"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

24 dic 2022

AVEVO UN SOGNO...


...o forse no. Come tanti avrei voluto impugnare uno strumento e diventare un musicista affermato. Non necessariamente una star, ma almeno uno di quelli che campano della propria professione. Non mi ha mai attirato il successo in sé, non ho mai ricercato certezze negli altri. Nella mia passione per la musica sono sempre stato romantico, un puro, mi sarebbe bastato suonare in un gruppo, cosa che fra l'altro ho anche fatto per un certo periodo, ma evidentemente non ci ho creduto abbastanza. 

Per un po' ho suonato il basso, avrò avuto sedici o diciassette anni. Non ho mai avuto un debole per questo strumento che spesso non udivo, lo scelsi solo perché nel gruppo di quelli di classe mia al liceo mancava il bassista. Non nacque alcuna passione per le quattro corde, a dirla tutta non ci ero nemmeno portato, avendo io il senso del ritmo di un bradipo. Aspetto positivo: almeno non mi si sentiva. 

Grandi idee, grande cultura musicale, grande apertura mentale, ero indubbiamente il più ferrato in metal della combriccola, ma con Burzum nella testa mi ritrovai a suonare del banale thrash in stile Pantera/Sepultura, come andava nel periodo (era la metà degli anni novanta). A parte il sottoscritto, gli altri erano anche bravi, ma il raccolto fu magro: la registrazione di una demo ed un pugno di concerti. E nemmeno la soddisfazione a posteriori di essere stati diversi o avanti rispetto agli altri che si sono affermati: eravamo come mille altre band di quegli anni, i perfetti figli del nostro tempo, amara constatazione per un appassionato di musica snob come me. 

La band dopo circa due anni di attività si sciolse per incomprensioni "artistiche" e personali. Nella fase terminale passai alle tastiere perché volevo fare del metal gotico (pensate voi come ci stessi bene io nel groove metal con sfumature alternative) con esiti non dissimili da quelli che avevo avuto come bassista. Archiviata definitivamente l'esperienza di gruppo, rimasi a strimpellare il basso in camera mia fin quando il mio amplificatore di seconda mano decise di piantarmi in asso estenuato dalle mie lunghe ed inconcludenti note arpeggiate (a me piace raccontare che inventai il drone metal prima dei Sunn O))). 

Quel che rimane non è un rimpianto né un rimorso, ma un sogno in cui mai credetti (la mia rinuncia fu forse diretta emanazione della tacita perplessità dei miei genitori e, non so perché, dello sdegno stranamente ostinato di mio nonno nei confronti di una mia eventuale carriera nella musica). Da qui sarei passato dal piano del Reale a quello della Fantasia, relegando le mie ambizioni di musicista alla sfera dell'immaginazione: una lunga escursione mentale che arriva ai giorni nostri e di cui è inutile parlare, che è impossibile da condividere, che è noiosa da comunicare (ma per dirla breve ho inventato un gruppo immaginario - un'avvincente epopea che con gli anni si è arricchita di dettagli, maniacalmente appuntati in quaderni e poi in file dove sono riportati nomi e descrizioni di album, brani, concerti, collaborazioni ecc. - peccato solo che tutto ciò sia frutto della mia immaginazione...). 

Esteriormente ho portato avanti la mia vita, studiando prima e lavorando poi come i comuni mortali. Mi è andata anche bene tutto sommato, ma passati i quaranta, anzi, diciamo i quaranta e qualcosa, ho iniziato ad invidiare i giovani, cosa tanto poco sensata quanto anagraficamente giustificabile. 

Non trovando nel mondo del metal esempi edificanti, mi sono invaghito di un giovane gruppo post-punk irlandese, il quale fin dall'inizio mi è stato simpatico: i Fountaines D.C. Son ragazzi che non hanno ancora varcato i trenta, e dopo solo cinque anni di attività e tre album sono elogiati dalla critica, tanto da essere considerati la "big thing" del rock alternativo contemporaneo, ed apprezzati dal pubblico (non solo giovanile), riempendo palazzetti di media grandezza. La loro ascesa è stata fulminante: partirono con brillante verve punk, si fecero melodici ed approdarono infine ad un rock dalle ambizioni radiofoniche, ma sempre con grande ispirazione, tanto che è difficile capire dove abbiano dato il meglio. Ma quello che me li fa piacere, probabilmente, è la gioventù, l'idea che siano solo all'inizio e che abbiano ancora tutto davanti (me lo auguro per loro). 

Sono belli come solo possono essere belli i giovani. Mi piacciono in particolare i chitarristi, uno spesso accigliato che mi ricorda (probabilmente a torto) Johnny Depp, l'altro più freakettone con le camice psichedeliche, i baffi e quel non so che di anni settanta. Tutti e cinque mi piacciono, il timido bassista dai capelli biondi, il batterista con barba che tiene il ritmo con onestà, il cantante dal faccino pulito ma con la lingua al vetriolo. Mi piace di loro quell'essere ragazzi ancora poco strutturati e nel bel mezzo di un sogno che è appena diventato realtà. 

Non come i Maneskin, la cui ascesa è pianificata e del tutto artificiale, indotta dal bombardamento mediatico. Con i Fountaines D.C. si parla pur sempre di musicisti che hanno un loro stile riconoscibile e che esprimono una scrittura personale e in prevalenza fresca. Certo, oggi si sente la mano dell'industria discografica che indica, suggerisce, smussa ed a tratti impone, ma secondo me siamo ancora ad un livello accettabile, un livello in cui il potenziale artistico della band (che c'è!) viene semplicemente traghettato verso lidi più spendibili. Lo si capisce dal look (sempre più studiato e meno casuale), dai video (più ruffiani) ed ovviamente dal suono che si fa più morbido, ripulito. Succede, è sempre successo, accadde con i Beatles, con i Nirvana ed innumerevoli altri giovani musicisti che di colpo sono divenuti la gallina dalle uova d'oro per il manager di turno. Ma per i Fountaines D.C. l'effetto d'insieme non dispiace, l'evoluzione è plausibile, perché se ieri c'erano Stooges, Clash, Joy Division, oggi ci sono Smiths e The Cure. E a noi sta più che bene. 

Sono anche andato a vederli dal vivo lo scorso novembre, perché oramai mi sono affezionato a questi cinque ragazzi di cui vedevo i video durante la pandemia. Era stato il piccolo tour di Regno Unito ed Irlanda, che veniva dopo quello americano (che veniva dopo quello europeo). Qualche partita in casa da giocare prima di partire per l'Australia: un'agenda fitta per dei ragazzi che fino a qualche anno prima suonavano nei pub di Dublino. 

Alla vigilia non sapevo chi ritrovarmi sul palco, se dei ragazzi ancora pieni di energia ed entusiasmo oppure dei misurati professionisti. Purtroppo si è verificato il secondo scenario. Non mi lamento, lo spettacolo è stato godibile ed allestito con diligenza, ed era comprensibile una certa stanchezza, considerato il centinaio di date suonate nei quattro mesi precedenti. Del resto questi ragazzi riempiono i locali, e se è vero che il big money oggi si fa con i concerti e non vendendo dischi, allora si capisce che la band debba essere sfruttata il più possibile in questo senso. Certo però mi chiedo quanto poco tempo ci metta il music business a togliere la gioia di suonare ad un musicista. Fatta eccezione per il vocalist, che anche per ruolo ha il compito di intrattenere il pubblico ed esibire un certo dinamismo sulle assi, gli altri membri sembravano dei cartonati posti sul palco: non un sorriso, non uno sguardo di intesa, non un gesto che sia sembrato genuino. E parliamo di gente giovane che dovrebbe essere al top della forma, non di mestieranti di settant'anni

È il sogno di molti poter campare di musica, ma se campare di musica diventa trasformare la propria passione in un lavoro, a tratti faticoso, in altri noioso, non so più se questo si possa definire ancora un sogno. In fondo la mia piccola vita da "persona ordinaria" ha un pregio: ho ancora un ottimo rapporto con quello che Hemingway chiamava il miglior amico, ossia il cervello. La regola nella vita del musicista (perlomeno di quello con un po' di successo) invece è alcool, droga, frustrazione, depressione. Dico regola perché se ci pensiamo bene sono le dinamiche stesse di quella professione che ti portano a quegli esiti. Se sei musicista a tempo pieno passi da fasi in cui non fai un cazzo a giornate e dove stappare una bottiglia di vino alle 11 del mattino può divenire una abitudine, a periodi in cui sei in tour, dormi in bus, ti trovi sballottato da una città all'altra senza possibilità di riposo. Prima sviluppi una "dipendenza" per noia, poi per necessità. Senza contare gli alti e bassi, le delusioni, la facilità con cui si può andare dalle stelle alle stalle e viceversa. Ed una estrema difficoltà nell'avere una stabilità sentimentale che molte volte è la base per una vita equilibrata, in quanto continuo confronto, compromesso, crescita. 

A volte mi sono calato nel personaggio del musicista: non nella superstar, ma nell'artista di nicchia, di culto. Ammesso che uno sia pienamente soddisfatto della propria musica e dei rapporti con i colleghi, con l'etichetta e con tutti gli addetti ai lavori (tutte cose da non dare per scontato) e concesso di essere in grado di non sprofondare nelle spire della droga o dell'alcolismo, pensiamo ad un tour breve, di un paio di mesi, una sera sì e una sera no (un impegno fisicamente gestibile): anche a queste condizioni favorevoli mantenere uno stile di vita sano sarebbe veramente difficile. Faccio un esempio: concediamoci almeno due (dico due) bevute a serata, che sono il minimo sindacale una volta che esci di casa, anche solo per farti due chiacchiere. Due o tre birre a sera non ti rendono un alcolizzato, ma vuoi mettere che pancia ti ritrovi alla fine del tour? Aggiungiamo il junk food, lo stress e si capisce come, anche con tutta la buona volontà, questo tipo di vita influenzi negativamente la salute. Parlo da quarantaquattrenne, ma figuriamoci gli effetti su un ventenne che giustamente vuole viversi il successo senza freni. 

Magari con il tempo tutto diverrebbe uno strenuo esercizio di auto-disciplina, fra esercizio fisico e moderazione nei vizi (alla faccia del sesso, della droga e del rock and roll), ma quel tipo di vita non farebbe per me: il vizio si trasformerebbe presto in routine per uno come me, a cui bere non dispiace e che si dimostra essere incline alla malinconia. Scusate la tristezza di queste mie parole, ma allora mi tengo stretto il mio lavoro da sette ore e mezza al giorno che mi tiene lontano dall'alcool, la mia ragazza che mi educa alla civiltà ogni giorno, mio figlio che richiede la mia presenza, senza sconti, nemmeno quei sabati pomeriggio in cui, dopo una nottata di grandi eccessi, uno vorrebbe morire su un divano sotto una copertina ruttando gin tonic.  

Avevo un sogno e non l'ho realizzato, o non l'ho semplicemente avuto. In ogni caso è stato meglio così...