"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

11 lug 2019

I MIGLIORI EP DEL METAL - "S/T" (GODFLESH)


Lasciando bianca questa pagina avremmo forse reso un miglior servizio, a noi che scriviamo e a voi che leggete. E’ luglio ed avreste piuttosto beneficiato di una boccata d’aria fresca. Ed invece no!, eccoci imbracati in pesanti tute d’amianto che ci caliamo nei liquami radioattivi e nei miasmi infernali dell’industrial metal dei Godflesh

Parlare dei Godflesh d’estate fa già afa all’idea, figuriamoci riascoltare il loro primo EP del 1988 per buttare giù questi nostri due pensieri. 

Abbiamo diviso in “Antichi” e “Moderni” la nostra rassegna sui migliori EP del metal e coerentemente inauguriamo questa seconda decina con i Godflesh. Nonostante vi sia un solo anno di distanza fra “The $5.98 E.P.: Garage Days Re-Revisited” dei Metallica e l’esordio discografico della nuova creatura dell’ex Napalm Death Justin Broadrick, fra i due lavori vi è una differenza abissale, concettualmente, formalmente, come se appartenessero a due diverse ere geologiche del metal. 

Una volta il metal era qualcosa di confortante. Certo, c’erano il furore giovanile e la frustrazione, la rabbia, la sfiducia verso la classe politica con sullo sfondo le tensioni della guerra fredda e la paura per l’olocausto nucleare. Nonostante questo, il metal degli anni ottanta non aveva mai procurato reale disagio ai suoi ascoltatori, nemmeno nei suoi formati più estremi, ossia il thrash e il neo-nascente death metal: manifestazioni sonoramente violente che tutto sommato risultavano ancora circoscritte in una comfort zone in cui chi suonava si rifaceva ai luminari del metal classico e portava avanti un discorso costruttivo. 

Gli stessi Venom, capostipiti involontari del metal estremo, erano caotici in quanto incompetenti, ma il loro intento non era distruggere, né tantomeno pensavano che per definire nuove forme di metal fosse necessario rinnegare l'heavy metal nella sua accezione più classica. Prendiamo un altro paladino dell'estremo, Chuck Schuldiner: la sua musica ci fa ben capire come la genesi del death metal coincidesse con una ricerca stilistica compiuta con in testa, fra gli altri, Kiss, Judas Priest, Kreator e Possessed, di cui il Nostro si è sempre dichiarato grande ammiratore. 

E proprio mentre nel 1987 usciva “Scream Bloody Gore” dei Death, Broadrick partecipava alle lavorazioni del mitico “Scum”: sound innovativo quanto estremo, per certi aspetti non dissimile dal death metal, ma originato da presupposti totalmente diversi e con solide radici piantate nel punk e nell’hardcore più sovversivi.

Allo stesso modo in cui i sodali Nick Bullen e Mick Harris (gli altri due terzi della formazione che aveva suonato nel lato A di “Scum”) sarebbero pervenuti agli incubi claustrofobici del progetto Scorn, anche Broadrick avrebbe abbracciato il verbo industriale, dando vita alla sua creatura più celebre: i Godflesh. 

Alla velocità supersonica, alla furia senza compromessi, alle schegge impazzite del grindcore, i pionieri dell’industrial metal preferirono un approccio più riflessivo, condotto dall’andamento meccanico delle drum-machine, sulle quali potevano svilupparsi le visioni apocalittiche di un mondo sull’orlo del collasso. Con il grind prima e con l’industrial metal dopo, il metal iniziò il suo percorso di disgregazione, perdendo molto delle sue caratteristiche fondanti e per certi aspetti rassicuranti. Si consumò così una frattura silenziosa all’interno del metal.

Questi esperimenti non destarono indignazione: semplicemente il metallaro dell'epoca decise di ignorarli, lasciandoli in pasto direttamente agli appassionati più arditi di rock alternativo, magari credendo che si trattasse solo di un fenomeno passeggero. Per certi aspetti l’intuizione non fu sbagliata, perché in effetti non si trattò della nemesi del metal classico, ma dell’apertura di un varco parallelo che avrebbe percorso in modo sotterraneo il multiforme universo metal, senza mettere in discussione i pilastri della tradizione

“Godflesh”, nello specifico, si poneva come avamposto sonoro in un crocevia fra metal ed industrial. Dal metal i Godflesh ereditavano indubbiamente i riff dei Black Sabbath,  non a caso anch'essi di Birmingham, città natale di Broadrick. L’industrial, d'altro canto, aveva avviato il suo cammino in direzione rock qualche anno prima grazie ad act come Killing Joke e Swans, di cui i Godflesh avrebbero estremizzato le intuizioni. Non era un caso che la prima incarnazione della band si chiamasse Fall of Because, il titolo di una canzone dei Killing Joke, mentre i suoni traevano ispirazione da macigni come “Filth” (1983) e “Cop” (1984) a firma Swans. 

L'EP “Godflesh” e il di poco successivo “The Land of Rape and Honey" dei Ministry costituirono dunque le prime manifestazioni di questo nuovo filone di metal dalla vocazione contaminatrice. Ma se nei Ministry la componente elettronica rimaneva preponderante (il loro sarebbe stato un percorso di indurimento progressivo), con i Godflesh il carattere estremo del grind permaneva liquefacendosi in una colata lavica di distorsioni furibonde e secchi colpi di drum-machine (eresia!). Completava il quadro il basso ruvido e roboante di C.G. Green, cointestatario del progetto e destinato a divenire modello imitatissimo per molti altri musicisti che si sarebbero voluti cimentare nel neo-nascente industrial metal. 

Ancora: laddove i Ministry mantenevano un groove accattivante e soluzioni ancora orecchiabili (con gradite punte di sarcasmo e goliardia che stemperavano l’efferatezza della proposta, rendendola più provocatoria che estrema), il duo di Birmingham si faceva promotore di un sound alienante che, con tocco ben più espressionistico, diveniva metafora tangibile di quel messaggio nichilistico che si intendeva esprimere. Più di ogni altra cosa, a fare la differenza fu l'estro visionario di Broadrick, cantante disumano e chitarrista illuminato: sorta di Jimi Hendrix dell'era industriale, ideatore di un sound da fonderia che nel metal avrebbe fatto scuola, fra riff ossessivi e fumanti derive noise.

Non un tripudio di campionamenti, come accadeva per i Ministry, ma un monolite elettrico senza compromessi raffigurante scenari in bianco e nero (come in copertina) che bandivano i colori da una visione del mondo ferocemente distopica. Una formula che verrà poi ripresa e sviluppata brillantemente dai capolavori appena successivi, “Streetcleaner” (1989) e “Pure” (1990).

Il linguaggio e il potenziale di rottura di quella silenziosa rivoluzione erano però già inclusi in questo EP che in poco più di mezzora avrebbe anticipato una stagione di grande rinnovamento del metal. Dai Faith No More ai Korn, dai Prong agli Helmet, dai Danzig ai Type O Negative, dai Nailbomb ai Converge, dai Neurosis agli Isis, dai Fear Factory a Devin Townsend, e molti altri ancora: chiunque abbia saputo dire qualcosa di nuovo fra gli anni novanta e duemila è dovuto necessariamente passare dai Godflesh. E scusate se è poco.