Bene, adesso che ci siamo tolti il dente dedicando un intero articolo al rock progressivo italiano, possiamo con maggiore serenità rivolgerci al "rock italiano in senso più ampio", proposito, ahimè, dagli orizzonti comunque vaghi e confusi.
0) Skiantos – “Mono tono” (1978)
Dietro ad un rock demenziale (che avrebbe comunque fatto scuola), gli emiliani nascondevano una sfrontata anima punk che ancora si andava a mescolare con reminiscenze stonesiane e rigurgiti beat. I testi deliranti e maleducati, in apparenza idioti e naive, del mitico Freak Antoni non erano privi di un certo acume sociologico, dischiudendo uno spessore artistico ben maggiore rispetto a quanto ci si potesse aspettare da un ascolto superficiale. Gli Skiantos indubbiamente sono stati un’entità rock controcorrente che non solo prendeva le distanze da tutta la seriosità che aveva caratterizzato la produzione artistico-musicale nostrana fino a quel momento, ma che rappresentava un momento di rottura, facendosi portatrice di una controcultura destinata ad avviare nuove dinamiche nella musica popolare italiana a venire.
1) Vasco Rossi – “Non siamo mica gli americani!” (1980)
Vasco Rossi, a torto o a ragione, è da considerare il rocker italiano per eccellenza. Amatelo, schifatelo, ignoratelo, ma è fuori dubbio che nel corso del tempo sia divenuto una reale icona del rock del nostro paese, chissà se la sua forza sia stata proprio partire dal presupposto che non siamo mica gli americani (un titolo emblematico!) e, con una scrollata di spalle, fregarsene e gettare le basi per un modo di fare rock più consono al nostro paese. I primi album segnarono un reale spartiacque nella storia della musica popolare italiana, introducendovi questo strambo cantautore dallo spirito punk e così umano. La sua voce, sgraziata ma ammiccante e confidenziale, si rifaceva adesso al monologo à la Iannacci, adesso all’imprescindibile Battisti, ma nella sua musica emergevano reminiscenze di Who e Rolling Stones, con alle spalle una tradizione rock che andava dal blues più scarno ai barocchismi chitarristici dei Queen. I testi, semplici ma incisivi, offrivano una penetrante visione sociologica che aveva come sfondo la degradata provincia emiliana (in particolare) e l’Italia degli anni ottanta (in generale). Una manciata di album riusciti ad inizio carriera (“Non siamo mica gli americani” è solamente quello in cui la sua poetica entro in campo, ma non sono da meno i successivi “Colpa di Alfredo”, “Siamo solo noi”, “Vado al massimo” e “Bollicine”), musicisti con le palle (basti pensare alle sei corde di Maurizio Soleri), hit che sarebbero entrate di diritto nell’immaginario collettivo ed energiche performance dal vivo (presto benedette da folle oceaniche di fanatici ammiratori) lo renderanno un punto di riferimento imprescindibile nella storia del rock italiano.
2) Franco Battiato: “La voce del padrone” (1981)
Dopo quasi un decennio di esperimenti ed avanguardia, Franco Battiato era approdato alla dimensione pop (nell'accezione nobile del termine) con "L'era del cinghiale bianco" (1979), percorso che sarebbe proseguito con il successivo "Patriots" (1980) e con il best seller "La voce del padrone", clamoroso successo commerciale ed apice di questa specifica fase artistica del maestro catanese. Si scrive musica pop ma si legge new wave, elettronica e punk a sprazzi con gli arrangiamenti barocchi di Giusto Pio e testi colti, ironici, sferzanti, densi di citazioni ed accostamenti azzardati, quasi ai limiti del nonsense, che emancipano questi sette brani dallo status di semplici "canzonette". L'album, che mise straordinariamente d'accordo pubblico e critica, oltre a settare nuovi standard entro i ranghi del cantautorato, avrebbe anche inaspettatamente influenzato in maniera radicale il rock nazionale a venire ed in particolare le sue propaggini alternative (CCCP e Bluvertigo giusto per fare due esempi). Ma di certo il cammino del grande Battiato non si è fermato qui (e chi volesse sapere di più si vada a leggere la nostra rassegna).
3) Diaframma – “Siberia” (1984)
Echi di Joy Division e darkwave britannica caratterizzano un suono personale e maturo che non teme confronti con la concorrenza estera. Questo è stato il debutto dei fiorentini Diaframma, album-simbolo della migliore new wave italiana. In esso un ispirato romanticismo modella brani-capolavoro che si muovono con grande eleganza fra suoni gelidi ed arrangiamenti curati. L'album diveniva lo specchio di un'epoca, incarnando lo spleen decadente di molte anime sensibili che, fino ad allora, non avevano probabilmente trovato "casa" nella musica italiana. A sorreggere il tutto: l'ispirazione del chitarrista Federico Fiumani, padre-padrone della band, autore di riff leggendari ed anche raffinato paroliere. "Siberia" rimarrà anche il lascito migliore di una carriera che, fra alti e bassi, arriverà ai nostri giorni, portata fieramente avanti in "beata solitudine" e con spirito indipendente ed underground da un intransigente Fiumani, interessato più alla difesa della purezza della sua poetica che al riscontro commerciale o alla gloria fine a se stessa.
4) Litfiba – “Desaparecido” (1985)
Insieme ai già citati Diaframma ed ai Neon (da segnalare "Rituals", anch'esso del 1985), i Litfiba compongono la sacra triade della new wave fiorentina (Firenze nei primi anni ottanta è stata una fucina formidabile di band, fra cui è giusto citare anche Pankow e Moda). Con il debutto "Desaparecido" (prima parte della famigerata "Trilogia del potere" con gli altrettanto eccellenti "17 Re" e "Litfiba 3") i fiorentini danno alle stampe un album destinato a dare una grande scossa al panorama del rock italiano dell'epoca. I riferimenti sono evidenti (U2, Bauhaus, Ultravox ecc.), ma ancora più evidente è la capacità del quintetto di modellare un sound estremamente personale che sa riscaldare i cuori con sfumature mediterranee e suggestioni esotiche. Molto del merito va al canto evocativo e ai testi poetici di Piero Pelù, frontman dal carisma indiscutibile. Non sono da meno i suoi compagni, fra cui si individuano due vere autorità del rock italiano: il fantasioso chitarrista Ghigo Renzulli (qui ancora dimesso al servizio del collettivo, ma destinato ad avere un ruolo crescente in seno alla band) e il geniale bassista (poi in CCCP, C.S.I. e PGR) Gianni Maroccolo. La compattezza della formazione, unita alle qualità individuali, si rispecchia in brani incalzanti, avvincenti ed avvolti da un flavour epico che avrà una forte presa sul grande pubblico, tanto che i Litfiba, grazie ad una sequela fulminante di lavori riusciti, entreranno di diritto nella storia del rock italiano, con uno strapotere indiscusso fra la seconda metà degli anni ottanta e i primi anni novanta.
5) CCCP - Fedeli alla linea – “1964/1985 Affinità-Divergenze fra il compagno Togliatti e noi – Del conseguimento della maggiore età” (1986)
CCCP - Fedeli alla linea nascono a Berlino dall'incontro di Giovanni Lindo Ferretti e Massimo Zamboni per poi sviluppare il proprio suono nella provincia emiliana: da qui nasce il paradosso del "punk filosovietico" dei CCCP, probabilmente il nome più emblematico del rock indipendente italiano di sempre. Si parla di un geniale melting pop che rilegge il background culturale e la tradizione folcloristica emiliana (ideologie di sinistra e ballo liscio inclusi) attraverso i filtri del punk e del post punk (evidenti i richiami ai Public Image Limited di John Lyndon) ed alle avanguardie rumoriste tedesche (vedi Einsturzende Neubauten): danze paranoiche che prendono forma grazie ad iconici riff di chitarra, un basso muscolare ed una secca drum-machine. Svettano su tutto i proclami e gli slogan di Ferretti, profeta visionario, non-cantante, lucido osservatore della realtà e portavoce di una generazione di giovani allo sbando, senza identità ed obiettivi, persi fra tedio, nevrosi, droghe, antidepressivi, vuoto materialismo ed una esistenza votata al consumismo: siamo agli antipodi dell'edonismo degli anni ottanta. L'LP di esordio "Affinità e divergenze" (succeduto ad un paio di EP) riscrive le regole del punk europeo e verrà seguito da tre validi lavori, prima che, con coerenza ideologica, l'esperienza terminerà per confluire nella nuova fase denominata C.S.I.. Le ripercussioni sull'intero panorama del rock italiano saranno incalcolabili.
6) Luciano Ligabue – “Ligabue” (1990)
Se si parla di rock italiano è difficile non menzionare (almeno di sfuggita) Luciano Ligabue, genuino rocker di provincia che ha saputo ergersi ad idolo della masse, pur stuccando assai presto i palati più fini. Ci perdonino i fan del Liga, pertanto, se ci fermiamo al suo folgorante esordio, quando il Nostro ci risultava fresco e brillante e la sua caratteristica voce rauca non ci avrebbe ancora stancato. "Ligabue" è stato l'album giusto al momento giusto, segnando il passaggio dagli anni ottanta ai novanta con la riscoperta di un rock/blues sicuramente passatista ma verace ed energico, merito anche dei musicisti che hanno accompagnato il leader alla ribalta, i Clan Destino. La sfida, tutto sommato vinta, è stata quella di aver saputo "italianizzare" tutta una tradizione rock anglofona che parte da Elvis e Bob Dylan per arrivare a Bruce Springsteen. Va riconosciuta al ragassuolo la capacità di inventare ritornelli anthemici e contagiosi, fatti apposta per rendere in sede live (in cui il Nostro dà indubbiamente il meglio). Funzionano anche i testi semplici e diretti che dalla solita provincia emiliana si proponevano di ergersi ad inni generazionali. Una formula che avrebbe trovato la consacrazione qualche anno dopo con il best seller "Buon compleanno Elvis" (1995) e che, grazie al mestiere, ma con una ispirazione altalenante, sarebbe stata trascinata con fatica fino ai giorni nostri. Potrà anche non piacere a tutti l'idea, ma è indubbio che Ligabue, dopo Vasco, possa essere di diritto considerato il rocker più celebrato dal pubblico di massa italiano.
7) Elio e le Storie Tese – “İtalyan, rum casusu çikti” (1992)
Concediamoci una parentesi ludica e tributiamo una realtà unica nel panorama del rock italiano. Gli Elio e le Storie Tese sono ben più di una band dedita al rock demenziale: capacità tecniche eccelse ed una vasta cultura musicale permettono ai milanesi di parodiare i generi più disparati, miscelarli e ricomporli in un esercizio che potremmo definire metatestuale. Musica leggera, canzonetta degli anni sessanta, reminiscenze settantiane, pop ottantiano, disco-music, musica etnica, cabaret, persino rock progressivo: tutto finisce nel tritacarne degli "Elii", capaci con estrema fluidità di accostare mondi incompatibili e ricomporre il tutto in qualcosa di nuovo ed estremamente originale. I testi geniali di Elio (all'anagrafe Stefano Belisari) sono però il reale punto di forza della band, indubbiamente divertenti, ma anche dotati di una sagacia fuori dal comune ed una capacità di raccontare con acuta ed intelligente ironia l'Italia e le sue contraddizioni. Attivi fin dagli inizi degli anni ottanta, avrebbero debuttato sulla lunga distanza con "Elio samaga hukapan kariyana turu" (1989), ma con questo secondo tomo la loro proposta raggiunge una ulteriore complessità, offrendo sia hit di facile presa (destinati a divenire classici longevi) che le suite più ambiziose del loro repertorio. Il loro cammino sarà caratterizzato da una qualità costante ed un successo crescente e trasversale.
8) Timoria – “Viaggio senza vento” (1993)
"Viaggio senza vento" è un concept sulla fuga, dove il giovane Joe, adolescente smarrito che non si riconosce nel tessuto sociale del suo paese di origine, decide di mollare gli ormeggi ed intraprendere un viaggio alla ricerca di sè. A dare voce a questo concept troviamo una band bresciana che, giunta al quarto album, trova l'occasione per spiccare il volo e riscuotere il meritato successo. I punti di forza sono la voce espressiva di Francesco Renga e le doti compositive e il talento melodico del chitarrista Omar Pedrini, talvolta anche dietro al microfono. Il medium è un rock vario e radicato negli stilemi classici, che non teme di approssimarsi a sonorità dure e persino al metal (con riff energici e dolenti ballate), ma che sa concedersi le giuste variazioni, complice il ruolo non secondario delle tastiere. Ma a colpire, più di ogni altra cosa, è l'affondo esistenziale, la capacità di parlare ai giovani dell'epoca, persi in un momento storico privo di punti di riferimento. Musicalmente parlando, un periodo storico in cui il grunge aveva riportato il rock in classifica, sdoganando definitivamente le sonorità rock alternative e segnando il declino di quelle tradizionali, una terra di nessuno dove i Timoria si posizionavano con doti da grandi equilibristi.
9) Marlene Kuntz – “Katartica” (1994)
"Katartica" è un album fondamentale per il rock alternativo italiano, un lampo abbagliante nei cieli degli anni novanta. Siamo in piena fase grunge, in un periodo in cui l'industria discografica favoriva la produzione di sonorità ruvide ed elettrificate. L'esordio dei Marlene Kuntz usciva sotto l'egida dei C.P.I. (Consorzio Produttori Indipendenti), l'etichetta nata dalla fusione di quelle di Giovanni Lindo Ferretti e Massimo Zamboni da un lato e quella di Gianni Maroccolo dall'altro ("casa" di importanti realtà del rock alternativo nostrano dell'epoca come Santo Niente, Üstmamò e Disciplinatha). Con "Katartica" entravano in Italia Sonic Youth e Pixies, ma il noise-rock sguaiato della formazione di Cuneo portava in dote una bella dose di melodia e i bei testi di Cristiano Godano, che fu abile nell'incastrare la lingua italiana in un contesto da sempre appannaggio dell'inglese. Fra staffilate punk-hardcore, crescendo strumentali dal grande impatto e fragilità/rabbia degna dell'era grunge, la scaletta si rivela essere una serie di inni generazionali che hanno fatto la storia del rock italiano e che sicuramente hanno spinto molti giovani a scendere in cantina, imbracciare una chitarra elettrica e fondare una band.
10) Massimo Volume – “Lungo i bordi” (1995)
Passo alla prima persona personale per trattare uno degli album italiani a cui sono maggiormente affezionato ed intimamente legato. Ma senza temere di scivolare nella soggettività, posso serenamente sostenere che "Lungo i bordi", secondo album dei bolognesi, rappresenta uno dei momenti più alti del rock italiano di sempre. I Massimo Volume nella loro prima parte della carriera (si sarebbero sciolti nel 1998, dopo solo quattro album, per poi riformarsi nel 2010) hanno espresso un post-rock d'autore che prendeva spunto dalle strutture sbilenche degli Slint come dai soundscape degli Einsturzende Neubauten e del kraut-rock, il tutto interpretato con grande personalità e perizia. Se il motore pulsante della musica dei Massimo Volume sono le sei corde di Egle Sammocal (tra intensi arpeggi, giochi di volume, tessiture elaborate e detonazioni elettriche), le declamazioni di Emidio Clementi, poeta prestato alla musica, danno voce alle istantanee che la band tratteggia con approccio "visivo", cinematografico. Le parole di Clementi, il suo recitar cantando, descrive sensazioni intime, frustrazioni, speranze di una generazione di giovani senza bussola attraverso una galleria di storie che svelano la profondità del quotidiano.
11) Santo Niente – “La vita è facile” (1995)
Umberto Palazzo aveva suonato la chitarra nel primo album dei Massimo Volume, ma per divergenze artistiche decise di lasciare e dall'adottiva Bologna se ne tornava nelle sue Marche, finendo per fondare i Santo Niente, entità imprescindibile per comprendere il rock alternativo in Italia. "La vita è facile", dal titolo chiaramente ironico, è il primo album della band, un concentrato di bile e rabbia alimentate anche dal fatto che Palazzo si era da poco lasciato dalla ragazza. Musicalmente parlando siamo ai limiti dell'hardcore, si lambiscono sonorità care a Shellac e Fugazi, il tutto filtrato da una sensibilità grunge (evidentissima l'impronta dei Nirvana) che era il medium ideale, all'epoca, per esprimere le proprie nevrosi di giovinastro insoddisfatto. Non manca una certa dose di ironia, cosa che fa di Palazzo un autore non banale, in continua sospensione fra poesia e truce sarcasmo, fra suggestivi spoken words (memore dello stile dei Massimo Volume) e canto sgraziato à la Cobain. A scapito del peso specifico del progetto, i Santo Niente non avrebbero avuto gran fortuna, sciogliendosi dopo un paio di lavori per poi riemergere anni dopo, nel nuovo millennio, a rinnovare le gesta di una realtà tanto importante quanto ingiustamente ignorata dal pubblico.
12) C.S.I. – “Linea Gotica” (1996)
Il 9 ottobre 1990 si chiudeva l'esperienza CCCP - Fedeli alla linea. Gli ultimi CCCP, quelli del canto del cigno "Epica Etica Etnica Pathos", erano già un gruppo diverso rispetto a quello delle origini, con una formazione allargata che comprendeva trasfughi dai Litfiba (fra cui il mitico Gianni Maroccolo) e il chitarrista/produttore Giorgio Canali (altra figura chiave per il rock alternativo italiano). In quell'album il range sonoro si ampliava, si era fatto meno punk e più articolato e ricco di contaminazioni stilistiche. E proprio dai quei presupposti muovevano i C.S.I. (Consorzio Suonatori Indipendenti) che, forti del medesimo nucleo di musicisti, avrebbero scritto altre gloriose pagine della storia del rock alternativo italiano. "Linea Gotica", secondo album del progetto, vede ancora al suo centro il cavernoso recitato di Ferretti, profeta inascoltato in un mondo che andava malamente a pezzi (la guerra in Jugoslavia riportava la guerra nel cuore dell'Europa e faceva da sfondo alla scrittura di brani e liriche). L'atmosfera si fa conseguentemente più cupa e drammatica, l'impianto sonoro si assesta intorno ad una sorta di dark-folk minato da perenne instabilià. Pressochè privi della componente ritmica, i brani sono sorretti dal basso muscolare di Maroccolo, screziati talvolta da un dolente violino e scossi dalle deglagrazioni eletriche delle chitarre di Canali e Zamboni. "Tabula Rasa Elettrificata", dell'anno successivo, sarebbe stato un altro colpaccio e il gradimento del pubblico non sarebbe mancato, ma ciò non sarebbe bastato ad impedire la conclusione del progetto, che, nel 2002, sarebbe confluito nei PGR, senza Zamboni.
13) Bluvertigo – “Metallo non metallo” (1997)
Come pochi altri i Bluvertigo hanno saputo intrecciare sacro e profano, musica alta e melodie orecchiabili, ricerca e appeal commerciale. Si parte da Battiato, fra le influenze più evidenti, ma la formula messa a punto dal combo lombardo fa coesistere con intelligenza David Bowie e Depeche Mode, Kraftwerk e Prince, Massive Attack e Red Hot Chili Peppers (nei momenti più funk-rock), senza disdegnare passaggi più hard. Più che altro, "Metallo non metallo" (secondo lavoro della band e seconda parte della trilogia "Chimica") è il capolavoro del Morgan compositore, musicista, paroliere ed arrangiatore. In settanta minuti e quindici brani si sviluppa il Morgan-pensiero, cesellatore di accattivanti visioni sonore electro-sintetiche ed autore di testi pregni di riferimenti colti, provocazioni, ironia, ma anche di vibrante emotività. Con il successivo "Zero" (1999) la breve epopea discografica dei Bluvertigo, iniziata solo quattro anni prima con "Acidi e basi" (1994), si dissolverà per lasciare definitivamente spazio al Morgan solista, che, in una carriera altalenante, saprà ancora regalare un gioiello di nobile cantautorato ("Canzoni dell'appartamento", anno 2003).
14) Scisma – “Rosemary Plexiglas” (1997)
Gli Scisma sono stati una meteora nel cielo del rock alternativo italiano, figli indubbiamente di un buon momento collettivo, ma questo non significa certo che i Nostri non abbiano dei meriti come entità autonoma. In questo brillante esordio, "Rosemary plexiglas", c'è la mano del produttore Manuel Agnelli degli Afterhours, una vera autorità quanto a rock alternativo in Italia; c'è la scrittura ispirata di Paolo Benvegnù, che continuerà a brillare come stella solitaria grazie ad una validissima carriera solista; ci sono le influenze derivate dal mondo shoegaze (My Bloody Valentine, Slow Dive) quando ancora in Italia questo genere non si era ancora affermato. Il risultato è una carrellata di istantanee di fulgida bellezza, fra vibrante elettricità e suggestioni eteree, con sprazzi jazz e chitarre potenti a scuotere talvolta l'impianto di un'opera votata primariamente all'espressione di un'intimità fragile ed affranta e dove, fra testi in italiano ed inglese, spicca il contrasto fra la voce umbratile dello stesso Benvegnù e quella bellissima di Sara Mazo. Seguiranno il buon "Armstrong" e poi lo scioglimento.
15) Afterhours – “Hai paura del buio?” (1997)
Afterhours, "Hai paura del Buio?": altro nome ed altro titolo fondamentali per comprendere gli sviluppi del rock alternativo degli anni novanta. Questi diciannove brani compongono un'opera-monstre variegata e ricca di sonorità constrastanti, tanto che il leader Manuel Agnelli l'avrebbe definita il "Mellon Collie" italiano. E proprio come gli Smashing Pumpkins più ispirati, i milanesi costruiscono un mosaico ricco di colori, ammaestrando un infuocato post- grunge fatto di miele e rabbia, bellissime ballate e schegge punk-hardcore: uno scontro che viene arricchito ulteriormente da esperimenti e fughe psichedeliche. Agnelli dipinge con le sue parole al vetriolo un impietoso ritratto generazionale con testi espliciti e diretti ed un eloquio ai limiti del nonsense grazie alla tecnica del cut-off di burroughsiana memoria. Mai come in questo caso il rock estero entra in Italia e diventa italiano, con apprezzamenti di ritorno dall'estero stesso (si guardi alla amicizia/collaborazione con Greg Dulli degli Afghan Whigs/The Twilight Singers e la versione in inglese dell'altro capolavoro "Ballate per piccole iene", 2005).
16) Subsonica – “Microchip emozionale” (1999)
Chiudiamo il decennio dei novanta con un altro nome di punta del panorama italico rock: i Subsonica. I torinesi avevano già fatto il botto con l'omonimo debutto, ma con "Microchip emozionale" sanno andare oltre, consacrandosi definitivamente come realtà di primario livello: i Nostri cavalcano, anzi domano il successo pubblicando un lavoro che continua a strizzare l'occhio al mercato ma che certo non difetta quanto a ricerca sonora e complessità. La formula, che vedeva la contaminazione di rock e musica dance, viene qui ulteriormente perfezionata, raggiungendo altezze che la band, nella sua lunga storia di successi, non saprà più bissare. L'integrazione fra impianto rock e pattern elettronici si fa ancora più fluida, con brani incalzanti, oseremmo dire ballabili, che ben supportano la voce pulita e squillante di Samuel, sempre alla ricerca di ritornelli memorabili e di facile presa sulle folle. Non mancheranno i passaggi più quieti, dub, liquidi, notturni, completando una visione artistica che, pur non rinunciando all'orecchiabilità, intendeva catturare le anzie, le paure e gli eccessi di fine millennio.
17) Verdena – “Il suicidio del samurai” (2004)
I Verdena, con Marlene Kuntz e Afterhours, rappresentano la sacra trinità del rock alternativo italiano. Emerso qualche anno dopo i due colleghi, il trio bergamasco si impose subito all'attenzione pubblica con l'infuocato rock adolescenziale dell'omonimo debutto (prodotto da Giorgio Canali) e dallo psichedelico e dilatato "Solo un grande sasso" (prodotto ancora da Manuel Agnelli), fornendo una credibile versione italiana delle nevrosi giovanilistiche ben espresse nell'era grunge. I Nostri, tuttavia, avrebbero fatto centro con il terzo "Il suicidio del samurai" (autoprodotto), capolavoro insuperato della loro discografia. Chitarra in primo piano, una solidissima sezione ritmica, l'elettricità sempre al centro di tutto, con le invettive di Alberto Ferrari a spezzare un wall of sound a tratti imponente, che sfiora lidi stoner e talvolta indugia in divagazioni rumoristiche. Nonostante la ricchezza della pietanza, i Nostri riescono a contenersi in brani dalla durata non eccessiva, raggiungendo un equilibrio compositivo che non si ripeterà nei lavori successivi, sempre pregevoli ma indubbiamente tendenti alla logorrea.
18) Il teatro degli Orrori – “Dell’impero delle ombre” (2007)
I Teatro degli Orrori si affacciarono sul mercato discografico dando l'idea di essere un progetto parallelo con membri dagli One Dimensional Man (seminale act noise rock) e dai Super Elastic Bubble Plastic (garage rock riletto ai tempi del post-rock), per poi divenire quasi immediatamente una delle realtà di primo piano nel rock indipendente italiano del nuovo millennio. Forse l'apice sarebbe stato toccato con il maturo "A sangue freddo" (2009), ma noi continuiamo a preferire la sfavillante opera prima, un lampo al ciel sereno. Con ancora qualche ingenuità nel suo ventre, "Dell'impero delle ombre" è marchiato da una urgenza comunicativa e da una irruenza che lo rende ai nostri occhi più emozionante del suo manierato, serioso ed un poco ruffiano successore. Del resto i Nostri non entrarono in studio da novellini e l'esperienza si sente tutta in questo poderoso monolito di post-hardcore suonato da dio (i musicisti danno del tu ai propri strumenti e si muovono con grande coesione - chitarre fantasiose ed una impeccabile quanto possente sezione ritmica). Ma a fare la differenza è lo sfavillante recitato di un grandissimo Pier Paolo Capovilla, a metà strada fra cantautorato impegnato e teatro brechtiano: i suoi testi, declamati con toni folli ma lucida consapevolezza e missione etica, si incidono su un sound già di per sè incandescente, consegnandoci una delle realtà più valide che il rock nostrano ci abbia dato negli ultimi venti anni.
19) Le Luci della Centrale Elettrica – “Canzoni da spiaggia deturpata” (2008)
Vasco Brondi è un altro che negli affollati e nevrotici anni zero ha saputo bucare lo schermo. La sua musica è descrivibile come un mix fra Rino Gaetano e CCCP, essa parte da un impianto cantautoriale fatto di voce roca e chitarra acustica per arricchirsi dei ghirigori elettrici della chitarra di Giorgio Canali, anche produttore. Le Luci della Centrale Elettrica (in verità il solo Brondi) entrano a gamba tesa nel mercato discografico dell'epoca con un debutto che, probabilmente, rimarrà il lascito migliore di un'esperienza assai breve, ma significativa (il progetto si sarebbe sciolto nel 2019 dopo quattro album animati da ispirazione intermittente). Le ingenuità si sprecano in un lavoro che mette al centro di tutto i testi-fiume di Brondi, a cui tuttavia va riconosciuto il merito di aver saputo rinfrescare ed aggiornare alle nevrosi del nuovo millennio certo "cantautorato da combattimento" di metà anni settanta: un incalzare di parole, i suoi testi, che spesso sforano nel nonsense all'inseguimento della frase ad effetto, e c'è da dire che ne inanella di frasi ad effetto il Nostro, svelando capacità da paroliere sopra la media. Fanno il resto le vibranti sei corde di Canali, chiamate a dare forma e sostanza alle scarne ballate del giovane protetto.
20) IOSONOUNCANE – “IRA” (2021)
Concludiamo il nostro viaggio nel rock italiano (o, potremmo dire, nel "rock all'italiana") in modo simbolico con un lavoro destrutturante che si pone come antitesi del rock convenzionale e possibile inizio di un nuovo corso. "IRA" è stato definito il "Kid A"/"Amnesiac" del rock italiano, forse non avrà il potenziale di rottura dei capolavori dei Radiohead di inizio millennio, ma è senz'altro un'operazione che ha le carte in regola per scuotere l'ambiente. Gli umori son quelli isolazionisti che ha portato in dote la pandemia, la voce è un'eco che preserva poco di umano, che parla diverse lingue, trasfigurata dagli effetti; la musica si fa saggio sull'alienazione, fra suoni processati, beat elettronici, arie mediterranee, squarci di inaspettati intimismo e passaggi che odorano di progressive rock. Jacopo Incani, la mente dietro il progetto, non è certo un rocker, è semmai un cantautore indipendente, suona tastiere e sintetizzatori, si presenta sul palco in una formazione a tre con sole macchine, ma registra "IRA" con un ensamble di sette elementi e realizza l'album più autenticamente progressivo in Italia degli ultimi venti anni. Forse il futuro del rock non passa da qui, ma di sicuro qui si celebra un passaggio importante per la musica italiana.
Ulteriori suggestioni... fra rock (poco), cantautorato e musica leggera:
1) Angelo Branduardi – “Alla fiera dell’est”; (1976) 2) Eugenio Finardi – “Sugo” – 1976; 3) Edoardo Bennato – “Burattino senza fili” (1977); 4) Ivan Graziani – “Pigro” (1978); 5) Ivano Fossati – “La mia banda suona il rock” (1979); 6) Fabrizio de André (con la PFM) – “In concerto” (1979); 7) Pino Daniele – “Nero a metà” (1980); 8) Gianna Nannini – “Latin lover” (1982); 9) Loredana Bertè - "Traslocando" (1982); 10) Zucchero Fornaciari – “Blue’s” (1987)
Anni '70/'80, fra new wave e glam rock
1) Chrisma – “Chinese Restaurant” (1977); 2) Faust’O – “Suicido” (1978); 3) Decibel – “Vivo da re” (1980); 4) Gaznevada – “Sick soundtrack” (1980); 5) Giuni Russo – “Energie” (1981); 6) Alberto Camerini – “Rockmantico” (1982); 7) Garbo – “Scortati” (1982); 8) Donatella Rettore – “Kamikaze rock’n’roll suicide” (1982); 9) Neon – “Rituals” (1985); 10) Moda: “Bandiera” (1986)
Anni ’90, ulteriori suggestioni e contaminazioni:
1) Gang – “Le radici e le ali” (1991); 2) Disciplinatha – “Un mondo nuovo” (1994); 3) Ritmo Tribale – “Mantra” (1994); 4) Starfuckers - "Sinistri" (1994); 5) Casino Royale – “Sempre più vicini” (1995); 6) Almamegretta – “Sanacore” (1995); 7) Üstmamò – “Üst” (1996); 8) Elisa – "Pipes & Flowers" (1997); 9) 24 Grana – “Metaversus” (1999); 10) Negrita – “Reset” (1999)
The new millennium:
1) Tre Allegri Ragazzi Morti – “La testa indipendente" (2001); 2) Perturbazione – “In circolo” (2002); 3) Giardini di Mirò – “Punk...not diet!” (2003); 4) Paolo Benvegnù – "Piccoli fragilissimi film" (2004); 5) Baustelle – “La malavita” (2005); 6) Offlaga Disco Pax – “Socialismo tascabile (Prove tecniche di trasmissione)” (2005); 7) Giorgio Canali & Rosso Fuoco – “Mia signora della dinamite” (2009); 8) Fine Before You Came – “Sfortuna” (2009); 9) Bachi da Pietra – “Quarzo” (2010); 10) Fast Animals and Slow Kids – “Alaska” (2014).