dato, optando per "Hate them": Leper Unctor.
Quando i Darkthrone fecero "Ravishing Grimness" pensai: l’idea non era malvagia, faranno meglio col prossimo. Intanto questo lo tengo, ha un suo perché. Poi uscì "Hate them", vendetti il precedente al mercatino, e dissi lo stesso. Andavano fatte sparire le prove, le prove che da anni i dischi dei Darkthrone….non riesco a dirlo, non sono ancora pronto.
Per raccontarci quanto geniale fosse il percorso artistico di quei due, si doveva però far finta che la vena creativa reggesse il passo a cotanto progetto. Ci sono due modi, che si utilizzano per quei dischi su cui vuoi lasciare in sospeso il giudizio, perché ti dispiace. Uno è ascoltarli una volta, e poi metterli su un altarino, come fossero ormai consacrati e non si potessero più consumare. L’altra è far finta di ascoltarli, ma in realtà fermarsi dopo il terzo-quarto pezzo, sempre che sia davvero il terzo-quarto, perché dopo il secondo in genere sembra tutto un continuum di tempi indigesti, growling che spezzano ogni ipotesi di ritmo e di struttura, e cambi di tempo che ti fanno passare da un tempo ad uno uguale, bastano un paio di secondi e ti sei già scordato com’era il ritmo di prima.
Per raccontarci quanto geniale fosse il percorso artistico di quei due, si doveva però far finta che la vena creativa reggesse il passo a cotanto progetto. Ci sono due modi, che si utilizzano per quei dischi su cui vuoi lasciare in sospeso il giudizio, perché ti dispiace. Uno è ascoltarli una volta, e poi metterli su un altarino, come fossero ormai consacrati e non si potessero più consumare. L’altra è far finta di ascoltarli, ma in realtà fermarsi dopo il terzo-quarto pezzo, sempre che sia davvero il terzo-quarto, perché dopo il secondo in genere sembra tutto un continuum di tempi indigesti, growling che spezzano ogni ipotesi di ritmo e di struttura, e cambi di tempo che ti fanno passare da un tempo ad uno uguale, bastano un paio di secondi e ti sei già scordato com’era il ritmo di prima.
Quella manciata di pezzi che mi piacciono sono ugualmente sparsi nei vari episodi, forse due in "The underground resistance", toh. Il meglio dei Darkthrone, dopo l’era black metal, sono questi pochi pezzi, le recensioni più ispirate che descrivono la nuova linea artistica, e questo testo, di "Tundra Leech", che meritava ben altra cornice.
Liberato dentro il cerchio, strappo le radici dal suolo sacro, giacciono spoglio sulla terra assetata di semi, pensando a nient’altro che a me. Non ce la faccio – tiro la corda. Pupazzi d’allevamento, perché gocciolate sangue, dannati che distruggono la speranza. Sanguisughe d’arido gelo. Richiama ciò che è tuo, non importa se sepolto, mena la resurrezione avanti e indietro. Antico tradimento e sorpassato punto morto. Date inizio alla nascita corrosiva. Graffiare nel nulla, viscere espulse in mezzo al sangue, gelate. E’ tutta terra senza direzione, mentre tu strisci verso la tua dissezione.
L’insistita metafora della terra che non dà frutti, del movimento disperato e cieco dell’uomo che batte sul suolo come su una pietra focaia, e lo riaccende dal nulla. E tutto intorno invece le mode, che si svendono goccia a goccia per ottenere dal terreno delle piantine basse, che il vero alfiere del metal vuole sradicare. Non sarà nel consumo, ma nel nichilismo il vero seme che non sarà debitore della terra, ma suo compagno alla pari. Questa era l’allegoria del metal che rinasceva dalle sue origini, dal suo magma “prima” delle mode, che metteva alla pari la casualità del punk con la marzialità del black, l’ironia con la cattiveria, la lentezza con la velocità. Un terreno spoglio aperto a tutte le direzioni, in cui chi vuole trovar vita deve farsela da solo.
Adesso le cose sono due. O mi compro "Arctic Thunder" e poi lo rivendo per far sparire le prove, oppure non lo compro e mi incornicio questo testo come epitaffio ai Darkthrone di vent’anni fa.
A cura del Dottore