Nel
1995 si scioglievano gli Sleep. Gran bel gruppo gli
Sleep: cinque anni di attività, almeno un album clamoroso da
tramandare ai posteri (“Sleep's Holy Mountain”, anno
1993), uno status di culto che li vede iscritti nella Storia
del Rock Pesante fra i più brillanti interpreti del versante
dopato del doom post-sabbathiano, nonché, accanto ai ben più
noti Kyuss, fra i pionieri dello Stoner Rock novantiano.
Chiariamo
però le cose una volta per tutte: a leggere le recensioni dei lavori
degli Sleep non si capisce un emerito cazzo, perché chi l’ha
scritte sembra appena uscito da un droga-party (e se anche vi
avesse partecipato per davvero, il risultato sarebbe il medesimo: una
sequela di frasi disconnesse da cui si può evincere solamente
un’adulazione incondizionata). Saremmo dunque indotti a pensare che
gli Sleep (che certo non disdegnavano le droghe) fossero solo tre
tossiconi in stato di ispirazione divina, ed invece no! Al
Cisneros (voce e basso), Matt Pike (chitarra) e Chris
Hakius (batteria), erano anche (e lo sono ancora) dei musicisti
cazzuti: un basso muscolare, vigoroso, epico; una chitarra che macina
una quantità industriale di riff granitici (senza disdegnare
l’acida divagazione); una batteria tentacolare che picchia con
energia e tormenta continuamente i piatti. Il sound che usciva
dalle casse era più roccioso che liquido, mentre i brani procedevano
cavillosi trainati dalla sinergia dei tre musicisti, con la voce di
Cisneros che si adagiava qua e là in un soliloquio a metà strada
fra il sonnecchiante e il paranoico...in perfetto stile Ozzy.
Perché
si sciolsero gli Sleep? Per colpa di un'etichetta di merda
che si rifiutò di pubblicare l'atteso successore di “Holy
Mountain”, in quanto giudicato invendibile. Paliamo di quel
“Dopesmoker” che consisteva in un unico pezzo di cinquanta
minuti. Un progetto inizialmente abortito, poi riproposto leggermente
modificato con il nome “Jerusalem” e nuovamente bocciato
(entrambe le versioni usciranno postume: “Jerusalem” nel 1999 e
“Dopesmoker” nel 2003). E così gli Sleep si sciolsero, per poi
riunirsi (senza Hakius dietro alle pelli) nel 2009, ma solo per far
rivivere la Leggenda sul palcoscenico.
Ma
non tutto è andato perduto. Dalle ceneri degli Sleep
nasceranno due band. Da un lato Cisneros e Hakius fonderanno gli Om,
dall'altro Pike darà vita agli High on Fire: due modi
differenti, per certi aspetti agli antipodi, per diffondere la
Stonata Novella predicata dagli Sleep.
Due
facce della stessa medaglia che andiamo a descrivere con due opere
che hanno visto la luce nell'anno 2007. “Pilgrimage”
(terzo album, il primo uscito sotto l’ala protettiva della divina
Southern Lord e scelto da Mojo Magazine come album
underground dell'anno) fu per gli Om l'inizio di un
periodo d'oro rappresentato da una ideale trilogia di album che conta
anche gli ottimi “God is Good” del 2009 e “Advaitic
Songs” del 2012. “Death is this Communion” (ma che
bel titolo!) è invece il quarto album degli High on Fire, i
cui album sono più o meno tutti uguali. Scegliamo questo perché,
rispetto ad altri (complice anche l'accorta produzione di Jack
Endino, già con Soundgarden e Nirvana), si mostra
più variegato del solito, tentando nuove soluzioni, pur conservando
quella scorza grezza e lercia che è tipica del sound targato
High on Fire.
Non
sono certo io uno di quelli che si accontenta della sola attitudine
e purtroppo, dalle parti del doom e dello stoner, spesso si grida al
miracolo solo se la distorsione delle chitarre è quella giusta ed i
musicisti abbastanza sudici. Ma in questo caso, barbe, sudore e pance
pelose a parte, la sostanza c’è.
Partiamo
dagli Om: essi sono la sezione ritmica degli Sleep, e si
sente. Niente chitarra per gli Om, che puntano non tanto alla
potenza, quanto all'atmosfera. L'incedere dei loro brani si fa
ipnotico, lisergico, si pensi alla lunga title-track che
finisce per assomigliare a “Set the Control for the Heart of the
Sun” dei Pink Floyd: arpeggio di basso reiterato senza
molte variazioni per più di dieci minuti, percussioni dal sapore
etnico, voce monocorde da muezzin dopato. Cisneros, dietro al
microfono, non è certo un genio dei ritornelli, ma del resto non lo
era nemmeno quando era in forza negli Sleep (e a guardar bene nessuno
nel doom/stoner lo è mai stato, manco i Black Sabbath…).
“Pilgimage”
tecnicamente parlando non è un album lungo (quattro tracce, poco più
di mezzora), ma è come se lo fosse: quel che generalmente finisce in
uno studio-album degli Om è infatti sempre una piccola parte
di quello che succede sul palco, dimensione in cui i due danno il
meglio (basti ricordare l'esibizione a Gerusalemme sempre del
2007 dalla durata record di cinque ore).
I
Nostri danno del tu ai propri strumenti e in particolare
Cisneros al basso è portentoso, abile negli arpeggi (che poi sono
l'ossatura dei brani degli Om), quanto sul fronte dei riff
distorti (tale è il carisma del bassista che le sue quattro corde
riescono tranquillamente a fare le veci della chitarra). Aspetto,
questo, che è possibile riscontrare in “Unitive Knowledge of
the Godhead” e “Bhima’s Theme”: brani in cui lo
stoner-doom degli Sleep torna a materializzarsi sotto forma di riff
ripetuti allo sfinimento ed un drumming lineare ma dotato di
profondità. Non attendiamoci dunque il sound dinamico e denso
di accelerazioni di “Holy Mountain”, perché la musica degli Om
va oltre il concetto di semplice musica, divenendo esperienza
mistica, viaggio psichedelico dagli ammalianti contorni spirituali.
Un sound orchestrato che nel tempo si avvarrà di archi, di
strumenti etnici, di sapori orientali e di arrangiamenti sempre più
ricercati (percorso che ad oggi vede il suo apice nell’ultima
release “Advaitic Songs”).
Se gli
Om si recano dalla parte dello spirito, Pike con i suoi High on Fire
non poteva essere più materiale. E lo si capisce dalla truce
copertina, che rispecchia in pieno i suoni fatti di rocce e sangue
rappreso. Di sicuro la proposta di Pike è meno originale di quella
dei suoi ex colleghi, ma ciò non toglie efficacia al sound
granitico degli High on Fire che dal doom prendono in prestito la
pesantezza per trasmigrarla in un involucro più classicamente
heavy metal.
L'opener
“Fury Whip” tiene fede al significato del titolo,
mostrandosi una vera frustata nei denti per l’ascoltatore. E il suo
incipit slayeriano, le sue ritmiche furiose con tanto di
doppia-cassa lanciata a velocità folle (molto “lombardiano” il
piglio del batterista Den Kensel) sono indicative degli
intenti della band. A dirla tutta, i Nostri brillano di una violenza
che potremmo definire
“pre e post thrash
metal”: un apparente
paradosso che non è per niente sconvolgente visto che i padri Black
Sabbath thrasheggiavano serenamente già nel 1975 con “Symptom
of the Universe”. Quindi la violenza degli High on Fire è
primigenia, e la voce grattata di Pike (in stile Lemmy, tanto
per intenderci) ce lo va a confermare, richiamando un immaginario di
brutalità ancestrale per niente artefatto. Una brutalità che è
anche post-thrash, evocando, con suoni grassi e nemmeno troppo
vintage, la potenza deflagrante di Neurosis e Mastodon,
cosa che peraltro è in tutto e per tutto nella norma: parlare di
post-hardcore diviene pertinente in questa sede se si pensa infatti
che alla base del genere vi sono le lezioni dei soliti Black Sabbath.
Molto
del fascino degli High on Fire si basa sull’impatto sonoro, anche
se poi (altro paradosso) i momenti più emblematici rimangono due
brevi strumentali: la battagliera “Khanrad's Wall” (una
chitarra acustica a dodici corde suonata fieramente dal bassista Jeff
Matz) e la torva “Headhunter” (di sole percussioni,
tanto per ribadire il clima guerrafondaio della faccenda). Poi, cosa
stana, le canzoni nella parte finale dell'album s’iniziano
inspiegabilmente a dilatare, mostrando una sequela di finali assai
similari, caratterizzati da lunghe code chitarristiche, dove Pike
sfoggia un insospettato gusto melodico (si veda “Cyclopian
Scape” ed “Ethereal”).
Sia nel
caso degli Om che in quello degli High on Fire non ci troviamo
innanzi a degli Sleep parte seconda, ma i risultati sono
comunque esaltanti. Gli Om possono sulle prime apparire noiosi, ma è
solo questione di tempo: il tempo per rendersi conto che per
apprezzare questa musica bisogna sdraiarsi sul divano e “liberare”
la mente. Gli High on Fire, dal canto loro, possono apparire
derivativi, in quanto incondizionatamente votati al sacro verbo
dell’heavy metal, diretto e senza tanti fronzoli. Eppure, ascolto
dopo ascolto, è impossibile rimanere insensibili al potere
trascinante di questo sublime simposio di chitarra/basso/batteria
come Dio Rock comanda.
E così,
in conclusione, dallo stato di alterazione psichica degli Sleep, dal
loro sonno dopato potremmo dire, da un lato gli Om
sembrano scivolare verso una dimensione spirituale infestata da
estatiche visioni, dall'altro gli High on Fire si risvegliano
bruscamente in un mondo di brutture e violenza che si spera non sia
la realtà, ma l'effetto collaterale di qualche sostanza
andata a male...