Come molti appassionati di gothic metal mi sono avvicinato agli Antimatter perché furono la band che Duncan Patterson formò all’indomani della sua uscita dagli Anathema, dopo due disconi come “Eternity” ed “Alternative 4”, nei quali la sua penna era stata determinante.
Ho continuato a seguire la band nonostante la dipartita di Patterson: dai sentieri pinkfloydiani venati di suggestioni trip-hop degli esordi, Mick Moss (l’altra metà del progetto) seppe spostarsi con efficacia verso lidi più canonicamente rock, approdando ad una peculiare forma di emo-metal in cui, ovviamente, l’ingrediente principale rimaneva la sua bellissima voce. E l’ultimo “Black Market Enlightment” non solo conferma il trend positivo di quello che potremmo definire il cammino “solista” del Nostro, ma costituisce un mirabile traguardo per gli Antimatter come entità nel panorama metal odierno, integrando con disinvoltura slancio introspettivo, suoni moderni (chi ha detto Tool?) e squisite esplorazioni neo-progressive (che avvicinano la band a quanto proposto dagli ultimi Anathema). Insomma, gli elementi per provare grandi emozioni ci sono tutti: vediamo se stasera Moss e soci saranno in grado di non tradire le aspettative!
La saletta-concerti del Black Heart, locale storico di Camden Town, è talmente piccola che, durante un’esibizione, rischi di distrarti fissando le otturazioni del cantante di turno. Sarebbe stato perfetto per un set acustico, ma già il titolo che campeggia in locandina, “An electric evening with”, suggerisce anche al più lento di comprendonio che i Nostri premeranno il piede sul distorsore: speriamo soltanto che la resa sonora sia all’altezza della situazione.
Aprono i londinesi Orpheum. Sarà per il fatto che il locale non è più grande del mio salotto, ma ho l'impressione di essere in fila alle Poste. Il corpulento bassista copre metà del palco, mente sull’altra metà si dispone il resto della band, capitanata da una giovincella che, nonostante la tenuta attillata e i toni ammiccanti, sembra un giocatore di rugby in miniatura. Loro si definiscono gothic progressive metal, pescando un po’ dai Paradise Lost, un po’ dai Nightwish, ma lo status di dilettanti gioca a loro sfavore, sia a livello di proposta (originalità zero) che a livello di sicurezza mostrata sul palco. Cosa aspettarsi del resto da una band che debutta nel 2018 con un album che si intitola “Darkness and Decay”?
Perlomeno i Beautified Project, che sono la prima band armena ad avere ricevuto un riconoscimento internazionale (sti cazzi!), se la giocano sulla simpatia: sembra di essere alla sagra del monociglio e certo i tre non sono proprio belli a vedersi, ma non è che musicalmente siano tanto meglio. Date le circostanze, il set acustico giova ai Nostri, ma non risolleva dalla mediocrità ballate assai insipide che ospitano testi che avrei potuto scrivere in seconda media (“thank you for appearing in my lifeeeee”). Il cantante spiega che la soluzione unplugged è stata una scelta forzata dovuta al fatto che, essendo tornato a Londra da nemmeno un mese, ha provato a riformare come meglio ha potuto la band che aveva fondato quindici anni prima. "Lo so che non siete venuti per noi" ed ecco dunque che il tipo invita sul palco niente meno che Mick Moss, presentandolo come “la migliore voce del mondo”. E in effetti l’intensità dell'esibizione si impenna verticalmente per almeno un paio di brani (per la cronaca: Moss aveva nel 2011 collaborato con la band prestando l'ugola al brano “Broken Smile”).
Tanto di cappello per Moss che si mostra straordinariamente alla mano e disposto a prestarsi ai tristi siparietti del collega armeno, a scapito dell'approccio lacrimevole che trapela dalle sue composizioni. La domanda tuttavia sorge spontanea: è possibile che un cantante così dotato, autore di musica così bella, sia letteralmente snobbato dal pubblico di Londra e si ritrovi in un pub a fare del cabaret con personaggi perfettamente sconosciuti? Cioè: si è grandi ma ci ritrova piccoli perché sfortunati, o si rimane piccoli perché forse non si è così grandi?
Mick Moss di sicuro non è alto di statura e fin dalle sue prime mosse appare come il classico perfezionista che senza le sue cuffiette non riesce a fare un cazzo (e in effetti, l’aggeggiare con gli auricolari, che scapperanno via dalle orecchie innumerevoli volte per via del sudore, sarà la vera costante della serata). Ma se mi aspettavo sette, quello che mi è arrivato stasera è nove: Moss ha dato il massimo in condizioni davvero avverse, in un palco di tre metri quadrati, dove certi energumeni in prima fila erano più alti di lui; in un posto così piccolo e pieno di gente che la temperatura sarà stata minimo cinquanta gradi; con suoni sbilanciati e batteria prossima al set di pentole. Ma la voce c’è, e c’è anche la musica.
Il Nostro privilegia comprensibilmente il repertorio recente, con un unico estratto dalla fase Patterson (una splendida “The Last Laugh” recuperata dal debutto “Survivor”). L’apertura delle danze spetta di diritto a “The Third Arm”, singolo di lancio dell’ultimo “Black Market Enlightment” e già si vola alto. Il rischio di un concerto degli Antimatter è che le canzoni tendono terribilmente ad assomigliarsi, ma il pericolo è scongiurato dal fatto che la formula funziona sempre: perché il bello di Moss è che ti dà tutto quello di cui hai bisogno se ascolti generi diversi che vanno dal gothic-metal al progressive, dalla psichedelia alla darkwave: arpeggi elettrificati, esplosioni di chitarre, basso muscolare, ritornelli epici ed assoli pinkfloydiani (nota di merito al chitarrista solista che, a scapito dell'aspetto da buzzurro, si rivelerà autore di interventi sempre pregiati e prossimi a lidi gilmouriani). Gli Antimatter convincono anche quando decidono di picchiare, come accade con l’incalzante “Paranova” (che dal vivo acquista potenza, candidandosi fra i momenti top della serata) e la sabbathiana e minacciosa “Between the Atoms”, altro valido estratto dall'ultima release discografica.
La scaletta viene spezzata dalla singolare rivisitazione di “Welcome to the Machine”, che dell’originale conserva ben poco, per farsi un brano degli Antimatter a tutti gli effetti. C’è della rabbia grunge nella musica degli inglesi, sarà per la voce di Moss che a tratti ricorda quella di Eddie Vedder, sarà per le furiose detonazioni di chitarra che richiamano le nevrosi di Kurt Cobain. Che sia post-grunge la vera definizione della musica degli Antimatter, giunti, album dopo album, ad un azzardato mix fra Pink Floyd e Nickelback?
La seconda parte dell’esibizione è in discesa, con i momenti memorabili che si susseguono uno dopo l’altro: la titanica "Wide Awake in the Concrete Asylum", oltre a rimarcare la bellezza insostenibile di un album come "Fear of a Unique Entity", mi fa piangere e ridere al tempo stesso in occasione del ritornello (in realtà sono io che traviso, capendo "Why am I so cold?", quando in verità il testo recita "While the sea is so cold" - ed ecco perché, mi spiego solo adesso, Moss non aveva capito la mia battuta, quando, all'ennesima sua lamentela riguardante il caldo eccessivo, gli ho gridato "ma non eri freddo?!?"). Certo, in questi momenti c'è da ringraziare serate come queste in cui ti ritrovi ad un metro di distanza da artisti che segui da anni e veneri su disco come se fossero delle divinità. E poi è il momento di “Redemption” (da quel capolavoro che risponde al nome di “Leaving Eden”), apice emozionale della serata, momento definitivo di una esistenza, con il materializzarsi del fantasma di Daniel Cavanagh, che con le sue sei corde venne in soccorso agli Antimatter dopo la perdita del fondamentale Patterson.
Moss si spreme come un pompelmo, sia a livello vocale che fisico, rischiando che le vene del collo gli scoppino durante i ritornelli, asciugandosi continuamente il sudore che gli cola a fiotti lungo il viso, trangugiando una Red Bull dopo l'altra, rimettendosi nervosamente le cuffiette ogni volta che gli scivolano via, montando sovente su un amplificatore per guadagnare quella statura che meriterebbe per essere perfetto. Ma perfetto non è Moss, che ritroviamo, a fine concerto, a lanciare gommose Haribo sul pubblico, spiegando che non può andare avanti per il troppo caldo. E chiudendo l’evento come si era aperto: in nome dell’ironia.
E’ proprio vero che una risata ci seppellirà tutti...
...The Last Laugh…