I
MIGLIORI DIECI BRANI “LUNGHI” DEL METAL ESTREMO
8° CLASSIFICATO: “QUEEN OF WINTER, THRONED” (CRADLE OF FILTH)
Nel
1994 la mia vita musicale veniva sconvolta dall’uscita di
“The Principle of Evil Made Flesh”. Oggi, se confrontato
con i lavori appena successivi, il debutto dei Cradle of Filth
può sembrare a tratti acerbo, ma da un punto di vista di scrittura e
realizzazione, i brani in esso contenuti erano già eccellenti saggi
di quella suprema arte vampirica, fatta di metal
estremo e seducenti atmosfere gotiche, di cui gli inglesi furono gli
ideatori primi e i migliori interpreti, almeno nell’arco delle
prime quattro uscite discografiche.
Due
anni dopo, nel 1996, qualche mese prima che vedesse la luce il
capolavoro assoluto “Dusk and Her Embrace”, veniva
rilasciato il succulento EP “Vempire or Dark Faerytales
in Phallustein”, la cui copertina di sicuro non avrà lasciato
indifferente colui che passava davanti alla vetrina o fra gli
scaffali dei negozi di dischi. Fra rivisitazioni e brani inediti,
l’extended play conteneva sei episodi da annoverare fra i
momenti più ispirati di sempre dei Vampiri d’Albione. Fra
essi primeggiava “Queen of Winter, Throned”, la
composizione più lunga del lotto, “misurando” essa ben dieci
minuti e ventisette secondi: continua così la nostra classifica dei migliori brani lunghi del metal estremo!
Criticati
da molti perché ritenuti commerciali, adorati da altri (ed in
particolare dai patiti delle atmosfere romantiche e decadenti, fra
cui si registra una forte presenza femminile), i Cradle of Filth
seppero farsi notare e distinguersi fin dall’inizio per una
proposta indubbiamente originale, che incarnava varie tendenze del
periodo, non solo in campo musicale. Erano gli anni del “Dracula
di Bram Stocker” di Coppola (1992), del “Frankenstein di
Mary Shelley” di Branagh e del mediocre ma popolare “Intervista
col Vampiro” di Jordan (1994). Il metal, parimenti, iniziava a
bramare scenari gotici, forse un po’ patinati, ma meno truci e nel
complesso più rassicuranti. My Dying Bride, Type O
Negative, Moonspell da un lato, Cradle of Filth e tutto il
movimento black sinfonico che seguirà dall’altro,
rappresentavano le due facce della stessa medaglia. Il metal aveva
bisogno di “sensualità a corte”, vampire lesbiche,
procaci demonesse ed angeli stuprati? I Cradle of
Filth erano lì apposta per questo, pronti a servire su un piatto
d’argento tutte queste suggestioni, a partire dall’iconografia
fetish/pornografica per arrivare alle
atmosfere neoclassiche da colonna sonora di film horror,
passando per le liriche elaborate, pregne di una poesia grondante
macabro erotismo.
Tutta
la poetica dei Cradle trovò un’ulteriore estremizzazione in
“Vempire…” condensato di ispirazione incandescente per il combo
inglese. I Nostri erano al top della forma fisica, non si
risparmiarono, ritrassero immagini ancora più vivide; il loro sound
si fece massimalista, denso, stratificato; la loro musica divenne
eccessiva (prima ancora che estrema!), un’orgia blasfema che
oscillava continuamente fra cattivo gusto e sublimi visioni, tutto
governato con grande perizia e padronanza di mezzi.
L’insicurezza che aveva minato il comunque ambizioso debutto si
dissolse definitivamente, schiacciata da un approccio più sfrontato
ed irriverente, oserei dire arrogante: i Cradle capirono di valere e
di piacere, decisero pertanto di enfatizzare le loro caratteristiche
peculiari, che avrebbero presto suscitato così tanto amore ed odio
nel popolo metal. Contrasti più accentuati, parti veloci ancora
più veloci e parti lente ancore più lente, interventi
vocali femminili più presenti e la prestazione sopra le righe di
un onnipresente Dani Filth, che oramai si era lasciato tutti i
timori alle spalle. Il suo screaming acutissimo sparato a
mitraglia acquisiva forza e carisma, divenendo il trademark
inconfondibile della band, insieme ad una straordinaria versatilità
vocale fatta anche di corposi growl e pastose narrazioni.
“Even
a man who is pure in the heart
And speaks in prayer by night
May become a wolf when the wolf’s bane blooms
And the winter moon is bright”
Ed è
proprio il vocione narrante di Dani Filth ad aprire il brano, che
subito esplode tramutandosi nella bellissima “A Dream of Wolves
in the Snow”, presente nell’album precedente.
“Vempire…”
(o “V Empire…” che dir si voglia) è infatti anche un’opera
di rivisitazione. In scaletta troviamo il rifacimento del classico
“The Forest Whispers my Name” e l’edizione di un brano
della prima ora quale “Nocturnal Supremacy”. Mentre in
“Queen of Winter, Throned”, appunto, riconosciamo un estratto
dalla breve “A Dream of Wolves in the Snow” che in origine
era stata affidata al canto borioso dell’ospite Darren White.
A proposito di Darren White, l’oramai ex cantante degli Anathema
aveva nel frattempo deciso di fondare The Blood Divine,
chiamando a sé il batterista Was dei December Moon
(che in passato aveva militato nei Cradle) e portandosi via metà
della formazione presente in “The Principle…”, ossia i fratelli
Paul e Benjamin Ryan (chitarra e tastiera) e Paul
Allender (chitarra): cosa non da poco nell’economia del sound
di una band dedita al black sinfonico! In realtà la resa finale
non ne risentì oltremodo e già da questo secondo lavoro la band
mostrò un’altra sua peculiarità: quella di saper, non solo
sopravvivere ai continui rimpasti di formazione, ma anche continuare
a muoversi ad altissimi livelli.
In
sostituzione dei tre dimissionari troviamo Damien Gregori alle
tastiere e Stuart Anstis e Jared Demeter alle chitarre
(corrono voci che quest’ultimo neppure esista e che sia stato un
personaggio inventato dalla band), i quali non fanno rimpiangere i
loro predecessori. La band, del resto, trovava certezze non solo
nella voce poliedrica di Dani Filth, ma anche nel pulsare del basso
di Robin Graves (solida impalcatura dietro alla sfarzosa messa
in scena allestita dai Nostri) e nelle forti braccia del
formidabile Nicholas Barker (secondo il parere di chi scrive
fra i migliori “picchiatori” in ambito estremo), il quale
pilotava magistralmente i brani, facendosi garante della velocità,
della precisione e del dinamismo che li animavano.
Ma
torniamo alla nostra “Queen of Winter, Throned”. Avevamo lasciato
Dani fra lupi e il pianoforte a recitare il celebre “Oh listen
to them, the children of the night, what sweet music the make”
(citazione tratta direttamente da “Dracula” di Bram Stocker). La
quiete di un attimo, perché da quel momento il brano sarà una corsa
forsennata in cui ritmiche in continua mutazione, chitarre taglienti
e sontuosi tappeti di tastiere, saranno un tutt’uno, con sopra un
Dani che combina praticamente di tutto, tranne che cantare: vomita
growl putrefatti, si doppia continuamente accostando acuti
inarrivabili con raschiate vocali di ogni specie, spesso accompagnato
dalle voci stonate di donzelle che ben si calano nei panni delle
vampire battone che sono chiamate ad impersonare (da segnalare
la presenza, per la prima volta in formazione, del soprano Sarah
Jezebel Deva)!
La
penna di Dani è brillante, anche se i testi che da essa
scaturiscono sembrano più volti ad inanellare frasi ad effetto che
esprimere argomentazioni dotate di senso compiuto. Avevamo non a caso menzionato i Cradle quando abbiamo parlato dei Venom di “At War with Satan”: sia nel testo che nelle musiche, i Cradle
adottano la metodologia di Cronos e soci, procedendo per accumulo di
elementi, dispensando fendenti a destra e manca, allestendo in
definitiva un’orgia irresistibile di suoni e parole. Tanto che
potremmo sostenere che tutta l’idea dei Cradle è un po’ figlia
del modus operandi dei Venom (e non è un caso che Cronos sarà
chiamato a fare una comparsata nel successivo “Dusk and Her
Embrace”, definitiva consacrazione per la creatura di Dani
Filth). Ovviamente il paragone è lecito se si va a ricalibrare il
tutto in base alle eccelse capacità espresse dai musicisti che
ingrossano le fila dei Cradle of Filth, superiori al trio di
NewCastle sia sotto il profilo tecnico che sul piano della fantasia
compositiva.
Inutile
andare a perdersi nella miriade di dettagli che sa dispensare nel suo
tortuoso e coinvolgente percorso questo capolavoro targato
Cradle of Filth. Basti citare due frangenti: la pausa atmosferica
registrata a cavallo fra quarto e quinto minuto, repentinamente
seguita da una delle ripartenze più micidiali e violente della
carriera dei Cradle (a dimostrazione che quando i Nostri decidono di
premere sull’acceleratore non temono confronti con le realtà più
blasonate del panorama estremo). E gli ultimi minuti del brano, roba
da manuale, fra sospiri lussuriosi e trascinanti cavalcate
perfettamente orchestrate: un tour de force dove tutti danno
il meglio di sé, da Dani che si spolmona come un dannato, ai
funambolismi di tastiere e chitarre, passando per i cori di Sarah
Jezebel Deva e per la strabiliante performance dietro alle
pelli di Barker, che schiaffeggia i piatti fino allo sfinimento, come
se il suo strumento fosse un destriero da percuotere per farlo
correre più spedito.
L’adozione
di schemi articolati e dallo sviluppo imprevedibile era un'altra
delle caratteristiche che rendevano unici i Cradle of Filth, in un
contesto in cui il metal estremo era sì formato da musicisti dotati,
ma spesso interessati ad impiegare la propria tecnica per
massimizzare l’impatto sonoro, in poco tempo e in strutture
elementari o ripetitive. Questo, insieme a tutto quello che abbiamo
detto prima, permetterà ai Nostri di buttarsi in composizioni di
lunga durata, tanto che di brani fra i sette e gli otto minuti
abbonderà la discografia dei Cradle of Filth. Con la quarta uscita
discografica “Cruelty and the Beast”, del 1998, daranno
alla luce la loro composizione più lunga: quella “Bathory
Aria”, suite divisa in tre sezioni lunga più di undici
minuti, che costituirà l’ultima grande prova di una entità
artistica che in seguito perderò l’ispirazione, ma non quel
mestiere che gli permetterà di vivere di rendita per molti anni
ancora.
Si
pensi quel che si vuole, ma i Cradle of Filth dei loro primi quattro
album sono stati veramente un miracolo nel metal…pazienza per chi
si è fermato alle apparenze e ha continuato ad ascoltare i
Malevolent Creation!