I
MIGLIORI DIECI ALBUM DEL BLACK METAL NORVEGESE
6°
CLASSIFICATO: “NEMESIS DIVINA”
Ci
approssimiamo con i Satyricon al fatidico giro di boa. Siore
e siori: “Nemesis Divina”, l’album che chiude
ufficialmente l’epoca d’oro del black metal norvegese.
La
Norvegia ci ha consegnato vicende, artisti ed opere di cui parliamo
ancora oggi. Quella della “Gloriosa Norvegia del Black-Metal”
ci può sembrare, per densità ed importanza di contenuti, un’epopea
lunghissima, tortuosa, infinita, quando in verità si è consumata
nell’arco di pochissimi anni.
Tecnicamente
parlando, l’anno zero del black-metal norvegese è stato il 1992,
l’anno di uscita di “A Blaze in the Northern Sky” dei
Darkthrone, la prima release ufficiale su cui possiamo
apporre l’etichetta di Norwegian Black Metal. Sebbene il
seminale “De Mysteriis dom Sathanas” dei Mayhem contenesse
brani scritti anni prima (“Funeral Fog”, Freezing Moon” erano
già compiutamente “black metal” e già presenti in “Live in
Leipzig”, registrato nel 1990!), verrà inciso nel 1993 e
pubblicato l’anno successivo. L’esplosione del fenomeno, poi,
avverrà compiutamente nel biennio ‘94-‘95, entro il quale non
solo usciranno i principali capisaldi del genere, ma anche una serie
di pubblicazioni che già si sarebbero poste al di là degli standard
appena codificati. Nel 1996, infine, questa spinta creativa si
sarebbe già affievolita, destinata ad esaurirsi poco dopo: a sancire
simbolicamente la fine di un’era, usciva proprio in quell’anno il
terzo lavoro dei già affermati Satyricon. “Nemesis Divina” non
porterà con sé novità rilevanti, ma è l’opera che avrà il
merito di sistematizzare in modo compiuto quanto ci era stato
raccontato dalla Norvegia negli anni appena precedenti.
Dopo
sarebbe stata la fine, o forse l’inizio di qualcos’altro, e
“Nemesis Divina” ne rimane lo spartiacque. Lo scorcio finale del
decennio, infatti, vedrà diverse band scomparire, altre tornare
indietro o evolvere così tanto da uscire direttamente fuori dal
genere. Non sarà un caso che proprio i Satyricon saranno fra i più
convinti fautori di una ricerca tesa a rianimare un movimento oramai
arenato in un binario morto: il sottovalutato “Rebel
Extravaganza” (del 1999), con le sue contaminazioni noise ed
industrial, avrebbe gettato nel calderone temi interessanti. Peccato
che poi la band avrebbe disperso le proprie energie in album sempre
meno convincenti, appiattiti su una forma retrò di
black’n’roll (strizzando persino l’occhio al mainstrem!), anche
peggio di quanto combinato da Darkthrone e Carpathian Forest.
In
“Nemesis Divina”, invece, nel bagliore accecante di un fuoco che
stava bruciando al massimo dell’intensità (la famigerata ultima
fiammata prima dell’estinzione), i Satyricon davano alle stampe
l’album perfetto, in cui il black metal si esprimeva
esattamente così come doveva essere, in una veste però curatissima,
in cui venivano valorizzati arrangiamenti complessi ed ogni singolo
strumento, basso compreso. Certo, lo spirito del black-metal negli
anni precedenti aveva remato in senso contrario, guardando a
produzioni approssimative e lo-fi,, e in questa ottica “Nemesis
Divina” può esser visto non esattamente “true”: ciò
non toglie che i Satyricon, forti di una professionalità e di un
intento “costruttivo” che erano rari fra i loro colleghi,
consegnarono al Mondo Metal un album intellegibile da tutti,
anche da coloro che non erano proprio fan sfegatati del genere.
Paradossalmente, proprio sulla strada del tramonto, ma senza pagare
il dazio di una deriva commerciale, il black metal conquistava la
credibilità e veniva accettato al di fuori della propria cerchia
ristretta.
Coadiuvati
da Kveldulv (non altri che Nocturno Culto, chitarra dei
colleghi Darkthrone – nel precedente “The Shadowthrone”,
invece, il guest di lusso era stato niente meno che Samoth
degli Emperor), i “Due Satyricon” Sigurd Wongraven
(chitarra/voce/basso/tastiere – leader carismatico della band) e
Kjetil Haralstad (batteria – suo degno braccio destro),
alias Satyr & Frost, confezionano il loro capolavoro
formale: in un irripetibile stato di grazia (compositiva ed
esecutiva) i due compari sapranno lasciarsi alle spalle tutte le
ingenuità del passato e levigare con cura un sound personale
sviluppato nei due buoni album precedenti.
Ad
illuminare le composizioni dei Satyricon è sempre il furore
chitarristico di Satyr, costantemente supportato dietro alle
pelli dal sodale Frost, uno dei batteristi più potenti e
resistenti della scena. L'incredibile sinergia fra i due dà
forma ad una sostanza complessa, densa di sfumature e deviazioni, che
tuttavia non si discosta un attimo dalla rigorosa ortodossia del
genere (gli sporadici interventi di tastiera o di pianoforte, i
risicatissimi inserti acustici non riusciranno a contaminare un
lavoro che rimane sostanzialmente un tour de force di chitarre
irrequiete che si integrano continuamente a pattern ritmici
devastanti, ove la doppia cassa sembra caricata a molla
e lasciata correre per tutta la durata del platter).
Il
tessuto di riff fluido, mutevole e coinvolgente, in perfetta simbiosi
con il dinamismo delle ritmiche, distanzia definitivamente il black
metal come genere dal metallo estremo fino ad allora vigente, per
avvicinarlo paradossalmente alla musica classica. Laddove il
death-metal è ancora matematica, calcolo, stop & ripartenze (il
deathster ragiona ancora come il thrasher, ossia come gli Slayer gli
hanno insegnato), il black-metal si emancipa dalla grammatica del
metal per divenire puro veicolo di emozioni: i legami stilistici con
il passato si riducono, i suoni corposi e stratificati mimano le
movenze di un’intera orchestra; i movimenti si succedono con una
scorrevolezza che, appunto, è più vicina ad una sinfonia di Wagner
o di Beethoven che ad un pezzo speed-thrash degli anni ottanta.
In
“Nemesis Divina” convergono inoltre le pulsioni
medievalistiche che la band, prima nel debutto “Dark
Medieval Times” (1994) e poi con “The Shadowthrone”
(1994), aveva già avuto modo di esprimere (a tal riguardo è utile
ricordare il progetto folk-metal Storm (super-gruppo formato
da Satyr, Fenriz dei Darkthrone e Kari Rueslatten dei Third and the
Mortal) che nel 1995 dava alle stampe il gioiello “Nordavind”).
Il medioevo dei Satyricon è il medioevo della peste, del fango, dei
teschi e delle barbarie: un mondo oscuro ed apocalittico fatto di
sangue e spade che genera immagini mostruose ed un black cruento come
non era mai stato realizzato dai Satyricon. E poi c’è “Mother
North”, il capolavoro nel capolavoro, un episodio che diviene
simbolo ed emblema di un intero genere: un brano che unisce la
tradizione bathoriana (i cori epici, l’amore per il nord, le
atmosfere glaciali) ai nuovi stilemi del black metal norvegese
(velocità supersonica, riff taglienti, lo screaming agonico che per
Satyr diviene un minaccioso ringhiare a denti stretti).
Tutto
è moltiplicato, eccessivo in “Nemesis Divina”, a partire dal
look adottato dai componenti della band per la circostanza. Il
cerone sui volto dei tre è visibilmente abbondante, tanto che pare
cadere a pezzi, screpolarsi, spezzarsi lungo i solchi e le
increspature di smorfie mostruose, anch’esse esasperate in ghigni
beffardi che rasentano il grottesco. Gli abiti bizzarri e vistosi, le
pose stesse sono esageratamente ostentate in una tensione spasmodica
di muscoli e nervi, il tutto enfatizzato ulteriormente dai colori
forti della fotografia (in netto contrasto con i tipici scatti in
bianco e nero che caratterizzavano l’iconografia sdoganata dai
Darkthrone e poi divenuta consuetudine).
Alla
stessa maniera, la musica è black metal al cubo: essa si fa
voluminosa, variegata, densa di sfumature, in netta opposizione alle
fastidiose chitarre zanzarose, alla batteria appena percettibile, al
basso inesistente di tante produzioni dell’epoca. Gli stessi brani
raggiungono lunghezze considerevoli, l’andamento è maestoso, quasi
monumentale, i cambi di tempo abbondano, la velocità esecutiva fa da
contraltare a frequenti fasi di rilascio, in cui i blast-beat si
stemperano in rallentamenti densi di pathos o in fiere cavalcate
folk- elettrificate in cui Frost e Satyr (memore dell’esperienza
Storm) marciano all'unisono con grande maestria.
In un
ipotetico paragone cinematografico, “Nemesis Divina” sta al resto
dei dischi black-metal come “Shining” si rapporta al resto
delle pellicole horror: non dico che sia il migliore né il primo, ma
sicuramente è il più formalmente impeccabile, quello con la
migliore fotografia, quello meglio scritto, quello meglio
interpretato. Oggetto cerebrale, costruito, come del resto è
inevitabile che sia l’opera di chi, calzati i guanti di lattice,
rovista nel torbido del black-metal e decide di portarne alla luce
l’essenza in una forma ripulita e rimessa a lucido.
Nel
nostro percorso volto alla purezza dello spirito più
autentico del black-metal norvegese siamo ancora a metà strada, ma
in “Nemesis Divina” questo filone trova la sua incarnazione più
luccicante ed intellegibile.