Ho
sempre considerato Stephen King un artista di serie B: dopo qualche
inevitabile lettura in gioventù, l'ho brutalmente scaricato in quanto scrittore
di genere, autore in serie di best-seller, tutto inventiva e cattiva scrittura.
Poi circa due mesi fa, inaspettatamente, l'ispirazione: ho letto “Shining”.
E ho dovuto cambiare idea.
(A
proposito: in questo mio scritto NON CI SONO SPOILER, così anche i pochissimi (esisteranno?) che non hanno visto il film, o non sanno nulla della trama, potranno leggere!)
Approccio
alla lettura. Per chi ha visto il film è francamente impossibile non rievocare le
immagini della pellicola, le ambientazioni, i personaggi così come li ha
immaginati e voluti ritrarre Stanley Kubrick (impossibile, ad esempio,
dissociare la figura del protagonista Jack Torrance dalla magistrale
interpretazione di Jack Nicholson). Questa sovrapposizione è per il
romanzo un vantaggio, ma al tempo stesso ha un effetto deleterio. Da un lato la
profondità, sostanziale e formale, del film (per certi aspetti superiore) conferisce
spessore alla scrittura didascalica di King. Dall'altro, sebbene la trama rimanga
avvincente, il fatto di conoscerla (ad esempio: sapere fin dall’inizio cosa è redrum
o chi si cela al di là della porta della fatidica camera 217) stempera un
poco la tensione. Ma solo un poco, perché il lettore rimarrà ugualmente
incollato alle quasi seicento pagine. E questo è indubbiamente un merito
del King scrittore.
Introduco
quindi il primo tema: se le cose sono in una certa maniera, un motivo ci
dovrà pur essere. Traduco: se Stephen King, e non Pinco Pallo, è
considerato il Maestro del Brivido, una spiegazione c’è. E la
spiegazione, paradossalmente, è che evidentemente Stephen King sa scrivere. E'
un errore di analisi criticare King se non è in grado di scrivere con la grazia
e la ricchezza lessicale di Gustave Flaubert o se non ha la profondità
di pensiero di Albert Camus. In ogni nostra valutazione bisogna sempre
chiederci quale è il reale obiettivo di un artista e capire se questo obiettivo,
in rapporto alle qualità dello stesso autore, è stato perseguito efficacemente
e poi raggiunto. Se King voleva farci paura, egli indubbiamente ha vinto.
Quanti
autori sanno veramente far cagare sotto dalla paura? In questo ambito devo per
forza tirare in ballo mostri sacri come Edgar A. Poe e H. P.
Lovecraft. Questa è gente di altri tempi, maestri del mistero, della suspense
e dell'atmosfera. King, nanetto sulle loro spalle, è tuttavia uno che fa paura
nella società mediatica di oggi, che è ben diverso che far paura nell'era della
lettura o della trasmissione orale, quando le storie erano raccontate di notte al
crepitio del fuoco nel caminetto. Oggi, bombardati continuamente da immagini di
ogni tipo, messi in contatto con ogni angolo più recondito di questo mondo,
siamo lettori più smaliziati e meno suggestionabili di quelli di una volta, che
credevano al Baubau. Quando, per esempio, Herman Melville
scriveva “Moby Dick”, le balene per l'uomo medio erano ancora creature
mitiche e fantastiche. I movimenti, i gesti di Jack Torrance, le sue parole,
sono televisive, cinematografiche, materiali, tangibili, egli si muove nello
spazio ad una velocità e con una pesantezza triple rispetto ad un Gordon Pym
o ad un Auguste Dupin. Poe del resto non era interessato all'azione vera
e propria. Cambia quindi la percezione dello spazio in relazione al tempo: King
lavora a più livelli, una quantità che diviene qualità. Ogni strato
(descrizione degli ambienti, approfondimento psicologico dei personaggi,
qualità dei dialoghi ecc.) ci potrà apparire grossolano, ma tutti questi messi
insieme, orchestrati in una micidiale sequenza, edificano un quadro decisamente
complesso e difficile da concepire e mettere in pratica.
La
strategia della tensione adottata da King è similare a quella allestita da Poe
nel racconto “La Maschera della Morte Rossa”, per altro citato in più di
un frangente. Imperversa la peste, il Principe Prospero si rinchiude con i suoi
amici in un castello inespugnabile. Una sera egli allestirà una gran festa in
maschera. La gaiezza degli invitati è però periodicamente interrotta dai
lugubri rintocchi dell'orologio a pendolo, presagio di un qualcosa di terribile:
tutto si ferma, la musica e gli schiamazzi; durante questi interminabili
istanti vige il gelo e l’incertezza. Poi, dopo l’ultimo rintocco, d’incanto
tutti riprendono a ridere, scherzare, ballare, increduli dell'inquietudine provata
fino al momento precedente. Tutto come prima, dunque, fino ai rintocchi
dell'ora successiva, quando tutto si ferma di nuovo, ed il terrore sarà più
forte, perché la medesima situazione si ammanta di nuovi inquietanti elementi che
nel frattempo erano stati introdotti.
In
proporzione diverse (la lunghezza di un romanzo, rispetto al formato limitato
del racconto, permette maggiori margini di manovra), la stessa dinamica si
ripete in “Shining”: tutta la prima parte non è altro che una lenta
preparazione a quello che succederà poi. Quelle digressioni, quei pensieri,
quei flashback sul passato dei personaggi che ci sembrano un inutile contorno
di basso livello letterario al nocciolo della storia, diverranno funzionali nel
momento in cui si dispiegherà l'azione vera e propria. Ed allora sì che
il maestro dell’horror e del thriller entra in scena. Già sei angosciato per
l'atmosfera collettiva, accuratamente costruita in un inesorabile ed
impercettibile crescendo di tensione. Poi arriva la brutta situazione A,
a cui s’abbina l’ancor più brutta situazione B, alle quali subentra
l'inaspettata e bruttissima situazione C, vista in precedenza e che avevi quasi
dimenticato. Nella ripetizione ed accumulo di elementi
confezionati ad arte, non c'è tregua: la tensione ti attanaglia, ti
soffoca, vorresti smettere di leggere, ma non puoi non andare avanti nella
lettura per afferrare il nucleo rovente. E nel momento esatto in cui
tutto è sull'orlo di sconfinare nella pagliacciata (come succede di frequente
nella piccola letteratura di genere), o scemare nel niente (come a volte capita
nella vacua letteratura contemporanea, che oscilla continuamente fra fasi di
tensione e rilascio fini a se stesse) King risulta concretissimo e la sua mano è
in grado di tenere fermo il timone, con gran rigore e scientificità. Inaspettatamente
la penna rozza di King diviene in grado di tratteggiare immagini straordinariamente
vivide e penetranti: un orrore visivo che va a braccetto con la violenza
più esplicita e materiale. Ed è in quel momento che capisci la superiorità del professionista,
del giocatore concentrato che segna il gol quando è il momento di farlo. Il
concetto, in definitiva, è: King è un professionista e il suo mestiere è far paura.
Non far piangere, non far riflettere.
Arrivo
dunque al punto: in questo aspetto trovo un parallelo con il mondo della
musica, e con il metal in particolare. Spesso si parla del metal come
fenomeno artistico di infima categoria. I più superficiali diranno che si
tratta di solo rumore e che i musicisti metal non sanno suonare, ma a
certe critiche il metallaro scafato non s'incazza più ed al massimo sbadiglia:
al di là che oramai solo i fan di Gigi D'Alessio non sanno che anche il
“rumore” può essere una forma d'arte, il metal dispone al suo interno di un
esercito di musicisti tecnicamente preparati, con una visione artistica matura
e capaci di mettere insieme cose assai complicate (e spesso non lontanamente
concepibili da musicisti provenienti da ambiti anche colti, come nel caso dei folk-singer).
Proviamo
invece a confrontarci con chi di musica se ne intende. Il ritornello più comune
è il seguente: è una questione di sensibilità, la capacità di esprimersi
(sia a livello lirico che a livello musicale) del musicista metal è elementare e
puerile a prescindere dal bagaglio tecnico in suo possesso. Il fatto è che il
metal ha delle caratteristiche intrinseche che solo dal proprio interno
possono essere capite. E a volte nemmeno da lì dentro (che Varg Vikernes
è un poeta non lo capisce nemmeno il metallaro medio). Come in letteratura,
bisogna vedere cosa l'artista vuole comunicare. Stephen King è il maestro
dell'horror: ci fa paura, e lo fa meglio di tanti altri autori più blasonati
che a volte vorrebbero fare un pochino di paura, ma non ci riescono con la
stessa efficacia. Semplicemente non è il loro mestiere (esempio: ci sono
diverse scene cruente nei romanzi di Umberto Eco, ma che risultano
insipide ed artificiose). Allo stesso modo in certe forme sperimentali di
jazz/noise/elettronica troveremo passaggi di immane violenza, ma non gestiti
con quella scientificità, con quella professionalità, con quella serietà con
cui lo fanno ad esempio gli Slayer, violenti per professione: c'è una
sorta di matematica dell'Estremo che il metal utilizza e che altrove è
sconosciuta.
Altro
tema: l'umanità. Il metal è un genere musicale molto umano, perché la
gente che lo suona (ma anche chi lo ascolta) è figlia di una passione molto
forte, quasi una religione. Fate un test: laddove anche il metallaro meno colto
è in grado di raccontarti a memoria discografie intere, inanellando i più
svariati cambi di formazione, il più acculturato indie-rocker spesso non
riesce a padroneggiare con la medesima sistematicità la discografia dei suoi
beniamini. Forse perché prende la musica meno seriamente del metallaro: sono
approcci diversi, e il metal ha il suo, che poi non è necessariamente meglio
degli altri, ma è un approccio forte, viscerale, e in questo rapporto maniacale
c'è moltissima umanità. Un'umanità che finisce per trapelare oltre le trame di
tanti cliché.
Allo
stesso modo “Shining”, nonostante sia un romanzo di genere, contiene grandi
dosi di umanità, sicuramente più di quanta ve ne sia in Baricco o in Houellebecq.
E vi dirò: è più autentica quell'umanità o quella poesia che, come nel metal,
escono per sbaglio, che quelle sapientemente costruite dai cosiddetti “artisti
nobili”, la cui arte è spesso mediata da costruzioni intellettualoidi che ne
sviliscono la vitalità. Prendete quei momenti in cui Jack Torrance (ma
che bel nome!), scrittore fallito ed ex-alcolizzato, s’inizia, in maniera
crescente ed inesorabile, ad incazzare con sua moglie Wendy, creatura insicura
e piena di paturnie, che lo stressa dalla mattina alla sera con preoccupazioni a
suoi occhi inesistenti. Non è la stessa sensazione che provi quando scrivi
il tuo pezzo per Metal Mirror e ti interrompono continuamente? (Fra
l’altro, detto per inciso, son convinto che, proprio in questa ben descritta
insofferenza nei confronti di certi tratti dell’universo femminile, Kubrick,
notoriamente artista misogino, ha trovato la sua Illuminazione!)
Oppure
considerate quei momenti in cui l'albergo, il temibile Overlook, diviene
teatro soffocante di angherie e, come in un'orchestra del male, tutti gli
elementi iniziano a marciare all’unisono creando quel clima claustrofobico
fatto di una, due, tre minacce che messe in fila diventano qualcosa di realmente
insopportabile per chiunque: non è la stessa sensazione che si prova, magari a
lavoro, quando, attaccati da più fronti, iniziamo ad incassare un colpo dopo
l’altro, e quindi non ci resta che inspirare/espirare per scongiurare gli
attacchi di panico e, proprio quando dici “adesso reggo, adesso reggo, ma non
so per quanto”, TAC!, arriva la mazzata finale dalla direzione che meno ti
aspetti? E' un'umanità, un'aderenza al Reale, che trapela oltre
l'invenzione, oltre l'elemento fantasy.
Idem
nel metal: se ci si ferma a diavoli & caproni, spade & draghi,
logicamente saremmo portati a liquidare l’intero genere come roba per
adolescenti rincoglioniti. Quando in realtà, il vero messaggio del metal è
nel metal stesso, oltre i suoi luoghi comuni, nel suo linguaggio, nella
forte umanità di chi lo suona, nell’improbabile poesia che a volte scappa
fuori, nella genialità o nell’intelligenza compositiva che, in quella data
maniera e con quell’approccio, è patrimonio del solo metal e non di altri
generi.