"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

17 mar 2016

I FIGLI DEL "SONNO": OM E HIGH ON FIRE



Nel 1995 si scioglievano gli Sleep. Gran bel gruppo gli Sleep: cinque anni di attività, almeno un album clamoroso da tramandare ai posteri (“Sleep's Holy Mountain”, anno 1993), uno status di culto che li vede iscritti nella Storia del Rock Pesante fra i più brillanti interpreti del versante dopato del doom post-sabbathiano, nonché, accanto ai ben più noti Kyuss, fra i pionieri dello Stoner Rock novantiano.


Chiariamo però le cose una volta per tutte: a leggere le recensioni dei lavori degli Sleep non si capisce un emerito cazzo, perché chi l’ha scritte sembra appena uscito da un droga-party (e se anche vi avesse partecipato per davvero, il risultato sarebbe il medesimo: una sequela di frasi disconnesse da cui si può evincere solamente un’adulazione incondizionata). Saremmo dunque indotti a pensare che gli Sleep (che certo non disdegnavano le droghe) fossero solo tre tossiconi in stato di ispirazione divina, ed invece no! Al Cisneros (voce e basso), Matt Pike (chitarra) e Chris Hakius (batteria), erano anche (e lo sono ancora) dei musicisti cazzuti: un basso muscolare, vigoroso, epico; una chitarra che macina una quantità industriale di riff granitici (senza disdegnare l’acida divagazione); una batteria tentacolare che picchia con energia e tormenta continuamente i piatti. Il sound che usciva dalle casse era più roccioso che liquido, mentre i brani procedevano cavillosi trainati dalla sinergia dei tre musicisti, con la voce di Cisneros che si adagiava qua e là in un soliloquio a metà strada fra il sonnecchiante e il paranoico...in perfetto stile Ozzy.

Perché si sciolsero gli Sleep? Per colpa di un'etichetta di merda che si rifiutò di pubblicare l'atteso successore di “Holy Mountain”, in quanto giudicato invendibile. Paliamo di quel “Dopesmoker” che consisteva in un unico pezzo di cinquanta minuti. Un progetto inizialmente abortito, poi riproposto leggermente modificato con il nome “Jerusalem” e nuovamente bocciato (entrambe le versioni usciranno postume: “Jerusalem” nel 1999 e “Dopesmoker” nel 2003). E così gli Sleep si sciolsero, per poi riunirsi (senza Hakius dietro alle pelli) nel 2009, ma solo per far rivivere la Leggenda sul palcoscenico.

Ma non tutto è andato perduto. Dalle ceneri degli Sleep nasceranno due band. Da un lato Cisneros e Hakius fonderanno gli Om, dall'altro Pike darà vita agli High on Fire: due modi differenti, per certi aspetti agli antipodi, per diffondere la Stonata Novella predicata dagli Sleep.

Due facce della stessa medaglia che andiamo a descrivere con due opere che hanno visto la luce nell'anno 2007. “Pilgrimage” (terzo album, il primo uscito sotto l’ala protettiva della divina Southern Lord e scelto da Mojo Magazine come album underground dell'anno) fu per gli Om l'inizio di un periodo d'oro rappresentato da una ideale trilogia di album che conta anche gli ottimi “God is Good” del 2009 e “Advaitic Songs” del 2012. “Death is this Communion” (ma che bel titolo!) è invece il quarto album degli High on Fire, i cui album sono più o meno tutti uguali. Scegliamo questo perché, rispetto ad altri (complice anche l'accorta produzione di Jack Endino, già con Soundgarden e Nirvana), si mostra più variegato del solito, tentando nuove soluzioni, pur conservando quella scorza grezza e lercia che è tipica del sound targato High on Fire.

Non sono certo io uno di quelli che si accontenta della sola attitudine e purtroppo, dalle parti del doom e dello stoner, spesso si grida al miracolo solo se la distorsione delle chitarre è quella giusta ed i musicisti abbastanza sudici. Ma in questo caso, barbe, sudore e pance pelose a parte, la sostanza c’è.

Partiamo dagli Om: essi sono la sezione ritmica degli Sleep, e si sente. Niente chitarra per gli Om, che puntano non tanto alla potenza, quanto all'atmosfera. L'incedere dei loro brani si fa ipnotico, lisergico, si pensi alla lunga title-track che finisce per assomigliare a “Set the Control for the Heart of the Sun” dei Pink Floyd: arpeggio di basso reiterato senza molte variazioni per più di dieci minuti, percussioni dal sapore etnico, voce monocorde da muezzin dopato. Cisneros, dietro al microfono, non è certo un genio dei ritornelli, ma del resto non lo era nemmeno quando era in forza negli Sleep (e a guardar bene nessuno nel doom/stoner lo è mai stato, manco i Black Sabbath…).

“Pilgimage” tecnicamente parlando non è un album lungo (quattro tracce, poco più di mezzora), ma è come se lo fosse: quel che generalmente finisce in uno studio-album degli Om è infatti sempre una piccola parte di quello che succede sul palco, dimensione in cui i due danno il meglio (basti ricordare l'esibizione a Gerusalemme sempre del 2007 dalla durata record di cinque ore).

I Nostri danno del tu ai propri strumenti e in particolare Cisneros al basso è portentoso, abile negli arpeggi (che poi sono l'ossatura dei brani degli Om), quanto sul fronte dei riff distorti (tale è il carisma del bassista che le sue quattro corde riescono tranquillamente a fare le veci della chitarra). Aspetto, questo, che è possibile riscontrare in “Unitive Knowledge of the Godhead” e “Bhima’s Theme”: brani in cui lo stoner-doom degli Sleep torna a materializzarsi sotto forma di riff ripetuti allo sfinimento ed un drumming lineare ma dotato di profondità. Non attendiamoci dunque il sound dinamico e denso di accelerazioni di “Holy Mountain”, perché la musica degli Om va oltre il concetto di semplice musica, divenendo esperienza mistica, viaggio psichedelico dagli ammalianti contorni spirituali. Un sound orchestrato che nel tempo si avvarrà di archi, di strumenti etnici, di sapori orientali e di arrangiamenti sempre più ricercati (percorso che ad oggi vede il suo apice nell’ultima releaseAdvaitic Songs”).

Se gli Om si recano dalla parte dello spirito, Pike con i suoi High on Fire non poteva essere più materiale. E lo si capisce dalla truce copertina, che rispecchia in pieno i suoni fatti di rocce e sangue rappreso. Di sicuro la proposta di Pike è meno originale di quella dei suoi ex colleghi, ma ciò non toglie efficacia al sound granitico degli High on Fire che dal doom prendono in prestito la pesantezza per trasmigrarla in un involucro più classicamente heavy metal.

L'openerFury Whip” tiene fede al significato del titolo, mostrandosi una vera frustata nei denti per l’ascoltatore. E il suo incipit slayeriano, le sue ritmiche furiose con tanto di doppia-cassa lanciata a velocità folle (molto “lombardiano” il piglio del batterista Den Kensel) sono indicative degli intenti della band. A dirla tutta, i Nostri brillano di una violenza che potremmo definire pre e post thrash metal”: un apparente paradosso che non è per niente sconvolgente visto che i padri Black Sabbath thrasheggiavano serenamente già nel 1975 con “Symptom of the Universe”. Quindi la violenza degli High on Fire è primigenia, e la voce grattata di Pike (in stile Lemmy, tanto per intenderci) ce lo va a confermare, richiamando un immaginario di brutalità ancestrale per niente artefatto. Una brutalità che è anche post-thrash, evocando, con suoni grassi e nemmeno troppo vintage, la potenza deflagrante di Neurosis e Mastodon, cosa che peraltro è in tutto e per tutto nella norma: parlare di post-hardcore diviene pertinente in questa sede se si pensa infatti che alla base del genere vi sono le lezioni dei soliti Black Sabbath.

Molto del fascino degli High on Fire si basa sull’impatto sonoro, anche se poi (altro paradosso) i momenti più emblematici rimangono due brevi strumentali: la battagliera “Khanrad's Wall” (una chitarra acustica a dodici corde suonata fieramente dal bassista Jeff Matz) e la torva “Headhunter” (di sole percussioni, tanto per ribadire il clima guerrafondaio della faccenda). Poi, cosa stana, le canzoni nella parte finale dell'album s’iniziano inspiegabilmente a dilatare, mostrando una sequela di finali assai similari, caratterizzati da lunghe code chitarristiche, dove Pike sfoggia un insospettato gusto melodico (si veda “Cyclopian Scape” ed “Ethereal”).

Sia nel caso degli Om che in quello degli High on Fire non ci troviamo innanzi a degli Sleep parte seconda, ma i risultati sono comunque esaltanti. Gli Om possono sulle prime apparire noiosi, ma è solo questione di tempo: il tempo per rendersi conto che per apprezzare questa musica bisogna sdraiarsi sul divano e “liberare” la mente. Gli High on Fire, dal canto loro, possono apparire derivativi, in quanto incondizionatamente votati al sacro verbo dell’heavy metal, diretto e senza tanti fronzoli. Eppure, ascolto dopo ascolto, è impossibile rimanere insensibili al potere trascinante di questo sublime simposio di chitarra/basso/batteria come Dio Rock comanda.

E così, in conclusione, dallo stato di alterazione psichica degli Sleep, dal loro sonno dopato potremmo dire, da un lato gli Om sembrano scivolare verso una dimensione spirituale infestata da estatiche visioni, dall'altro gli High on Fire si risvegliano bruscamente in un mondo di brutture e violenza che si spera non sia la realtà, ma l'effetto collaterale di qualche sostanza andata a male...