A livello di album in studio, mi
ero fermato a vent’anni fa, col bellissimo “Sonic Origami” (1998)
E li avevo “congelati” poco dopo,
nel 2001, con quel grandissimo capolavoro live che risponde al nome di “Acoustically driven” (disco da buy or die).
Nel mio cuore li volevo ricordare
così, non dico al loro top ma sicuramente a livelli altissimi.
Lo premetto: ho un debole per gli
Uriah Heep, da sempre. E non persi tempo a celebrarli, appena nato Metal Mirror nel 2015, prendendo come spunto i 70 anni del loro mitico tastierista Ken Hensley.
Hensley è quasi 40 anni che non
fa più parte della band. Così come, si sa, non ci sono più la buonanima di David Byron e lo storico drummer Lee Kerslake. Tre musicisti che avevano
marcato a fuoco il periodo d’oro degli Heep (cioè la prima metà degli anni
settanta). Ma che quella vecchia volpe di Mick Box aveva saputo rimpiazzare più
che egregiamente con Phil Lanzon ai tasti d’avorio e Bernie Shaw alla voce.
Tanto che possiamo dire che Lanzon e Shaw sono a tutti gli effetti membri
storici del combo.
Perché ritirare fuori quindi gli
Uriah Heep nel 2018? Beh, perché vocine di redazione, molto lusinghiere, facevano presagire
ottime cose da questo “Living the dream”. Così non ho perso tempo a procurarmelo e l’imbeccata è
stata sicuramente positiva (e veritiera).
Attenzione, molto del giudizio su questa nuova release dipende dall’ascoltatore, dai presupposti con i quali gli si pone davanti. Che cosa vogliamo, noi fan (o distaccati uditori) da un album
degli UH? Innovazioni? Evoluzione del sound? Spunti rivoluzionari per
l’hard and heavy del terzo millennio? Per carità, ogni punto di vista è
legittimo, ma personalmente mi sono accostato al disco con la semplice voglia
di trovare un’ora di buona musica, suonata e prodotta bene. E in cui una band, con
alle spalle quasi 50 anni di carriera, che di cagate non ne ha mai fatte, non
facesse, appunto…una cagata! E devo dirvi che il pericolo è ampiamente
scampato. Anzi, la band dimostra che si può, anche quando la carta d’identità
ti dice che sei entrato nella Terza Età, di poter ancora esprimere classe,
dinamismo e freschezza compositiva senza snaturarsi ma neppure sedendosi sui (numerosi) allori del glorioso passato.
E così “Grazed by heaven” ci
accoglie rocciosa, forte di un sound che si evince subito moderno ma non modernista, potente e forte
della sua scrittura, ricco di sfumature, che si fa apprezzare senza ricorrere a
giochetti dovuti alla produzione. Solo chitarra, tastiera, basso, voce e
batteria suonate come dio comanda. I tòpoi uriaheepiani, fatti di pathos ed
epicità folkeggiante (vedi “Waters flowin’”), vena progressiva mai sbrodolona
(la stupenda “Rocks in the road” ne è un esempio mirabile) e mid-tempos
rocciosi, coesistono con adrenalinici scambi di assolo chitarra/tastiere e
cavalcate heavy in doppia cassa (a proposito ascoltatevi l’ottima title-track),
donando al tutto una piacevolissima varietà sempre credibile, sincera.
Nota di merito poi per Bernie
Shaw, cantante che ho sempre amato non soltanto per le sue doti tecniche, ma
soprattutto per la sua capacità di essere protagonista del sound complessivo,
senza andare mai sopra le righe, perfettamente funzionale alla complessiva resa
dei brani.
Che poi in questo LTD non ci sia
nulla di straordinario, o che ci faccia gridare al miracolo, questo è evidente. E già lo sapevamo prima di metterci
all’ascolto.
Ma la cosa che ci fa immenso piacere, tanto da testimoniarlo in questo post, è di averli ritrovare dopo 20 anni, con la consapevolezza che abbiano ancora qualcosa da dire, senza dover dimostrare nulla a critica e pubblico. Con onestà, eleganza, forza e ispirazione.
Bentornati, ragazzini…
Voto: 7,5
Canzone top: “Rocks in the road”
Momento
top: l’epico bridge di “Take away my soul”
Canzone
flop: “Goodbye to innocence”
Etichetta: Avalon L.
Dati: anno 2018, 10 canzoni, 52 min.
A cura di Morningrise