I
MIGLIORI DIECI ALBUM DEL BLACK METAL NORVEGESE
2°
CLASSIFICATO: “HVIS LYSET TAR OSS”
Un
sentiero in un bosco ombroso, pochi fasci di luce che penetrano attraverso la fitta trama delle chiome degli alberi. Un corpo senza
vita che giace a terra, uno stormo di neri uccelli che volano via. La natura
è sinistra, ma non priva di fascino, ed è indubbiamente protagonista della
scena. L’essere umano, un teschio dalle vuote orbite, materia in lenta
dissoluzione e pochi stracci addosso, è una miserabile figura ai margini. Lo
sguardo è però distaccato: una cinica contemplazione di una realtà senza tempo
che guarda l’umanità né con disprezzo né con indulgenza, ma come parte di un
equilibrio più ampio, cieco e determinista. La copertina di “Hvis Lyset Tar
Oss” (suggestiva tela del pittore norvegese Theodor Kittelsen) non è solo un’icona, una delle più belle e
significative dell’universo black metal, ma anche l’espressione più fedele
della visione artistica di Varg Vikernes, in arte Burzum.
Se Varg
Vikernes non avesse ucciso Euronymous e non avesse dovuto scontare sedici anni di carcere, oggi sarebbe più semplice
parlare della sua musica. Se così fosse, oggi egli sarebbe probabilmente rispettato,
forse venerato, sicuramente rivalutato come eccentrico artista di culto: mesto
quarantenne con barba e cappellino camouflage, ripiegato con la chitarra
in mano sulla sua buona sedia di paglia, un libro di mitologia nordica sul
comodino, nella sua fattoria spersa nelle campagne, padre di famiglia, personaggio
schivo, solitario, una vita sospesa fra musica, famiglia e, chissà,
coltivazioni biologiche. Questo sarebbe stato Varg Vikernes se la fatidica
notte del 10 agosto 1993 se ne fosse rimasto a casa a guardare la TV.
Ma non
andò così, ed ogni neutralità nei suoi confronti, da quel momento in poi, è
divenuta impossibile. Per quanto personaggio "scomodo", egli è comunque nel tempo
riuscito ad accattivarsi simpatie insospettabili, suscitando interesse anche
oltre gli esclusivi ambienti dell’universo metal (si pensi alla scelta di un
suo brano quale tema portante nella colonna sonora del film cult “Gummo”
del regista indipendente americano Harmony Korine). A dimostrazione che,
secondo una visione scevra da pregiudizi, Varg Vikernes vale qualcosa come
artista: come interprete, aggiungiamo noi, di un’arte del disagio e del
malessere che parte da molto lontano e forse mai si estinguerà.
“Hvis
Lyset Tar Oss” (pubblicato nel 1994, ma già pronto da tempo) è un
momento cardine di una vasta discografia che si articola in tre fasi: i lavori metal
registrati prima dell’incarcerazione (sui quali concentreremo la nostra
attenzione), quelli di sole tastiere incisi negli anni della reclusione, e i
più recenti (sia metal che ambient) che hanno sancito il suo ritorno
discografico dopo la “pausa” forzata.
I primi
quattro album (“Burzum”, “Det Som Engang Var”, “Hvis Lyset Tar
Oss” e “Filosofem”) vennero registrati fra il 1992 e il 1993
ed è impressionante constatare come il percorso artistico di questo ventenne
(nel 1992 Vikernes aveva diciannove anni) potesse essersi sviluppato in un così
breve lasso di tempo. Nel corso di questa vertiginosa evoluzione, le
composizioni di Vikernes si sono in qualche modo andate semplificando ed al
tempo stesso hanno guadagnato in intensità, come se egli avesse coscientemente
deciso di assecondare un processo di disgregazione sonora ad
“entropia crescente”: una ricerca che ha portato alla riduzione progressiva degli
elementi, ma non della complessità del loro insieme.
Non
si può affermare con sicurezza che “Hvis Lyset Tar Oss” sia il migliore parto discografico dell’allora Count
Grisnakh (tutti e quattro gli album, in verità, sono da considerare capolavori, in
quanto ciascuno di essi si fa portatore di qualcosa di diverso rispetto agli
altri, ed ognuno di essi toglierà qualcosa ed aggiungerà altro al proprio
predecessore), ma di sicuro esso rappresenta un punto di equilibrio che
fotografa la maturità dell’artista nel maneggiare la
materia black metal, prima che egli la travalichi definitivamente con il
successivo “Filosofem”.
Vikernes
è infatti da annoverare fra i primi mover della nuova ondata di band norvegesi
dedite al black metal (sotto ovviamente la sapiente guida dell’allora amico e
mentore Euronymous), ma al tempo stesso la sua musica già inglobava le premesse
per il superamento degli stilemi classici del genere. Il sound del Nostro era
originale ed immediatamente riconoscibile fin dalle sue origini, sebbene il
riffing delle chitarre fosse ancora di stampo thrash-bathoriano: un’identità che
passava sicuramente dal peculiare screaming (acuto e monocorde, capace
di distinguersi fra mille altri), ma anche per il raro talento melodico, per la
poesia che impregnava ogni singolo passaggio e per l’impiego massiccio
di arpeggi elettrificati. Le
composizioni di “Filosofem” già non sarebbero più state classificabili come black
metal in senso stretto: del black metal in esse rimarrà solo la rarefazione
sonora, fatta di vibranti stratificazioni di chitarra elettrica; la voce svilirà
in un lamento filtrato, mentre i tempi rallenteranno fino a scomparire del
tutto nella stasi ambientale.
In “Hvis
Lyset Tar Oss” diviene inoltre esplicito quell’approccio che potremmo
definire cantautoriale che vede il linguaggio del black metal impiegato
come un medium per la manifestazione di emozioni
che scaturiscono, non tanto dal raccontarsi, ma da uno sguardo penetrante
rivolto al mondo esterno: una lucida contemplazione che proietta i proprio pensieri e sentimenti sulla
fenomenologia circostante. E’ così che l’anima impenetrabile, complessa
e tormentata da chissà quali fantasmi di Vikernes assume il profilo di
maestose foreste di conifere, del mare in tempesta, di lente processioni di
boscaioli che esausti marciano verso casa dopo una dura giornata di lavoro, di una
contadina che impugna un lungo corno e vi soffia dentro per arcani motivi. Natura
e Tradizione, cultura pagana e sensazioni senza tempo, sepolte in un
passato forse irrecuperabile, punto di partenza inevitabile su cui costruire un
nuovo avvenire.
Lo
chiamiamo cantautorato non solamente perché Vikernes è un poeta, ma
anche perché egli è solo, come lo era, per esempio, Nick Drake prima di
uccidersi. Burzum è una one-man band, perché evidentemente il suo
deus ex machina non poteva spartire la sua visione artistica con altri,
perché ritenuti incompetenti o non degni di partecipare a
quell’esperienza. La sua musica rifletterà in maniera evidente questa dimensione
privata: Burzum non assomiglia ad una band (come invece era il caso del buon
Quorton con i suoi Bathory), in quanto estrinsecazione artistica di un uomo solo che non ammette che la sua “urgenza”
venga mediata dall’attività di un collettivo. Egli non sarà altro che il
capostipite di una lunga sequela di artisti che decideranno di confezionarsi, a
casa propria, in “perfetta solitudine”, il proprio lascito su questo mondo.
Ma
non è questa l’unica peculiarità della musica di Varg Vikernes. Le sue grida,
ad esempio, non esprimono malvagità, bensì agonia e disperazione, nonostante
l’atteggiamento verso il mondo sia elitario, di fiera indipendenza
intellettuale, e non sterile lamentela. Il paradosso è che dalle visioni decadenti e
sofferte di Burzum prenderà avvio il filone depressive (o suicidal che
dir si voglia) del black metal, che ideologicamente si pone agli antipodi, celebrando
i temi dell’autodistruzione (dimensione estranea al Vikernes-pensiero,
essenzialmente costruttivo, sebbene si basi su un insopportabile senso di
perdita e veda la possibilità di riscatto dell’uomo non in ideologie
progressiste, ma nel recupero di un passato in cui la vita scorreva in armonia
con la natura).
Un’altra
caratteristica è lo sviluppo delle strutture al di fuori dal canonico formato canzone:
un processo di destrutturazione che in Buzum diviene regola e non più
eccezione. Altro paradosso: se nelle prime release i brani saranno un
susseguirsi disarticolato di riff e grida disumane disseminate a caso, dove la
ferocia e le dissonanze si alternano a lunghe pause in cui le chitarre sono
lasciate a friggere da sole, in seguito le composizioni raggiungeranno
considerevoli minutaggi semplificando la propria struttura e reiterando in modo
ossessivo pochi azzeccati riff. L’ossessione (o reiterazione che
dir si voglia) è un’altra peculiarità della musica di Burzum: al dinamismo dei
Mayhem, degli Emperor, dei Satyricon, alla velocità forsennata di Darkthrone ed
Immortal si contrappone una ricerca (perché ci dev’essere una ricerca,
altrimenti non si spiegherebbe come possano piacere brani di dieci minuti
animati da tre riff messi in croce) in cui prevale la definizione di poche idee,
ma decisamente valide.
Questo
approccio, che potremmo definire come un riuscito connubio fra sintesi
concettuale ed urgenza comunicativa (che fa della musica di Burzum
materia incandescente, ma ponderata nel suo plasmarsi) lo troviamo perfettamente
espresso in “Hvis Lyset Tar Oss”, nel quale riconosciamo le tre facce del
Vikernes artista, i tre volti che egli mostrerà, in forme diverse, nel
corso della sua intera carriera.
Il
primo volto è quello più maestoso ed affascinante: è il black metal
paesaggistico ed evocativo fatto di tempi cadenzati, riff ipnotici e gelide
tastiere, uno scontro fra elettricità ed orchestrazioni che costituisce la
sintesi definitiva del Burzum sound, a metà strada fra arcano e
post-moderno, universale ed individuale. Ad esso dobbiamo tutte le evoluzioni successive
in senso post e depressive e, più in generale, quei percorsi che
vedranno nella libera dilatazione dei tempi e delle strutture una dimensione
congeniale.
Il
secondo volto è invece quello del black metal serrato e senza
compromessi che si riallaccia ad una accezione più classica del genere, ma
che in Burzum trova un campione unico ed inimitabile. E’ il suo volto meno
noto, perché in questo ambito altri si sono distinti, ma le sue composizioni
lunghissime ed estranianti che si basano su ritmiche esasperanti, riff ripetuti
allo sfinimento, variazioni impercettibili, sono delle esperienze capaci di
portare l’ascoltatore in un autentico stato di trance (obiettivo
peraltro dichiarato).
Il
terzo volto è quello ambient, in cui la poetica di Vikernes si
emancipa dall’elettricità e dal medium metal in generale, per abbandonarsi al
moto ondulatorio dei sintetizzatori. E’ forse il fronte più fragile dell’armamentario
burzumiano, in quanto il musicista norvegese deve necessariamente fare i
conti con i maestri dell’ambient e della musica cosmica. Seppur con mezzi
rudimentali e con piglio scolastico, Vikernes mostra coraggio nell’esplorare
una dimensione comunque inedita per il metal. Numerosi saranno coloro che in
ambito estremo accoglieranno la sfida, decidendo di sviluppare questa
intuizione.
In “Hvis
Lyset Tar Oss” questi tre approcci li troviamo separati e perfettamente
definiti, unificati dallo sguardo impenetrabile e coerente del suo autore.
“Hvis Lyset Tar Oss” è un crocevia da cui prenderanno avvio più filoni
della musica estrema. Affinché ciò sia possibile (poche idee da cui
germineranno interi universi musicali) è necessario che alla base del tutto vi
siano una creatività e soprattutto una capacità comunicativa che sono proprie dei grandi maestri:
ossia la dote innata di saper indicare la via in modo netto ed incontrovertibile e
con una autorevolezza che non ammette obiezioni. Una visione artistica che, per quanto
mostruosa e comprensibile solo dopo anni, forse decenni di faticosa metabolizzazione, è
in grado di gettare i semi dell’innovazione e spostare oltre l’asse del
“consentito”.
Se
“Hvis Lyset Tar Oss” si guadagna il secondo posto nella nostra classifica,
lo fa per tutti questi buoni motivi e probabilmente per molti altri che nemmeno
noi siamo oggi in grado di comprendere.