"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

25 dic 2019

THE BEATLES: GUIDA PRATICA PER METALLARI


Erroneamente associati alla "canzonetta pop degli anni sessanta" i Beatles non sono mai stati guardati con grande interesse da parte del pubblico metal. Anche volendo ricercare i nomi di coloro che nello scorcio finale degli anni sessanta hanno posto le premesse per la nascita dell'heavy metal come genere a sé stante, di certo Paul McCartney, John Lennon, George Harrison e Ringo Starr non figurano fra essi.

Eppure, scevro da pregiudizi e con la dovuta onestà intellettuale, anche il metallaro può avvicinarsi alla musica dei Fab Four, potendo trovare fra i solchi della loro discografia degli spunti di indubbio interesse. Vediamo cosa Metal Mirror ha scovato per voi.

Per capire i Beatles c’è anzitutto da superare un paio di dicotomie che finiscono per distorcere la visione di quella che è la loro reale sostanza artistica: la prima è la storica rivalità con i Rolling Stones, che ha messo le due band l'una contro l'altra come portatrici di due opposte ed inconciliabili visioni del mondo. Il conformismo borghese da un lato, la trasgressione dall’altro, con il conseguente obbligo culturale di doversi per forza schierare dall'una o dall'altra parte. In realtà anche i Beatles hanno cantato di droga, amore malato, sesso e disagio, con picchi di pesantezza sonora anche superiori a quanto combinato dalle Pietre Rotolanti, come dimostrano l’incredibile “Helter Skelter”, mazzata proto-metal a firma Paul McCartney, o l'inquieta “I Want You (She’s so Heavy)”, delirio visionario di marca lennoniana.

Il secondo errore consiste nel sovrapporre il "fenomeno Beatles" alla loro musica, continuandoli a vedere come una "macchina per soldi" costruita a tavolino, divenuta leggenda per volere dei “poteri forti” dell’industria musicale. L’impietosa ricostruzione operata dal critico Piero Scaruffi li descrive come dei musicisti mediocri, in costante ritardo nel percorso evolutivo del rock, con la colpa di aver addolcito, reso abbordabili dalle masse tutte quelle intuizioni che con creatività e coraggio erano state introdotte dai veri pionieri del rock. In altre parole, l'accusa è di aver addomesticato il rock e la sua carica potenzialmente eversiva. La rabbia autentica dei neri d’America, l'impegno di Bob Dylan, l’impeto di ribellione giovanilistica di band coeve come Who e Rolling Stones; e poi il chitarrismo incendiario di Jimi Hendrix, le follie avanguardiste di Frank Zappa, i viaggi psichedelici dei Pink Floyd, il muro di rumore dei Velvet Underground, le visioni apocalittiche dei Doors, le suite infinite dei  gruppi progressive: mentre il rock osava e si evolveva, i Nostri, idolatrati da folle di ragazzette urlanti (la cosiddetta beatlemania), parevano relegati ad un universo reazionario ove si semplificava e si concentrava la materia rock nella classica canzonetta di tre minuti, sotto l’accorta regia dello storico produttore George Martin, considerato da alcuni come la vera mente creativa dei Beatles.

A sentire tuttavia chi quella stagione l’ha vissuta veramente, non sembrerebbe essere andata proprio così: Syd Barrett dei Pink Floyd, durante le registrazioni di “The Piper at the Gates of Dawn”, non si dava pace per il fatto che la sua musica non sarebbe stata mai all’altezza di quella dei Beatles (fu visto piangere mentre, passando per un corridoio degli Abbey Road Studios, udì Lennon e soci provare durante l’incisione di “Sgt. Pepper’s Lonely Heart Club Band”); Greg Lake, prima in forza nei King Crimson e poi negli Emerson, Lake & Palmer (uno che indubbiamente di prog se ne intende), avrebbe sostenuto in una intervista più recente che i veri inventori del progressive rock furono proprio i Beatles, tirando in ballo ancora “Sgt. Pepper’s Lonely Heart Club Band”, considerato come un momento cardine per la storia del rock.

Certo i Beatles non erano dei virtuosi, ma la loro musica era pregna di melodie memorabili e soluzioni di vario stampo che mettevano in luce la voglia di sperimentare della band senza dover ricorrere necessariamente a partiture complesse o a lunghe composizioni. Ringo Starr non è ovviamente il batterista più tecnico o potente di questo mondo, ma si rese responsabile di intuizioni per niente banali e, sopratutto, seppe mettersi al servizio dei brani (e non viceversa), cosa non da poco. George Harrison, chitarrista sotto la media, sapeva impreziosire gli album dei Beatles con il suo sopraffino talento melodico (e certo i brani da lui vergati sono fra i più belli da ricordare nel vasto canzoniere dei Nostri). E poi vi è la premiata ditta Paul McCartney/John Lennon, che certo non ha bisogno di presentazioni: l’uno capace di delineare arie bellissime, l’altro proiettato alla sperimentazione (le sue composizioni rimarranno negli anni di una modernità incredibile), sono stati indubbiamente l’asse su cui si è costruito il Beatles sound: un sound che, anche grazie all'enorme esposizione mediatica, ha avuto modo di influenzare il rock più di ogni altra band.

Non è però tutto oro quel che luccica, e di vil metallo ve n’è anche meno...

Poche, pochissime, infatti, sono le tracce di Beatles che possiamo rinvenire entro il recinto del torbido Reame del Metallo: qualche armonia vocale, arpeggi di harrisoniana memoria, spunti più che altro rielaborati all'interno dell'empireo del prog-metal, che si riconferma il filone più aperto a sonorità altre rispetto al metal.

Il numero risicato di cover di brani dei Beatles realizzate da artisti metal è la prova della scarsa considerazione che il genere ha da sempre riservato ai quattro di Liverpool. Fra queste poche cover, di buone ve ne sono anche meno: ci vengono in mente il rifacimento glam-metal di "Helter Skalter" da parte dei Motley Crue, la rivisitazione technical-thrash di "I Want You (She's so Heavy)" dei Coroner e il medley messo in piedi dai Type O Negative (la band metal beatlesiana per eccellenza) che include "Day Tripper", "If I Needed Someone" ed ancora "I Want You (She's so Heavy)", trasformata in un incubo doom.

Rovistando meglio nel sottobosco musicale, possiamo inoltre imbatterci in chicche di qualità come la sparatissima “Eleanor Rigby” dei Realm (da ascoltare assolutamente!), la thrasheggiante (quasi sodomiana) “Help!” degli Alligator e la “Tomorrow Never Knows” in salsa stoner servita dai Trouble. Gli altri, ahimè, si sono limitati ad un mero esercizio di estremizzazione (si veda la "Helter Skelter" rifatta dai Caliban o dalla strana coppia Marylin Manson/Rob Zombie), o a riletture senza brio come quelle effettuate da Running Wild (“Revolution”), Helloween (“All My Loving”) e Ghost (“Here Comes the Sun”). Da menzionare, infine, il bislacco progetto-parodia Beatallica, sorto agli inizi degli anni duemila, responsabile di titoli come “Blackened in the USSR”, “The Thing that Should not Let it Be”, “All You Need is Blood”, “Fuel on the Hill”, “Ktulu (He’s so Heavy)”, “Sgt. Hetfield’s Motorbreath Pub Band”. Ed è tutto dire...

Nonostante il metal si sia indubbiamente sviluppato lontano dal mondo dei Beatles, certo non significa che anche un metallaro di buona volontà non possa addentrarvisi e trarne benefici: proprio a tal scopo nasce questa veloce panoramica di Metal Mirror. Tranquillizziamo anzitutto il neofita, il quale per cogliere la grandezza dei Beatles non avrà bisogno di ascoltarsi l’intera discografia. Senza troppi sensi di colpa,  ci permettiamo di trascurare i primi quattro album “Please Please Me” (1963), “With the Beatles” (1963), “A Hard Day’s Night” (1964), “Beatles for Sale”: ci troviamo infatti ancora nella preistoria dell’hard-rock, troppo lontani (temporalmente, culturalmente e stilisticamente parlando) dal Reame del Metallo.

Anche “Help!” (1965), in verità, andrebbe concettualmente incluso nel precedente lotto, ma non possiamo tacere di una “Yesterday”, intensa quanto semplice, la quale rende palese anche ai sordi lo straordinario gusto melodico dei Nostri (già peraltro dimostrato negli album precedenti con altre straordinarie ballate come “And I Love her”). Ma ad attirare la nostra attenzione è semmai quella “Ticket to Ride” che, con il suo memorabile refrain di chitarra, il ritornello epicheggiante, un paio di cambi di tempo azzeccati, è vista da qualcuno già come l'affermarsi di una forma embrionale di heavy metal.

Di poco successivo fu il singolo “Day Tripper” (edito insieme alla più nota “We Can Work It Out”), altro brano “duro” di Beatles ed anch’esso fra i più coverizzati dalle band metal. Ma il vero cambio di passo nella carriera sarà sancito dai due full-lenght successivi, “Rubber Soul” (1965) e “Revolver” (1966), in cui i Nostri si allontaneranno con consapevolezza dalle frivolezze del beat per approdare a sonorità più mature.

Rubber Soul” segna l’inizio di un approccio diverso, sia nella stesura dell’album (adesso elevato allo status di opera e non inteso più come un contenitore di singoli brani) che nell’utilizzo dello studio di registrazione (dove il ruolo del produttore George Martin non fu certamente secondario). Gli arrangiamenti si fanno più ricercati, dando ulteriore risalto alle capacità compositive dei Nostri. Fra i vari esperimenti in studio troviamo suoni più sporchi e graffianti, in particolare nelle linee di chitarra e di basso. Se “Drive My Car” prosegue sulla scia delle opener d'impatto, la successiva “Norwegian Wood (The Bird has Flown)” è una ballata visionaria che vede l’impiego per la prima volta del sitar indiano e che apre per i Nostri la stagione psichedelica: esse non sono altro che due facce di un’accresciuta complessità riscontrata sia sul lato lirico che su quello strettamente compositivo.

Con “Revolver”, dell’anno successivo, si sarebbe fatto ancora meglio: è la freschezza compositiva a colpire, la capacità di coniugare brillanti intuizioni con i gusti del grande pubblico, aspetto che non deve essere visto necessariamente come un male. Lo dimostrano due gioielli come la malinconica “Eleanor Rigby”, per voce ed archi (un saggio sulla solitudine che io vedrei in bocca ai Katatonia), e “Tomorrow Never Knows” un "tuffo nel futuro" (verrà poi rielaborata dai Chemical Brothers in veste elettronica) fra beat incalzanti, voce alienata e tracce melodiche registrate a velocità diverse con inevitabili effetti psichedelici.

Nell'anno 1967 vede la luce “Sgt. Pepper’s Lonely Heart Club Band” e niente sarà più come prima. Da molti questo album viene additato come la risposta al mitico “Pet Sounds” dei Beach Boys,  rilasciato l'anno precedente (a dimostrazione che i Nostri non operavano nel nulla cosmico), ma a guardar bene i due lavori, pur presentando delle forti analogie, suonano molto diversi. Non a caso il tomo degli inglesi, rispetto a quello degli americani, eserciterà una più profonda influenza nel mondo musicale dell’epoca, tanto che si dice che questa opera abbia in un sol colpo aperto le porte della psichedelia da un lato e del progressive rock dall'altro. Ulteriori colori si aggiungono alle fantasiose composizioni dei quattro, e sebbene il metallaro potrebbe ancora storcere il naso innanzi a certe sonorità ivi contenute, è innegabile la genialità riversata nella composizione e nella realizzazione di brani come “Lucy in the Sky with Diamond” e “A Day in the Life” . La prima è una traccia visionaria in tipico stile Lennon, dove gli scenari, lirici e musicali, si susseguono come in un sogno (o, più precisamente, come in un viaggio sotto gli effetti dell’LSD); la seconda è probabilmente il capolavoro dei Beatles, dove il songwriting eccelso della band si integra alla perfezione con gli inserti rumoristi dell’orchestra: molti dei meriti vanno agli accorgimenti presi in studio, oramai innalzato a luogo di creazione artistica.

Sorvoleremo su “The Magical Mystery Tour”, pubblicato sempre nel 1967: un episodio minore chiamato a fungere da colonna sonora per l'omonimo film. Da un punto di vista musicale, esso sembrerebbe costituire un’appendice dell’album precedente, penalizzato dal fatto che i brani, ottimi se presi singolarmente, non godono di sufficiente coesione fra di loro. Per quanto ci riguarda, vorremmo almeno citare la strabiliante ballata psichedelica “Strawberry Fields Forever”, arte lennoniana allo stato puro.

Di ben altro spessore si rivelerà “The Beatles” (1968), anche noto come White Album. Si tratta di un doppio album in cui è facile passare dal sublime al penoso (la sequenza “Ob-La-Di, Ob-La-Da”, “Wild Honey Pie”, “The Continuing Story of Bungalow Bill” è francamente agghiacciante, almeno alle orecchie di un metallaro), ma forse è proprio questo il bello dell'Album Bianco: opera "mostruosa" che sa accogliere in modo scriteriato e senza filtri materiale di vario genere (è noto come George Martin avesse preferito condensare il tutto in un solo tomo). In questo laboratorio, nel bene o nel male, rilucono le personalità dei quattro componenti, che di fatto all’epoca si comportavano da “separati in casa”. Paul McCartney esprime, oltre al suo consueto talento melodico, anche il suo lato più aggressivo come accade nel rock’n’roll scanzonato di “Back in the USSR” (grandissima opener!). Menzione a parte merita la devastante “Helter Skelter”, di cui si è già detto: mai in precedenza si erano sentiti dei Beatles così violenti, con spesse linee di basso, urla sgraziate, batteria pesantissima e un giro di chitarra che nel ritornello ricorda quasi i Judas Priest. John Lennon, da parte sua, dà sfogo al suo estro artistico con ottime ballate (“Dear Prudence”, “Sexie Sadie” - pare di sentire i Radiohead di oggi), spregiudicate rock-song dall’incedere imprevedibile (“Happyness is a Warm Gun”, “Revolution 1”) e persino un raggelante collage sonoro che osa anticipare certe atmosfere dell’industrial-music (“Revolution 9”, ben otto minuti, in collaborazione con la compagna Yoko Ono, genio avanguardista che in molti ignorano). Se il contributo compositivo di Ringo Starr è qui quasi irrilevante, George Harrison sferra le sue consuete zampate vincenti, fra cui non possiamo non citare la bellissima “While My Guitar Gently Weeps”, con niente meno che la chitarra dell’amico Eric Clapton, altra chicca per gli amanti dell’hard rock e del metal.

Il famigerato White Album è secondo il nostro parere il miglior parto dei Beatles, e certo rimane il consiglio più accorato per i nostri lettori. Da segnalare inoltre l’uscita, di poco successiva, nel singolo “Hey Jude”, caratterizzato da un crescendo corale che potrebbe a qualcuno evocare l’epicità di certe power-ballad di nostra conoscenza, mentre ci permetteremo di trascurare “Yellow Submarine”, altra colonna sonora che non contiene episodi di interesse per orecchie metalliche (giusto per completezza potremmo citare la rockeggiante Hey Bulldog”).

Altro discorso, invece, va fatto per “Abbey Road” (1969) che pur continuando ad evidenziare le profonde spaccature interne al gruppo, ci fornisce una manciata di brani memorabili, fra cui svetta la già citata “I Want You (She’s so Heavy)” dall’alto dei suoi quasi otto minuti: blues sgraziato e dissonante caratterizzato da un arpeggio dall'incidere paranoico (che evidentemente ha attirato l’attenzione di molti artisti metal) e da una coda  cacofonica che si interrompe di colpo (idea che in molti riprenderanno, fra cui i Dream Theater di “Pull Me Under”). Altri episodi che non dispiaceranno al metallaro sono l’openerCome Together” o la doppietta firmata da George Harrison, “Something” e “Here Comes the Sun”. Noi di Metal Mirror, in particolare, vorremmo segnalare il medley di micro-brani (poi ribattezzato “The Long One”) presente nel secondo lato dell'album, dove la terna “Mean Mr Mustard”/“Polythene Pam”/"She Came in Through the Bathroom Window”, sparate uno dopo l’altro senza interruzioni, potrebbe ricordare al metallaro il modus operandi adoperato in “Reign in Blood” (ovviamente con le dovute differenze...).

Con “Let It Be”, anno 1970, non è più lecito oramai parlare di Beatles come di una band: il canto del cigno di coloro che furono i Fab Four può essere considerato alla stregua di una scialba raccolta postuma, fra "cocci" e brani leggendari come la title-track. La nostra preferenza è accordata a “I Me Mine”, lenta "bipolare" sconquassata da repentine esplosioni rock, e alla sognante “Across the Universe”, capolavoro lennoniano con il quale vogliamo concludere una playlist di soli dieci pezzi che vi suggeriamo per addentrarvi nel sorprendente mondo dei Beatles: 

Playlist per metallari: 
1) “Ticket to Ride” (“Help”, 1965) 
2) “Eleanor Rigby” (“Revolver”, 1966) 
3) “Tomorrow Never Knows” (“Revolver”, 1966) 
4) “A Day in the Life” (“Sgt. Pepper’s Lonely Heart Club Band”, 1967) 
5) “Strawberry Fields Forever” (“Magical Mistery Tour”, 1967) 
6) “Happyness is a Warm Gun” (“The Beatles”, 1968) 
7) “Helter Skelter” (“The Beatles”, 1968) 
8) “Come Together” ("Abbey Road", 1969) 
9) “I Want You (She’s so Heavy)” (“Abbey Road”, 1969) 
10) “Across the Universe” (“Let It Be”, 1970)