Ventitreesima puntata: Doom:VS - "Dead Words Speak" (2008)
Può il funeral doom essere cool? Si, e i Doom:VS ne sono la dimostrazione, con un bel tiro, melodia a profusione ed un sound tutto made in Sweden. Un sound ruvido, d’impatto, che va dritto all’obiettivo, quello del progetto parallelo di Johan Ericson, ascia dei ben più noti Draconian.
Si sarà capito che non ci troviamo al cospetto della forma più letale del funeral doom, ma la pesantezza è notevole, bastante a far gravitare questa perlaccia nera di doom estremo intorno all’orbita del genere oggetto della nostra rassegna.
Ericson è un polistrumentista di tutto rispetto, con i suoi Draconian ha avuto modo di cimentarsi un po’ con tutti gli strumenti, soprattutto nella fase embrionale della band. Se infatti i Draconian hanno debuttato ufficialmente con “Where Lovers Mourn” nel 2003, Ericson è stato seduto dietro alle pelli dal 94 al 99, si è cimentato alle tastiere nel 97, alla chitarra acustica nel 99, per poi ricoprire il ruolo di chitarrista a tempo pieno a partire dal 2002, dando all’occorrenza una mano dietro al microfono. Insomma, una sicurezza su tutti i reparti che rende il Nostro in grado di mettersi in proprio e sfondare sul versante funeral, sfogando istinti che evidentemente non era possibile esprimere in seno alla band madre.
La stessa scelta del monicker è indicativa delle intenzioni del musicista svedese, costituendo esso la storpiatura del vocabolo latino domus (Doomus dunque, come “casa del doom”, con la V che va a sostituire la U sole per civetteria e i due puntini a mettere in evidenza US, ossia “noi”, l’umanità - stando alla spiegazione offerta dal diretto interessato).
Un progetto parallelo, certo, ma che ha conquistato una certa continuità, tagliando il traguardo dei tre full-lenght nell'arco di più di tre lustri di attività: “Aeternum Vale” (2006), “Dead Words Speak” (2008) ed “Earthless” (2014). Oggi andiamo a parlare del secondo tomo, tramite il quale il Nostro si è potuto svincolare definitivamente dalle comprensibili affinità con il gothic metal dei Draconian che ancora funestavano il debutto.
Si diceva, dunque, funeral doom cool, funeral doom da aperitivo, eppure la copertina, a dire il vero, non prometteva nulla di buono, con quella truce figura femminile dalla testa di teschio che intima al silenzio con l’indice posato sulla bocca. Sfondo grigio a metà strada fra l’urbano e il metafisico, impressione che si rispecchierà sulla musica, che io continuo a sentire moderna, fresca e di grande appeal.
Ericson veste anche il ruolo di produttore ed evidentemente sa come pompare il suo suono, con chitarre sfrangiate dal tiro quasi post-hardcore (a tratti verranno in mente i conterranei Cult of Luna) ed un growl visibilmente amplificato in studio. Appena il tempo di una brevissima introduzione atmosferica e “Half Light” si avventa sull’ascoltatore senza troppi complimenti, con riff energici venati di sordide tastiere. Del tutto sorprendete il ritornello in voce pulita, una bella voce pulita che si staglia epica sul muro di distorsioni, a metà strada fra un salmodiare (e ci sta, considerato il contesto) e il lamento giovanilistico (che richiama lo spleen generazionale delle band metalcore – ma attenzione, potrebbe essere, questa, solo una impressione dettata dalla visione distorta che dopo mesi e mesi di ascolto massivo di funeral doom mi fa vedere slanci vitali che forse non esistono...).
La formula viene replicata anche nei brani successivi, in particolare i primi quattro, assai scorrevoli, basati sull’alternanza di growl e voci pulite e dalla lunghezza clemente, fra sette ed otto minuti. Le maggiori variazioni avvengono nelle incursioni melodiche della chitarra solista, si pensi per esempio all’attacco à la Katatonia della title-track (la quale si fregerà, nel finale, anche di un bell'assolo). La melodia è di casa ed aiuta a stemperare i toni di un viaggio che non si farà mai veramente gravoso per l'ascoltatore.
Il passo cambia leggermente con gli ultimi due brani, più cupi ed introspettivi. L’intro di pianoforte e di voce pulita di “Leaden Winged Burden” suggerisce le movenze di una ballad (...), ma è solo questione di poco, visto che nel suo sviluppo il brano non saprà rinunciare alla voce grossa e riff muscolosi. Lo stesso potremmo dire della lunga traccia finale (dodici minuti) “Threnode”, anch’essa dalla partenza dimessa e dal prevedibile sviluppo doomish, con una chitarra arpeggiata che va e viene come elemento di distinzione.
Si, forse il problema del platter è di risultare troppo prevedibile, miscelando sempre le stesse soluzioni. Soluzioni che all’inizio colpiscono nel segno, ammaliano, ma che con il trascorrere del tempo mostrano, nella loro ripetizione, i limiti di questo suono, che picchia duro ma non troppo. Insomma, un po’ più estremi di una normale gothic metal band, ma non così devastanti come si usa essere in ambito funeral, i Doom:VS offrono una interessante variazione sul tema ed un vitale punto di appiglio per tutti coloro che proprio non sanno digerire lentezze nauseabonde, growl sull'orlo della putrefazione ed atmosfere asfissianti.