Così cominciava la recensione che lessi nel 1995 sulla
rivista Metal Hammer (la mia guida per gli acquisti di quel periodo) relativa
a “The positive pressure (of injustice)” degli Extrema. Mi colpì tantissimo,
anche perché non conoscevo appieno la scena metal italiana e non ne immaginavo
la marginalità, sia commerciale che di considerazione, a livello internazionale.
A cura di Morningrise
Non so se gli Extrema riuscirono a vendere quel numero di
copie di quell’album più che buono, ma l’incipit di quella recensione mi è
tornata alla mente dopo pochi ascolti del primo, omonimo full-lenght dei
nostrani Pathosray, uscito nel 2007 (MM li aveva già trattati indirettamente
nell’intervista al bassista Fabio D’Amore: leggi ).
Metto subito le carte in chiaro: dopo anni di ascolto del
platter, personalmente lo reputo il miglior album metal italiano che abbia
sentito da 15 anni a questa parte! Lo so, sembra la solita frase ad effetto,
esagerata. Ma provo ad articolare le motivazioni di questo mio convincimento.
Innanzitutto nei 52 minuti di durata si trova tutto quello
che per me un disco metal deve avere per essere musicalmente longevo: potenza,
melodia, classe, visione, emozione. Emozione: una parola cruciale nella
proposta di questa band originaria del Triveneto. La loro musica infatti
emoziona moltissimo. Ed evidentemente non è un caso la scelta del nome: il
termine “pathos” infatti in greco significa “emozionarsi” (ma può anche
indicare uno stato d’animo di “sofferenza”).
Attraverso una spiccata creatività ed originalità, elementi
basilari di un’ideale “ponte progressivo”, i Nostri riescono, in maniera
moderna e personale, a unire le influenza settantiane straniere (Rush su tutti)
e italiche (PFM, Le Orme) con il moderno metal anni ’90, attingendo dalle migliori
produzioni dei top groups del progressive (Dream Theater, Fates Warning,
Symphony X, Opeth, Orphaned Land). Ma toglietevi dalla mente brutte versioni
e/o scopiazzature di questi Grandi Maestri del prog rock/metal perché i
Pathosray viaggiano autonomamente sui loro binari artistici, con una
personalità e una padronanza nei propri mezzi invidiabili (probabilmente dovuti
anche da 7 anni di gavetta e da due demo pubblicate prima del debutto sulla
lunga distanza).
Una placida distesa d’acqua tra due alte pareti rocciose,
illuminata debolmente da un sole (o una luna?) velato da nere nubi: il corpo di
una donna giace riverso nell’acqua e al suo fianco vi è un uomo inginocchiato in un palese stato di disperazione.
Sopra di loro, indifferenti, volteggiano dei gabbiani. Questa è la meravigliosa
copertina, dai colori molto suggestivi, ideata dal designer svedese Mattias
Noren (già artefice di grandi cover per Evergrey e Kamelot). Una scena al contempo romantica, struggente e, tornando ai diversi significati di
“pathos”, molto sofferta. Il cd, da un punto di vista dell’impatto visivo, si
presenta già magnificamente.
Spazio alla musica: “Free of doubt”, l’intro, ci accoglie
con leggiadre note di tastiera che si intrecciano a quelle di un piano dal
forte sapore classic…84 secondi in un crescendo di tensione che preparano all’irruzione
in scena di tutti gli strumenti nel primo vero pezzo del disco, “Faded crystal”
che ci riversa addosso una cascata di note tramite la chitarra sincopata di
Luca Luison appoggiata da una sezione ritmica strepitosa, composta da Fabio
d’Amore al basso e dal principale compositore della band, il batterista Ivan
Moni Bidin. A completare il quadro ecco le tastiere di Gianpaolo Rinaldi, dal
marcato sapore settantiano, sempre funzionali e mai ingombranti, anche quando
diventano protagoniste con digressioni e assoli. Ma in questo pezzo scopriamo
anche l’incredibile voce di Marco Sandron, vocalist eccezionale capace di
esprimersi su diversi registri, ora rabbiosi, graffianti ed aggressivi, come
nella prima parte, per poi virare su tonalità morbide e alte sia
nell’emozionante chorus che in una sezione centrale rilassata, dove arpeggi di chitarre
prima e partiture di tastiera dopo fanno bello sfoggio di sé, guidando le
sonorità nel finale al tema iniziale del brano. Una gran canzone, 8
minuti intensissimi.
Si va avanti poi con l’altrettanto valida “Lines to follow”, che parte molto tirata per poi lasciare spazio a modulazioni ritmiche strepitose nel bridge e in un chorus ancora una volta non banale e che ti si stampa subito in testa. E’ il pezzo questo forse più duro del lotto, assieme a “The sad game”, con una sezione chitarristica di grande impatto sonoro in stile Nevermore (altra illustre band di riferimento per i Pathosray).
Si va avanti poi con l’altrettanto valida “Lines to follow”, che parte molto tirata per poi lasciare spazio a modulazioni ritmiche strepitose nel bridge e in un chorus ancora una volta non banale e che ti si stampa subito in testa. E’ il pezzo questo forse più duro del lotto, assieme a “The sad game”, con una sezione chitarristica di grande impatto sonoro in stile Nevermore (altra illustre band di riferimento per i Pathosray).
E arriviamo all’uno-due che stenderebbe un mammut e che,
musicalmente parlando, mette in riga il 95% delle uscite power-prog del Terzo
Millennio: “Scent of snow” e “Sorrow never dies”. Due canzoni pazzesche, dolci
e potenti allo stesso tempo, e alle quali probabilmente Noren si è ispirato per
concepire l’artwork della copertina. Si, perché, in “Scent of snow”, la voce
suadente prima e acuta poi di Sandron ci trasporta verso altissime vette, con
un romanticismo e una tristezza di fondo che richiamano alla mente proprio le
sensazioni veicolate dall’immagine di copertina. Intermezzo strumentale, dai
cangianti cambi di ritmo, in cui tutti i musicisti si ritagliano un loro spazio
con assoli e digressioni sempre funzionali all’economia del brano e mai
tediosi.
Da urlo poi l’incipit di “Sorrow never dies”, con il basso
caldo e corposo di D’Amore (autore di una prova ineccepibile per tutta la
durata del disco) a far da guida alle linee vocali sovrapposte di Sandron prima
che il brano prenda il volo in un ritornello da brividi, seguito da assoli di
gran gusto sfoderati da Luison.
Da questi due brani si respira in maniera massiccia anche l’epicità
che i Pathosray sanno profondere a piene mani lungo tutta la durata del disco; e
questo risultato senza bisogno di orchestre sinfoniche o di pomposi effetti
cinematografici a-là-Rhapsody, ma solo al gusto di un songwriting che
incorpora, oltre agli elementi power-prog succitati, anche dei bilanciatissimi
inserti neoclassical e symphonic, sempre usati nella giusta misura, mai
debordanti rispetto al filone conduttore.
Da rimarcare il tecnicissimo lavoro di Moni Bidin alla
batteria, che rifugge dal pattern a “pale di elicottero” così stra-abusato
nelle produzioni power/prog anni 2000, per impreziosire le canzoni con
partiture sempre varie ed eclettiche.
E qua mi fermo perché tendenzialmente sono contrario alle
recensioni track-by-track. Le restanti 4 canzoni della seconda metà di
“Pathosray” comunque non fanno che confermare il giudizio e la qualità della prima metà
del disco, sia da un punto di vista dell’esecuzione che da quello della
scrittura.
Vuoi per la proposta, vuoi per la comune provenienza
geografica, non posso fare a meno di accostare nella mente i Pathosray ai Rhapsody…e
pensare all’enorme successo internazionale avuto da quest’ultimi, che nel corso
della loro carriera sono riusciti a vendere più di un milione di copie dei loro dischi. Se
consideriamo quest’ultimo dato, possiamo dire che sì, probabilmente “noi italiani ce
l’abbiamo fatta”. Ma forse con la band “sbagliata”, mi verrebbe naturale chiedere...?
Lasciatevi illuminare dal raggio emozionale dei Pathosray…
Voto: 9
Canzone top: “Sorrow never dies”
Momento top: il chorus
di “Sorrow never dies”
Canzone flop: nessuna
Anno: 2007
Dati: 9 canzoni, 52
min.
Etichetta: Sensory rec.
Etichetta: Sensory rec.