Eccoci a festeggiare il cinquantennale del 1972, altra annata formidabile per il rock. Avevamo fatto una cosa simile per il 1967, probabilmente l’anno del rock per eccellenza. Le opere seminali di Beatles, Pink Floyd, The Doors, Velvet Underground, Jimi Hendrix e molti altri avevano gettato in quell’anno semi importantissimi per gli sviluppi successivi del rock, che proprio grazie a quei lavori stava accedendo ad una fase di maggiore complessità, maturità e consapevolezza.
Solo cinque anni dopo lo scenario sarebbe stato totalmente diverso. Nel 1972 Jim Morrison era già morto e sepolto, Jimi Hendrix pure, i Beatles sciolti, il movimento flower power agli sgoccioli, Woodstock un confuso ricordo, le utopie dissolte mentre nuove forme di rock prendevano forma specchiandosi in un'altra epoca e consegnandoci un quadro sostanzialmente diverso. Per quanto riguarda noi amanti delle sonorità dure, l’hard rock si era istituzionalizzato con Cream, Led Zeppelin and Deep Purple. E, soprattutto, nel 1970 avevano esordito i Black Sabbath, alzando notevolmente gli standard di pesantezza sonora. Nella nostra selezione andremo a soffermarci proprio su quelle dieci opere che, nel 1972, andavano a consolidare quegli stilemi che porteranno, qualche anno dopo, all'affermarsi dell'heavy metal come lo intendiamo oggi.
Dovremo giocoforza trascurare nomi importantissimi del periodo. L’hard rock, infatti, era stato solo una delle tante evoluzioni del rock. In parallelo si era sviluppato il filone del rock progressivo, avviato ufficialmente con il debutto dei King Crimson nel 1969. Nel 1972 il fenomeno del rock progressivo aveva decisamente attecchito e in quell’anno davano il loro contributo nomi di rilievo come Genesis (“Foxtrot”), Yes (“Close to the Edge”) e Gentle Giant (“Octopus”). Anche i Jethro Tull, che non erano parte di quel filone, si fecero sedurre dal verbo progressivo allestendo la mastodontica suite “Thick as a Brick”. La voglia di sperimentare dilagava ovunque e dalla Germania si ebbero le applicazioni più ardite. Da un lato il cosiddetto kraut-rock: i Can con l’ottimo “Ege Bamyasi” davano un seguito credibile al capolavoro “Tago Mago”, i Faust confezionavano il superlativo “So Far” e i Neu!, nati da una costola dei Kraftwerk, esordivano con la loro seminale opera omonima. Dall’altro lato veniva forgiata la musica cosmica con l’esordio del guru Klaus Schulze (“Irrlight”) e i capolavori di Tangerine Dream (“Zeit”) e Popol Vuh (“Hosiannah Mantra”), quest’ultimi, in verità, già fuori dal paradigma elettronico ed avviati verso una ricerca spirituale che avrebbe caratterizzato il loro prosieguo artistico.
Il 1972 è stato anche un anno d’oro per rinomati nomi solisti: Lou Reed esordiva con “Transformer” tramutando in forma intima le ossessioni ereditate dalla sua vecchia band, i Velvet Undergound; Neil Young, da parte sua, firmava “Harvest”, uno dei suoi lavori più popolari, mentre il percorso cantautoriale del fragile e tormentato Nick Drake si completava precocemente con il bellissimo “Pink Moon”. Non si può tacere infine su un lavoro come "Exile on Main Street" con i quali i Rolling Stones, attivi da almeno dieci anni e con alle spalle i loro buoni quattordici
album, nel 1972 erano ancora in grado di dare alle stampe quello che per molti sarebbe rimasto il loro capolavoro assoluto. Ma come si diceva sopra il nostro interesse sarà prevalentemente rivolto a quegli artisti o a quelle band che hanno avuto una maggiore rilevanza per gli sviluppi di quell’hard-sound che avrebbe presto portato alla configurazione delle forme più consapevoli del metal. Vediamo insieme su chi è ricaduta la nostra scelta...
Blue Öyster Cult - "Blue Öyster Cult" (16/01/1972)
Si parte in quarta con i mitici Blue Öyster Cult, pilastri fondamentali del proto-metal (qualsiasi cosa vogliate intendere con questa etichetta). E non è un caso che i Nostri vennero salutati come la risposta americana al sound oscuro e pesante dei Black Sabbath. Nati dalla mente visionaria del produttore Sandy Pearlman, il combo americano si fece fin da subito portatore di una proposta "non conforme" all’interno dell'hard-rock, con un sound indubbiamente duro ma al tempo stesso aperto alle soluzioni più imprevedibili e con sullo sfondo un immaginario tanto surreale quanto inquietante sospeso fra fantascienza ed esoterismo - tutta farina del sacco di Pearlman, paroliere della band. A dare corpo alle sue visioni troviamo una formazione di musicisti straordinari, fra cui spiccano le due asce Donald “Buck Dharma” Roser (chitarrista sopraffino) ed Eric Bloom (anche alle lead vocals). Registrato sul finire del 1971, “Blue Öyster Cult” esce agli albori del 1972: a tratti è un po' acerbo, ma in esso già rilucono tutte le peculiarità del sound unico della band. Brani più tirati (l’irruente opener “Transmainacon”, "I'm on the Lamb but I Ain't No Sheep") si alternano a momenti più riflessivi (la bellissima ballata “Then Came the Last Days of May”) e composizioni più articolate con l’imprevedibilità nel sangue (l’accoppiata “Screams” / “She’s as Beautiful as a Foot" – titolo geniale!). Svetta la sabbathiana “Cities on Flames with Rock and Roll”, bel tempo medio e scolpita da un riff a dir poco iconico. E' vero, i Blue Öyster Cult daranno il meglio con i successivi “Tyranny and Mutation” (1973) e “Secret Treaties” (1974), ma i semi del loro genio son già presenti in questo imperdibile debutto.
Deep Purple - "Machine Head" (25/03/1972)
Nel 1972 i Deep Purple sono una istituzione dell’hard rock ed insieme ai Led Zeppelin ne rappresentano la forma più imitata ed influente. “Machine Head” è forse un pelino inferiore rispetto a capolavori come “Deep Purple in Rock” (1970) e “Fireball” (1971), ma conferma alla grande lo status di assoluti fuoriclasse dei musicisti inglesi. Basta citare titoli come “Highway Star” e “Smoke on the Water” per azzittire tutti e spiegare come i Nostri siano da considerare i migliori in circolazione. La prima nei suoi sei travolgenti minuti è un saggio di heavy metal ante-litteram, con l’ugola affilata di Ian Gillian ad elargire magie canore ed una porzione strumentale al cardiopalma dominata dal duello fra l’organo di Jon Lord e le sei indomite corde di Ritchie Blackmore. Quanto alla seconda, beh, non c’è bisogno di presentazioni, nessuno può ignorare l'iconico riff, passo obbligato per chiunque imbracci per la prima volta una chitarra elettrica. Non tutto vola a queste altezze, ma il livello rimane davvero alto con almeno un altro paio di classici da segnalare come la semi-strumentale “Lazy” e la violentissima “Space Truckin’” chiamata a chiudere le danze. A certificare lo stato di grazia della formazione (quella leggendaria, poi nominata Mark II) c’è l’uscita, nel dicembre dello stesso anno, del famigerato “Made in Japan”, da mettere fra i più leggendari live-album nella storia del rock.
Alice Cooper - "School's Out" (26/04/1972)
“School’s Out” non è l'album di solo rock’n’roll gigione e goliardico che potremmo aspettarci ascoltando la celeberrima title-track, il suo brano più noto, ma l’espressione del mondo pirotecnico di quel genio dell'Eccesso che risponde al nome di Vincent Damon Furnier, in arte Alice Cooper. In “School’s Out”, quinto album rilasciato dalla band (quando gli Alice Cooper erano ancora da considerare una band - la carriera solista del cantante avrebbe avuto inizio qualche anno dopo, nel 1975, con il capolavoro “Welcome to My Nightmare”) è il primo di una fortunata serie che consacrerà l’artista americano allo status di icona indiscussa del rock più ribelle ed irriverente. In esso troviamo già quella poliedricità e quel carattere teatrale che descrivono la visione artistica di questo artista unico: un "circo" in cui convivono pacificamente l'anima grezza degli Stones e l'istrionismo beatlesiano. C’era bisogno di una nuova denominazione per descrivere la folle messa in scena allestita da Alice Cooper: lo chiameranno "shock rock", genere di cui il Nostro è considerato il padrino. In nemmeno trentasette minuti troveremo frattaglie sonore di ogni sorta (il jazz balordo e notturno di “Blue Turk”, le continue ed imprevedibili mutazioni della bellissima e teatrale “My Stars”, il rock anthemico di “Public Animal #9”, le allucinazioni lennoniane di “Alma Mater”, l’esuberanza da colonna sonora dell'orchestrale “Grand Finale”): un caleidoscopio che trova come unico comun denominatore la voce al vetriolo del cantante, marchio inconfondibile di una Leggenda che giunge indenne fino ai nostri giorni.
Wishbone Ash - "Argus" (28/04/1972)
Si ritagliano un posticino di tutto rispetto nella nostra selezione i britannici Wishbone Ash, che certo non sono ricordati come i precursori più noti dell’heavy metal. Ma il loro originale mix fra hard-rock, folk e rock progressivo li rende un caso più unico che raro nel rock del periodo, mentre l'epicità di molti loro brani li avvicina ad un certo spirito metal che verrà. “Argus” è il loro terzo album e, a partire dalla suggestiva quanto insolita copertina, esso saprà stregarci per quasi tre quarti d’ora con un sound coinvolgente fra interludi acustici e travolgenti cavalcate elettriche. Ne è un perfetto esempio l’imponente opener “Time Was”, la quale si apre con i toni intimi della ballata folk per concludersi quasi dieci minuti dopo all’insegna di una ruvida elettricità e delizie chitarristiche assortite. Senza nulla togliere ad una sezione ritmica con i contro-fiocchi (formata dal drumming preciso e potente di Steve Upton e dal basso ruvido, spesso in evidenza, di Martin Turner), potremmo individuare nella coppia di asce Andy Powell / Ted Turner il vero punto di forza della band inglese: i Nostri saranno infatti fra i primi a sdoganare la "doppia" chitarra solista che conosceremo prima con i Thin Lizzy e in seguito, ancora meglio, con gli Iron Maiden. E poi tanta, tanta epicità, come si diceva sopra, con un immaginario fantasy che si sposa alla perfezione con la perizia strumentale sfoggiata dai quattro: si pensi alla sublime coda strumentale di “Something World”, con le chitarre soliste ancora in cattedra, o all’attacco fulminante di “The King Will Come”, dal riff tagliente e i micidiali stop & go, o anche all’ottima “Warrior”, armata di un ritornello che ti si stampa in testa al primo colpo e che non sfigurerebbe in un album dei Blind Guardian. Da scoprire e rivalutare.
Dust - "Hard Attack" (maggio 1972)
Nella nostra selezione trova spazio anche un chicca ahimè non conosciuta da molti ma che è da considerare più che seminale per gli sviluppo dell’heavy metal, in particolare della sua variante “epic”. Parliamo di “Hard Attack”, secondogenito in casa Dust, band statunitense che era stata fondata nel ‘69 e che lasciò ai posteri una grande eredità nonostante la breve esistenza e solo due album pubblicati. La bellissima copertina a tema “vichingo” a cura del mitico Frank Frazetta (noto per aver collaborato con Molly Hatchet e Nazareth, fra gli altri) è già eloquente nell’introdurre sonorità ed immaginario: un calderone ribollente di sferragliante hard-rock/proto-metal da cui pescheranno a piene mani Manowar, Cirith Ungol, Manilla Road e compagnia epica. Ascoltare la belligerante “Learning to Die” per credere. Certo, come era tipico del periodo, diverse erano le sonorità del decennio precendente che sopravvivevano, e non mancheranno rigurgiti blues, psichedelia e reminiscenze stonesiane, ma lo standard di violenza raggiunto è importante e lo dimostrano episodi come l’irruente opener “Pull Away/So Many Times” (attraversata da brividi acustici), la già citata “Learning to Die” (epic metal ante litteram), l'anthemica "All in All", la funambolica strumentale “Ivory” (incalzata da refrain chitarristici anticipatori dell'heavy metal che verrà - qui sono gli Iron a prendere appunti) e la conclusiva “Suicide”, mid-tempo ostinato con un assolo di basso distorto che avrebbe fornito più di un suggerimento a Joey DeMayo. I Dust attaccano duramente: a colpire sono i suoni grezzi, la velocità irosa della batteria, un basso a dir poco gradasso ed una voce dannatamente evocativa. Del resto il power trio non era composto da gente qualunque: Richie Wise (voce e chitarra) avrebbe prodotto i primi due album dei Kiss, Kenny Aaronson (basso) sarebbe divenuto un turnista di lusso (Bob Dylan, Blue Oyster Cult e Billy Idol fra le molte collaborazioni) mentre Marc Bell (batteria) sarebbe entrato nelle file dei Ramones con lo pseudonimo di Marky Ramone. Mica cazzi.
Uriah Heep - "Demons & Wizards" (19/05/1972)
Fra tutti i nomi qui elencati, tuttavia, gli Uriah Heep sono quelli che probabilmente si avvicinano di più ad una concezione moderna di metal: ce lo spiega bene un brano, poi divenuto IL classico della band, come “Easy Livin’” per credere (e King Diamond – grande ammiratore dell’ugola squillante di David Byron – ringrazia). Giunti al quarto album, Mick Box e soci fanno decisamente centro. Non che LP come “…Very ‘Eavy…Very ‘Umble” (1970) e “Salisbury” (1971) ci lascino indifferenti, anzi, sono anch’essi da annoverare senza se e senza ma fra i classici dell’hard-rock, ma con “Demons & Wizards” i Nostri giungono all’apice formale di un sound egregiamente sospeso fra riff energici, avvolgenti tastiere e vocalità tante epiche quanto sognanti. L'immaginario fantasy che sta dietro ai testi sembra essere ereditato dall’universo del rock progressivo e getta una distanza fra gli Heep e i "rivali" Led Zeppelin e Deep Purple, decisamente più terreni nei temi trattati. Ma questo, inevitabilmente, avvicina i Nostri al metal. Non saranno pochi gli artisti del nostro genere preferito a coverizzare brani del loro repertorio (si pensi alla bellissima cover che i Gamma Ray faranno di "Return to Fantasy" - power metal bello e buono fatto nel '75!). Quanto a "Demon & Wizards" (non è un caso che proprio così verrà chiamato il progetto avviato da Jon Schaffer degli Iced Earth ed Hansi Kursch dei Blind Guardian) non è solo l'album della celebre "Easy Livin'", ma anche di altre gemme inestimabili come la stessa title-track e le stupende semi-ballad “Traveller in Time” e “Rainbow Demon”, altra faccia della medaglia di un suono affascinante, tanto potente quanto intriso di melodia. Lo chiameranno heavy metal…
David Bowie - "The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars" (16/06/1972)
Fa strano trovare in questa selezione un artista tanto distante dal metal come David Bowie, ma un’opera come “The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars” è un qualcosa di enorme, troppo grande per essere omessa. Se poi nel retro del booklet si consiglia di ascoltare il disco al massimo volume, un motivo di interesse anche per i patiti del timpano rovente ci sarà. Qui il Bowie della sua prima fase artistica trova l'apice allestendo un concept apocalittico che mette insieme musical e rock, il glam di T. Rex e le nevrosi urbane dei Velvet Underground, in un tripudio di promiscuità sessuale, divismo esasperato, edonismo, lustrini e paillette. In questa sfarzosa messa in scena il suo personaggio/alter ego, l’alieno androgino Ziggy Stardust, sguazza alla grande fra romantiche ballate (l’intensa opener “Five Years”, la celebre “Starman”), hard-rock dalle chitarre affilate e falsetti seducenti (“Moonage Daydream”, la title-track) e rock’n’ roll scatenato ai limiti del punk (“Hang on to Yourself”, “Suffragette City”). Non secondario il ruolo del fido Mick Ronson (grande chitarrista, ma qui anche a piano e sintetizzatori) a dare man forte all’istrionico cantante inglese. Non c’è una sbavatura, un dettaglio fuori posto: tutto torna in questo capolavoro senza tempo che avrà grande influenza tanto sul glam metal degli anni ottanta quanto su certe frange della dark-wave e del gothic-metal. Da lacrime dalla prima all’ultima nota.
Emerson, Lake & Palmer - "Trilogy" (06/07/1972)
Abbiamo già menzionato in sede di introduzione l’affermarsi prepotente del movimento del rock progressivo a cavallo fra sessanta e settanta, citando Genesis, Yes e Gentle Giant. Ma ci tenevamo ad includere direttamente nella nostra top-ten “pre-metallica” gli Emerson, Lake & Palmer. L’impatto sonoro allestito dai tre virtuosissimi musicisti è qualcosa di clamoroso, soprattutto se si pensa che la chitarra non ricopre una centralità in questo suono: un suono che nasce dall'incontro/scontro fra il basso pulsante di Greg Lake, la batteria terremotante di Carl Palmer e le tastiere funamboliche di Keith Emerson. E poi vi è il carattere epic-fantasy delle loro superbe composizioni ad avvicinarli a certi umori cari al popolo metallico. “Trilogy” è la terza prova da studio, forse leggermente inferiore rispetto ai due (capo)lavori precedenti (l’omonimo debutto e “Tarkus”), ma certamente da inserire nel periodo d'oro della band inglese. In “Trilogy” convivono composizioni di altissimo livello e momenti più discutibili. Alla prima categoria appartengono le due suite, l'iniziale “The Endless Enigma” (pura magia kingcrimsoniana - tenendo conto che Lake aveva cantato nei primi due album del Re Cremisi) e l'epica title-track, che inizia in modo soft per scatenarsi nella seconda metà. Fra gli episodi riusciti menzionerei anche l’intrigante ballata acustica “From the Beginning” che cerca di bissare il successo di “Lucky Man” (dal primo album). Fra gli esperimenti evitabili, invece, includerei lo sproloquio western-saloon di “The Sheriff” e la strumentale “Hoedown” con i suoi umori da rodeo. Prendere o lasciare: gli ELP sono estremi in tutto, nel bene o nel male. E se molti non li sopportano per spocchia e narcisismo, a noi piacciono proprio per questo: per la loro tracotanza, per l’audacia e per la convinzione con cui affrontano ogni sfida, a prescindere dalla bontà dell’esito finale.
Black Sabbath - "Vol. 4" (25/09/1972)
Non potevano ovviamente mancare nella nostra selezione i Black Sabbath, i promotori indiscussi delle sonorità pesanti nel corso degli anni settanta. Nessuno era pesante come loro, nessuno era oscuro come loro, e il quarto album in studio (che fa seguito ad un trittico di capolavori che hanno letteralmente forgiato il linguaggio del metallo - "Black Sabbath", "Paranoid" e "Master of Reality") non delude le aspettative, mettendo in fila altre dieci tracce dense di elettricità ed idee innovative. Gli otto minuti della iniziale “Wheels of Confusion” sono da manuale, con un inizio blues che presto si trasforma in una baraonda sonora dettata dai geniali riff di chitarra di Tony Iommi e i fulminanti cambi di tempo di Bill Ward, violentissimo come sempre dietro alle pelli. Il muro di suono è considerevole (non di dimentichino le pastose quattro corde di Geezer Butler), mentre la scrittura sembra acquisire un ulteriore livello di complessità, grazie a musicisti oramai navigati. In tutto questo, la voce cantilenante di Ozzy è un marchio inconfondibile che dona un alone malsano alle oscure composizioni dei quattro. Tutti i brani si muovono ad altissimi livelli, ma vale la pena ricordare almeno la ballata pianistica “Changes”, autentiche mazzate sonore come “Supernaut” e “Snowblind” ed un finale tutto da godere con le litanie elettriche dell’accoppiata “St. Vitus Dance”/“Under the Sun”. Fra i momenti più alti della prodigiosa saga sabbathiana.
Hawkwind - "Doremi Fasol Latido" (24/11/1972)
Concludiamo in bellezza con un altro nome a dir poco mitico. Gli inglesi Hawkwind, inventori dello space-rock, sono riusciti a coniugare suoni duri e psichedelia come nessun altro ha saputo fare prima di loro. “Doremi Fasol Latido” è il terzo album e va considerato di diritto fra le migliori prove della band insieme al precedente “In Search of Space” (1971) ed ovviamente al celeberrimo live “Space Ritual” (1973). I Nostri, di fatto, davano il meglio sul palco, abbandonandosi alle evoluzioni imprevedibili di infinite jam di improvvisazione, ma anche su disco gli intenti della band sono chiari: stordire l’ascoltatore con suoni allucinogeni senza rinunciare ad una notevole forza d’urto (lezioso ed inutile ricordare che troviamo nell'organico, e più precisamente al basso, un giovanissimo Lemmy Kilmister, uno che di impatto sonoro se ne intende…). L’opener “Brainstorm” è eloquente al riguardo: ci troviamo al cospetto di una sorta di suite di undici minuti di proto-punk (un ossimoro, se ci si pensa…) con la chitarra sferragliante di Dave Brock a graffiare senza pietà e la batteria a colpire in modo insistente. Il resto è un viaggio in grado di scardinare le coordinate spazio-temporali dell'ascoltatore, fra sintetizzatori e dissonanze assortite, con sprazzi freak/folk a ricordarci che pur sempre di rock psichedelico stiamo parlando. Da menzionare la superba “Lord of Light”, traccia ad alto tasso di epicità e che a mio parere va ad anticipare certe cose dei Judas Priest. E come non citare l'annichilente maelstrom sonoro offerto dall’altra suite, “Time We Left This World Today”: un’orgia selvaggia di elettricità dove il sax e il flauto di Nik Turner affermano la loro assoluta importanza nel sound annichilente degli inglesi. Gli Hawkwind, in definitiva, si sono resi autori di un mix innovativo, unico ed in grado di influenzare sia il movimento punk che ovviamente il metal, all’interno del quale troviamo molti ammiratori del combo inglese.
E' impressionante festeggiare il mezzo di secolo di vita di questi album. Impressionante perché, cosi diversi e seminali, questi titoli rappresentano un fermento di creatività straordinaria, specchio di un periodo irripetibile per la musica rock. Non siamo degli irriducibili nostalgici, ma sarebbe davvero difficile raccogliere dieci titoli di eguale importanza nel 2022...
Playlist essenziale:
1) "Cities on Flames with Rock and Roll” (Blue Öyster Cult)
2) "Highway Star" (Deep Purple)
3) "School's Out" (Alice Cooper)
4) "Warrior" (Wishbone Ash)
5) "Learning to Die" (Dust)
6) "Easy Livin'" (Uriah Heep)
7) "Five Years" (David Bowie)
8) "The Endless Enigma" (Emerson, Lake & Palmer)
9) "Snowblind" (Black Sabbath)
10) “Lord of Light” (Hawkwind)