"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

5 mag 2015

BURZUM: IL CANTAUTORE



I MIGLIORI DIECI ALBUM DEL BLACK METAL NORVEGESE
2° CLASSIFICATO: “HVIS LYSET TAR OSS”

Un sentiero in un bosco ombroso, pochi fasci di luce che penetrano attraverso la fitta trama delle chiome degli alberi. Un corpo senza vita che giace a terra, uno stormo di neri uccelli che volano via. La natura è sinistra, ma non priva di fascino, ed è indubbiamente protagonista della scena. L’essere umano, un teschio dalle vuote orbite, materia in lenta dissoluzione e pochi stracci addosso, è una miserabile figura ai margini. Lo sguardo è però distaccato: una cinica contemplazione di una realtà senza tempo che guarda l’umanità né con disprezzo né con indulgenza, ma come parte di un equilibrio più ampio, cieco e determinista. La copertina di “Hvis Lyset Tar Oss” (suggestiva tela del pittore norvegese Theodor Kittelsen)  non è solo un’icona, una delle più belle e significative dell’universo black metal, ma anche l’espressione più fedele della visione artistica di Varg Vikernes, in arte Burzum. 

Se Varg Vikernes non avesse ucciso Euronymous e non avesse dovuto scontare sedici anni di carcere, oggi sarebbe più semplice parlare della sua musica. Se così fosse, oggi egli sarebbe probabilmente rispettato, forse venerato, sicuramente rivalutato come eccentrico artista di culto: mesto quarantenne con barba e cappellino camouflage, ripiegato con la chitarra in mano sulla sua buona sedia di paglia, un libro di mitologia nordica sul comodino, nella sua fattoria spersa nelle campagne, padre di famiglia, personaggio schivo, solitario, una vita sospesa fra musica, famiglia e, chissà, coltivazioni biologiche. Questo sarebbe stato Varg Vikernes se la fatidica notte del 10 agosto 1993 se ne fosse rimasto a casa a guardare la TV.

Ma non andò così, ed ogni neutralità nei suoi confronti, da quel momento in poi, è divenuta impossibile. Per quanto personaggio "scomodo", egli è comunque nel tempo riuscito ad accattivarsi simpatie insospettabili, suscitando interesse anche oltre gli esclusivi ambienti dell’universo metal (si pensi alla scelta di un suo brano quale tema portante nella colonna sonora del film cultGummo” del regista indipendente americano Harmony Korine). A dimostrazione che, secondo una visione scevra da pregiudizi, Varg Vikernes vale qualcosa come artista: come interprete, aggiungiamo noi, di un’arte del disagio e del malessere che parte da molto lontano e forse mai si estinguerà.

Hvis Lyset Tar Oss” (pubblicato nel 1994, ma già pronto da tempo) è un momento cardine di una vasta discografia che si articola in tre fasi: i lavori metal registrati prima dell’incarcerazione (sui quali concentreremo la nostra attenzione), quelli di sole tastiere incisi negli anni della reclusione, e i più recenti (sia metal che ambient) che hanno sancito il suo ritorno discografico dopo la “pausa” forzata. 

I primi quattro album (“Burzum”, “Det Som Engang Var”, “Hvis Lyset Tar Oss” e “Filosofem”) vennero registrati fra il 1992 e il 1993 ed è impressionante constatare come il percorso artistico di questo ventenne (nel 1992 Vikernes aveva diciannove anni) potesse essersi sviluppato in un così breve lasso di tempo. Nel corso di questa vertiginosa evoluzione, le composizioni di Vikernes si sono in qualche modo andate semplificando ed al tempo stesso hanno guadagnato in intensità, come se egli avesse coscientemente deciso di assecondare un processo di disgregazione sonora ad “entropia crescente”: una ricerca che ha portato alla riduzione progressiva degli elementi, ma non della complessità del loro insieme.

Non si può affermare con sicurezza che “Hvis Lyset Tar Oss” sia il migliore parto discografico dell’allora Count Grisnakh (tutti e quattro gli album, in verità, sono da considerare capolavori, in quanto ciascuno di essi si fa portatore di qualcosa di diverso rispetto agli altri, ed ognuno di essi toglierà qualcosa ed aggiungerà altro al proprio predecessore), ma di sicuro esso rappresenta un punto di equilibrio che fotografa la maturità dell’artista nel maneggiare la materia black metal, prima che egli la travalichi definitivamente con il successivo “Filosofem”.

Vikernes è infatti da annoverare fra i primi mover della nuova ondata di band norvegesi dedite al black metal (sotto ovviamente la sapiente guida dell’allora amico e mentore Euronymous), ma al tempo stesso la sua musica già inglobava le premesse per il superamento degli stilemi classici del genere. Il sound del Nostro era originale ed immediatamente riconoscibile fin dalle sue origini, sebbene il riffing delle chitarre fosse ancora di stampo thrash-bathoriano: un’identità che passava sicuramente dal peculiare screaming (acuto e monocorde, capace di distinguersi fra mille altri), ma anche per il raro talento melodico, per la poesia che impregnava ogni singolo passaggio e per l’impiego massiccio di arpeggi elettrificati. Le composizioni di “Filosofem” già non sarebbero più state classificabili come black metal in senso stretto: del black metal in esse rimarrà solo la rarefazione sonora, fatta di vibranti stratificazioni di chitarra elettrica; la voce svilirà in un lamento filtrato, mentre i tempi rallenteranno fino a scomparire del tutto nella stasi ambientale.

In “Hvis Lyset Tar Oss” diviene inoltre esplicito quell’approccio che potremmo definire cantautoriale che vede il linguaggio del black metal impiegato come un medium per la manifestazione di emozioni che scaturiscono, non tanto dal raccontarsi, ma da uno sguardo penetrante rivolto al mondo esterno: una lucida contemplazione che proietta i proprio pensieri e sentimenti sulla fenomenologia circostante. E’ così che l’anima impenetrabile, complessa e tormentata da chissà quali fantasmi di Vikernes assume il profilo di maestose foreste di conifere, del mare in tempesta, di lente processioni di boscaioli che esausti marciano verso casa dopo una dura giornata di lavoro, di una contadina che impugna un lungo corno e vi soffia dentro per arcani motivi. Natura e Tradizione, cultura pagana e sensazioni senza tempo, sepolte in un passato forse irrecuperabile, punto di partenza inevitabile su cui costruire un nuovo avvenire.  

Lo chiamiamo cantautorato non solamente perché Vikernes è un poeta, ma anche perché egli è solo, come lo era, per esempio, Nick Drake prima di uccidersi. Burzum è una one-man band, perché evidentemente il suo deus ex machina non poteva spartire la sua visione artistica con altri, perché ritenuti incompetenti o non degni di partecipare a quell’esperienza. La sua musica rifletterà in maniera evidente questa dimensione privata: Burzum non assomiglia ad una band (come invece era il caso del buon Quorton con i suoi Bathory), in quanto estrinsecazione artistica di un uomo solo che non ammette che la sua “urgenza” venga mediata dall’attività di un collettivo. Egli non sarà altro che il capostipite di una lunga sequela di artisti che decideranno di confezionarsi, a casa propria, in “perfetta solitudine”, il proprio lascito su questo mondo.  

Ma non è questa l’unica peculiarità della musica di Varg Vikernes. Le sue grida, ad esempio, non esprimono malvagità, bensì agonia e disperazione, nonostante l’atteggiamento verso il mondo sia elitario, di fiera indipendenza intellettuale, e non sterile lamentela. Il paradosso è che dalle visioni decadenti e sofferte di Burzum prenderà avvio il filone depressive (o suicidal che dir si voglia) del black metal, che ideologicamente si pone agli antipodi, celebrando i temi dell’autodistruzione (dimensione estranea al Vikernes-pensiero, essenzialmente costruttivo, sebbene si basi su un insopportabile senso di perdita e veda la possibilità di riscatto dell’uomo non in ideologie progressiste, ma nel recupero di un passato in cui la vita scorreva in armonia con la natura).

Un’altra caratteristica è lo sviluppo delle strutture al di fuori dal canonico formato canzone: un processo di destrutturazione che in Buzum diviene regola e non più eccezione. Altro paradosso: se nelle prime release i brani saranno un susseguirsi disarticolato di riff e grida disumane disseminate a caso, dove la ferocia e le dissonanze si alternano a lunghe pause in cui le chitarre sono lasciate a friggere da sole, in seguito le composizioni raggiungeranno considerevoli minutaggi semplificando la propria struttura e reiterando in modo ossessivo pochi azzeccati riff. L’ossessione (o reiterazione che dir si voglia) è un’altra peculiarità della musica di Burzum: al dinamismo dei Mayhem, degli Emperor, dei Satyricon, alla velocità forsennata di Darkthrone ed Immortal si contrappone una ricerca (perché ci dev’essere una ricerca, altrimenti non si spiegherebbe come possano piacere brani di dieci minuti animati da tre riff messi in croce) in cui prevale la definizione di poche idee, ma decisamente valide.

Questo approccio, che potremmo definire come un riuscito connubio fra sintesi concettuale ed urgenza comunicativa (che fa della musica di Burzum materia incandescente, ma ponderata nel suo plasmarsi) lo troviamo perfettamente espresso in “Hvis Lyset Tar Oss”, nel quale riconosciamo le tre facce del Vikernes artista, i tre volti che egli mostrerà, in forme diverse, nel corso della sua intera carriera.

Il primo volto è quello più maestoso ed affascinante: è il black metal paesaggistico ed evocativo fatto di tempi cadenzati, riff ipnotici e gelide tastiere, uno scontro fra elettricità ed orchestrazioni che costituisce la sintesi definitiva del Burzum sound, a metà strada fra arcano e post-moderno, universale ed individuale. Ad esso dobbiamo tutte le evoluzioni successive in senso post e depressive e, più in generale, quei percorsi che vedranno nella libera dilatazione dei tempi e delle strutture una dimensione congeniale.

Il secondo volto è invece quello del black metal serrato e senza compromessi che si riallaccia ad una accezione più classica del genere, ma che in Burzum trova un campione unico ed inimitabile. E’ il suo volto meno noto, perché in questo ambito altri si sono distinti, ma le sue composizioni lunghissime ed estranianti che si basano su ritmiche esasperanti, riff ripetuti allo sfinimento, variazioni impercettibili, sono delle esperienze capaci di portare l’ascoltatore in un autentico stato di trance (obiettivo peraltro dichiarato).

Il terzo volto è quello ambient, in cui la poetica di Vikernes si emancipa dall’elettricità e dal medium metal in generale, per abbandonarsi al moto ondulatorio dei sintetizzatori. E’ forse il fronte più fragile dell’armamentario burzumiano, in quanto il musicista norvegese deve necessariamente fare i conti con i maestri dell’ambient e della musica cosmica. Seppur con mezzi rudimentali e con piglio scolastico, Vikernes mostra coraggio nell’esplorare una dimensione comunque inedita per il metal. Numerosi saranno coloro che in ambito estremo accoglieranno la sfida, decidendo di sviluppare questa intuizione.

In “Hvis Lyset Tar Oss” questi tre approcci li troviamo separati e perfettamente definiti, unificati dallo sguardo impenetrabile e coerente del suo autore. “Hvis Lyset Tar Oss” è un crocevia da cui prenderanno avvio più filoni della musica estrema. Affinché ciò sia possibile (poche idee da cui germineranno interi universi musicali) è necessario che alla base del tutto vi siano una creatività e soprattutto una capacità comunicativa che sono proprie dei grandi maestri: ossia la dote innata di saper indicare la via in modo netto ed incontrovertibile e con una autorevolezza che non ammette obiezioni.  Una visione artistica che, per quanto mostruosa e comprensibile solo dopo anni, forse decenni di faticosa metabolizzazione, è in grado di gettare i semi dell’innovazione e spostare oltre l’asse del “consentito”.

Se “Hvis Lyset Tar Oss” si guadagna il secondo posto nella nostra classifica, lo fa per tutti questi buoni motivi e probabilmente per molti altri che nemmeno noi siamo oggi in grado di comprendere.