16 anni fa esatti, il 1° maggio 1999, si toglieva la vita Tom Sedotschenko. Aveva 28 anni.
Tom non è sicuramente stato un personaggio di primo piano nell’universo metallico ma vorrei ricordarlo, nell’anniversario della sua dipartita, per la traccia artistica che comunque ha lasciato e che ha lasciato la sua incredibile voce.
Si, perchè Tom è stato un cantante davvero notevole, frontman, seppur per soli tre anni, della band tedesca EverEve.
Gli EverEve ebbero un inizio di carriera, rispetto a tante altre band, piuttosto fortunato. Infatti, dopo un paio di canoniche demo tra il ’94 e il ‘95, vennero messi subito sotto contratto dal colosso Nuclear Blast (mentre, tanto per dire, dei conterranei Parracide, band death/doom con la quale avevano condiviso sempre nel 1995 uno split-cd, si persero le tracce …)
La scena goth/doom metal europea viveva proprio in quegli anni un periodo di grande fervore, dato che da ogni parte del Vecchio Continente (dalla solita Gran Bretagna all’Italia, dalla Scandinavia tutta alla Grecia, dal Portogallo all’Olanda) arrivavano proposte interessanti con dischi che avrebbero fatto la storia del movimento (vedi nostro articolo sui Cemetary) e anche in Germania la scena aveva i suoi esponenti di spicco, Flowing Tears, Lacrimosa e Crematory su tutti.
Non era quindi facile per una giovane band emergere in maniera originale dal calderone. Vediamo come gli EverEve ci riuscirono.
Partiamo dal nome: oltre ad essere palindromo (e già questo è un elemento originale), il termine è in realtà una crasi dei vocaboli “forever” “evening” un significato così malinconico e triste (un “eterno imbrunire”), che anticipava quello che la musica avrebbe veicolato: una sensazione, un mood di disperata depressione che emergeva prepotente, insinuandosi gelidamente sottopelle nell’ottimo debut sulla lunga distanza del ’96: “Seasons”.
Una sensazione veicolata già dal titolo dell’opener song, “The bride wears black”, un titolo bellissimo e inquietante al tempo stesso (sembrava una premonizione di una sorta di flirt con la Morte…), che ha il compito di accoglierci all’interno di un viaggio che, attraverso diversi umori e stilemi, risulteràconcettualmente circolare: i dieci brani che lo compongono, legati tra di loro senza soluzione di continuità, attraversano difatti le quattro stagioni, iniziando e finendo in un inverno oscuro, triste e deprimente (“A winternight depression” è il titolo esemplificativo dell’ultima struggente canzone del disco).
Spostandoci sul versante musicale, gli EverEve raggiunsero l’obiettivo di distinguersi presentando un connubio davvero intrigante ed originale di dark-gothic, prog e partiture elettroniche. Una proposta dovuta al fatto che mastermind principale del combo era Michael Zeissl, tastierista sicuramente dotato che pose un’impronta netta all’album rendendolo, rispetto alle uscite gothic coeve, molto più freddo, strutturato, synth..etico, teutonico direi. La scelta di alternare il cantato in lingua inglese e quello in lingua madre rende ancora più evidente quanto detto sopra.
Su questa miscela sonora già di per se particolare, in cui sono nettamente privilegiati slow e mid-tempo, si erge la voce di Tom, incredibilmente capace di alternare registri puliti, con una voce molto calda e quasi, a parti parlate e/o recitate, ad altre ancora in scream e growl. Uno scream e un growl molto “comprensibile” e quadrato, lontano dagli stilemi black (nonostante, incomprensibilmente, molta critica li avesse definiti allora come band “melodic-Black”??!!).
La prima parte dell’album, mano a mano che dall’inverno ci spostiamo verso la primavera e l’estate, è caratterizzata da strutture più aperte, fluide e solari (bellissime “Phoenix – The Spring” e “The dancer – Under a summer sky”), nonostante il senso di profonda malinconia e depressione sia sempre presente; ma nel momento in cui il ciclo (della vita?) si sposta verso l’autunno e il nuovo inverno, la scrittura di Zeissl si fa più opprimente, dura, oscura e doomica (in particolare in “Autumn leaves” e “Untergehen und Auferstehen”), fino ad arrivare alle ultime disperanti parole dell’epilogo: E sepolta sotto un ghiaccio eterno / giace l’anima piangente…
“Seasons”, nonostante un senso di incompiuto dovuto all’indefinitezza della proposta musicale veicolata, venne accolto bene dalla critica perchè lasciava intravedere enormi potenzialità. Due anni dopo la band si confermò con “Stormbirds”, continuando sulla strada intrapresa sia concettualmente (soprattutto nelle lyrics) che musicalmente: abbiamo quindi ancora una complessità e varietà del songwriting notevolissima, ricca di spunti. I 14 pezzi che compongono il disco sono nuovamente collegati tra di loro, rivelandoci un sound più maturo e corposo, risultato ottenuto anche grazie alla partecipazione di quattro musucisti ospiti (due voci e due tastieristi) e si muovono con eleganza tra melodic-death, goticità elettronica, influenze sinfoniche e spirito progressivo. I protagonisti principali sono sempre loro due: Michael che col suo synth inonda il complesso tessuto delle trame musicali; e la voce di Tom che ci avvolge l’anima passando con sbalorditiva semplicità da un growl sofferto ad un sussurro, da un cantato commosso a un biascicare recitativo, da uno scream lancinante a clean vocals viscerali. Minimo comun denominatore del tutto è comunque la comunicatività e l’espressività della proposta, qualsiasi emozione voglia veicolare in un determinato momento: nostalgia, lutto, mortalità, disperazione…
Tom venne allontanato dal gruppo pochi mesi prima di togliersi la vita. Probabilmente c’erano stati parecchi dissapori tra lui e Zeissl sulla strada da intraprendere dopo “Stormbirds”. E, col senno di poi, si capì che passò la linea del tastierista, che era quella di dare una maggiore impronta electro-dark ai dischi successivi. Chissà che anche questo non abbia influito sulla definitiva scelta di Tom.
Ci rimangono per fortuna le sue splendide prove dietro al microfono, a testimonianza perenne di uno dei maggiori talenti europei nel panorama dei cantanti metal, talento incredibilmente sottovalutato.
A cura di Morningrise