Nascono i Mercyful Fate, già con una prima malformazione congenita. Il nome è retaggio di una nomenclatura settantiana, che voleva nomi presi da modi dire, motti ironici, nomi propri, misteriosi accostamenti nome-aggettivo (tipo insomma “Pink Floyd”, “Led Zeppelin”, “Deep Purple”, “Balletto di Bronzo”, “Il rovescio della medaglia” etc.).
Un metallaro dell’epoca poteva quindi guardare con sospetto questo nome, che non suonava molto metal. Dietro di esso si nascondeva invece un'inquietante proposta che partiva dai Black Sabbath e li variegava, oltre ad appesantirne la componente horror, e a inserire alcuni “eccessi” metal, come il solismo chitarristico e i timbri disumani di voce. Facevano quindi l’effetto di quei serial killer di cui i vicini intervistati dicono “sembrava un tipo normale, salutava sempre”.
Il timbro del cantante, Kind Diamond, anticipò concettualmente l’uso di voci non umane nel metal, ovvero le maschere tragiche, voci non realistiche, che subordinavano l’interpretazione ad una “maniera” sonora a livello timbrico, non ad un accento o ad un lessico, come già era in altri generi. Diamond usava il falsetto acuto, ma anche il sussurrato, il vocione roboante, la voce stridula, la cantilenante alla Ozzy e virtuosamente spesso passava da un timbro all’altro in maniera improvvisa.
Questo EP uscì come omonimo di 4 brani, ma in pochi lo conoscevano. Fu poi rieditato nel 1987 e integrato dal singolo "Black Masses" e da versioni più acerbe di alcuni brani del primo album, sotto il titolo di “In the beginning”. Nella mia storia d’ascolto quindi la sequenza non fu quella cronologica originale, ma questa: Melissa – Don’t break the Oath e poi In the beginning. E consiglio anche ai lettori tale cronologia sbagliata.
I brani non somigliano alla produzione storica dei Mercfyful. Sono più rapidi e semplici nella struttura, anche se in alcuni break lenti a centro canzone si intravede quel gusto per l’articolazione irregolare o la digressione che dominerà la produzione successiva. Le linee vocali sono facilmente memorizzabili, e l’effetto dell’infantilismo vocale di King Diamond, accostato ad una base sulfurea, è qualcosa che si fa ricordare. In più, nonostante testi e titoli da satanisti del sabato sera, la serietà della maschera lirica con cui King recita versi anche banali li rende invero inquietanti.
La copertina originale ritrae una congrega di incappucciati arrapati che, terminate in maniera frettolosa le invocazioni demoniache, si apprestano a compiere riti sessuali sulla donna legata ad una croce sormontata da un pentacolo. Ai lati, due istallazioni che somigliano a simboli fallici, un prototipo a cui King aggiungerà una specie di 8 orizzontale (forse simbolo dell’infinito) alla base e forse un’altra linea, ottenendo un simbolo simile ad una fava infiocchettata. Il disegno, non malvagio ma neanche curatissimo, rappresenta un esempio della discrepanza che all’epoca poteva esservi tra artwork amatoriale e contenuto memorabile, ciò che oggi non accade praticamente più.
“Nuns have no fun” è il titolo del terzo brano nonché titolo alternativo dell’EP, ed il suo testo corrisponde alla copertina. La donna che attende di essere (in un modo o nell’altro) “sacrificata” è una suora, sconsacrata facendole indossare mutande con il pentacolo.
Il testo è una critica alle “suore”, probabilmente intendendo le compagne di liceo che non la davano, perché altrimenti tanta acredine non si riesce a capire. La suora è accusata di esibizionismo ed egocentrismo nel suo sostenere la condizione di “reginetta della verginità”. Il testo scivola nel comico, stile Aretino “Lo faccio rizzare, rizzare nel buio, glielo faccio sentire che non sono un santarello, lei respira sempre più veloce, come uno squalo (?! - nda), ne vuole ancora, le darò la mia croce”. Rimane un mistero cosa voglia dire l’epiteto C.U.N.T messo come acronimo: Convenient Urban Night Transport, o piuttosto Clit Undergoing Normal Trauma? L’immaginario della suora zozzona ha radici antiche, dalla Monaca di Monza del Manzoni, fino al filone nun-exploitation della cinematografia di serie b, quei film horror-erotici con suore, conventi, possessioni frammiste a scorci di zone erogene. Il tema sociale proposto da questo brano, e cioè che le suore non si divertono granché sul piano sessuale, è di un certo spessore, da interrogazione parlamentare: la soluzione dei Mercyful Fate, di provvedere personalmente con orge nere, ci pare un tantino sbrigativa e semplicistica.
Tra l’altro noi Italiani rimaniamo abbastanza freddini a questo tipo di provocazioni, perché appunto la nostra tradizione, già nel 1500, ci offre ben altri testi, come quelli dell’Aretino:
Dubbio XXIII
Sul cazzo di fra Biondo ardito e scaltro
dimenandosi ben suor Cleofasè
ruppe i coglioni al frate e il culo a sé.
Utrum deve dolersi l'un dell'altro?
Al contrario quindi di alcuni esagitati della rete che si compiacciono di questo erotismo da spogliatoio di calcetto, noi riteniamo che il vero valore del disco stia nella musica, nonostante testi a tratti risibili o comunque poveri. Nell’attesa che qualcuno metta in musica i sonetti dell’Aretino (ci vedrei bene gli Ulver, versatili), ne consigliamo l’acquisto, non prima di aver sciolto il dubbio sopra esposto:
Risoluzione XIII
Commune ad ambidue fu la rottura
del culo a l'una, a l'altro dei coglioni,
e di querele e di lamentazioni
l'uno dell'altro non dee aver paura.
del culo a l'una, a l'altro dei coglioni,
e di querele e di lamentazioni
l'uno dell'altro non dee aver paura.
A cura del Dottore