Il 2015 si è concluso
con la morte di Lemmy e il 2016 si è aperto con una morte
altrettanto illustre, quella di David Bowie. Sebbene l'arte di
quest'ultimo abbia avuto pochi punti di contatto con il mondo del metal, non ci
sembrava giusto tacere su questo lutto tremendo che ha colpito l'universo del
rock.
Ma non sarà il nostro un
tributo alla carriera del Duca Bianco, che grazie alla sue doti
camaleontiche ha saputo innovare e dettare tendenze, e non solo a livello
musicale: una carriera strepitosa che sarebbe un insulto riassumere nello
spazio di un breve scritto come il nostro. Ci concentreremo invece sull'ultima
fase della sua carriera artistica, ed in particolare sul suo ultimissimo lavoro
“Blackstar”, uscito lo scorso 8 gennaio, appena due giorni prima
del suo decesso. Solo uno spunto, in verità, per affrontare un tema che
vorremmo ribaltare sul fronte metal: quello degli album che hanno duellato
con la Morte.
La produzione discografica di
Bowie nel nuovo millennio è stata quantitativamente povera. “Heathen”
(2002) e “Reality” (2003) rispettavano quel trend di uscite ravvicinate che
ha sempre scandito il fecondo cammino del cantante inglese, il quale non ha mai
amato lasciare troppo a lungo il mercato discografico.
Poi un malore durante un
concerto, un tour interrotto per problemi di salute, silenzio di tomba per
molti anni, troppi, dieci per l'esattezza. C’era chi aveva rinunciato a sperare
nel suo ritorno, quando, come un fulmine a ciel sereno, nel 2013 veniva
annunciata l'imminente uscita del nuovo album: quel “The Next Day” che seppe
nuovamente entusiasmare i fan, mostrandoci un Bowie in forma smagliante. La
bontà del prodotto scongiurava ogni sospetto di pensionamento e con gioia
apprendemmo, sul finire dell'anno scorso, che il giorno 8 gennaio 2016 (giorno
in cui peraltro il Nostro celebrava il suo sessantanovesimo compleanno!)
sarebbe uscito “Blackstar”. Che dire: confortati anche dai notevoli
singoli “Blackstar” e “Lazarus” (usciti rispettivamente a
novembre e a dicembre), si aveva l'impressione che Bowie si fosse lasciato alle
spalle tutti i problemi di salute e le incertezze artistiche, e che fosse
ritornato per rimanere!
Ed invece, appena due giorni
dopo l'uscita del full-lenght, la spiazzante notizia: David Bowie muore,
stroncato da un tumore che gli era stato diagnosticato diciotto mesi prima.
Al di là dello shock
del momento e dell’insopportabile senso di perdita che ne è conseguito, una
cosa c'è da ammettere: mai, nella storia della musica, dello spettacolo, della
cultura, si è assistito ad una uscita di scena del genere (forse
forse Monicelli, perché fa sempre un certo effetto l’idea di un
novantacinquenne che decide coscientemente di porre fine alla propria esistenza
gettandosi dalla finestra dell’ospedale in cui è ricoverato – ma questa è
un’altra storia…).
La resurrezione dopo il
silenzio, due lavori che mostravano un uomo ed un artista perfettamente in
salute, il coupe de theatre della morte appena due giorni dopo l’uscita
dell’album. Neanche i toni macabri che pervadevano l’album, le frasi profetiche
contenute nei singoli (solo oggi comprensibili nella loro eloquenza) avevano
fatto sospettare un epilogo del genere.
Ci ha così beffato ancora una
volta, quel maledetto Duca! Il trasgressivo e reverente Ziggy Stardust, il colto
e raffinato sperimentatore di “Heroes”, l’inafferrabile Bowie ci aveva infine
illuso, ancora una volta con un gioco di prestigio, per poi assestarci un
ultimo colpo micidiale. La spettacolarizzazione del proprio decesso
(tutto perfettamente sincronizzato per non essere stato calcolato) va a
conferire nuovi e fondamentali significati ad un album che, comunemente
apprezzato fin da subito, ha finito per godere di due giudizi opposti e
veritieri: le recensioni pubblicate prima del 10 gennaio vi riconoscono vitalità,
il segnale incoraggiante di una consolidata rinascita artistica; quelle
pubblicate successivamente, lo dipingono come il lucido epitaffio di un
grande artista già divorato internamente dalla Morte.
Per motivi di mere tempistiche,
dobbiamo appartenere inevitabilmente alla seconda schiera, al club della
Morte. Non è questa una recensione su “Blackstar”, ma due parole
vanno comunque spese. Sette tracce, poco più di quaranta minuti, materiale
scritto all’indomani dell’uscita di “The Next Day”, un paio di brani già editi
rimaneggiati per l’occasione: tutto farebbe pensare al prodotto confezionato in
fretta e furia prima che morte sopraggiungesse. “Blackstar”, album asciutto e
privo di inutili lungaggini, ha invece una sua identità e si accosta con
dignità al resto della portentosa discografia che lo precede.
Senza scadere
nell’autocelebrazione o nella dimensione del triste e scontato revival,
senza risultare eccessivamente autoreferenziale (c’è chi ha tirato in ballo
certe atmosfere isolazioniste di Radiohead e Scott Walker – a
dimostrazione di come l’artista inglese, oramai di casa a New York, affinasse
la sua ricerca stilistica anche in vecchiaia), l’ultimo Bowie è un Bowie sincero,
consapevole, disincantato, ma anche vitale, capace a quasi settant’anni suonati
di entusiasmarsi, di innamorarsi di un gruppo di giovani jazzisti visti suonare
in un club una sera e di volerli a tutti costi nel suo album (che freschezza,
che energia!). Attento ricercatore di suoni e splendido interprete, egli maneggia
la propria materia artistica ed emotiva oscillando con invidiabile equilibrio fra
episodi più sperimentali (che richiamano il periodo berlinese, ma anche
certe produzioni più recenti, come “1.Outside” e “Earthling”,
pervasi da un’elettronica irrequieta) e momenti più sfacciatamente pop (ma un
pop di classe, mai banale, come solo lui sapeva fare).
Dall’incubo sonoro di dieci
minuti rappresentato nella title-track (in pratica, due canzoni
in una, fra vocalizzi eterei, ritmiche jazz e sfregi di sax obliquo: un
capolavoro!), fino ai toni distensivi del gioiello posto in chiusura “I
Can’t Give Everyhing Away”, passando da struggenti ballate come “Lazarus”
e “Dollar Days”, dalle quali emerge quell’urgenza comunicativa, un po’
sopra le righe, che si respirava nel repertorio di inizio anni settanta: l’ultimo
album di Bowie parla di Bowie (tolte finalmente tutte le maschere e dismessi i
panni dei vari personaggi, il Bowie degli ultimi tre lustri ha sostanzialmente guadato
a se stesso in un’ottica più intima) ed è un regalo di Bowie ai suoi fan: un canto
del cigno che appone il sigillo definitivo ad un’epopea artistica che ha
segnato in maniera indelebile la storia della musica rock e non solo.
Pochi
altri artisti hanno saputo dialogare con la Morte come il Bowie
di “Blackstar”, fin dal titolo e dalla copertina, opera pervasa da suggestioni
esoteriche e da cupi umori da trapasso. Eppure il rock contempla nel suo vasto
panorama esempi di album che nascono nella Morte e divengono rappresentazione
della stessa. Non mi riferisco agli album che “raccontano” la Morte, che con la
Morte ci giocano, che si riferiscono alla Morte come metafora estrema delle
umani afflizioni (allora sì che la lista sarebbe lunga!). Mi riferisco, bensì,
ad opere forse indebolite, ma al tempo stesso rafforzate, dalla Morte, quella
vera, la Morte che è l’esito inevitabile di una malattia che infetta i loro
artefici, rassegnati a doversene andare, ad affrontare la Morte a viso nudo, ad
occhi aperti, fiaccati nel fisico, nello spirito e forse anche nella creatività.
Cito
solo due titoli che reputo altamente rappresentativi della categoria. Uno è “Innuendo”,
ultimo parto discografico dei Queen con Freddy Mercury ancora in vita, ove
primeggia una splendida “Show Must Go On”, autentico testamento
spirituale del cantante prossimo a cadere nella sua lotta contro l’AIDS.
L’altro è “American V: A Hundred Highways”, pubblicazione postuma del
grande Johnny Cash. Sono due esempi che rappresentano modi opposti per
affrontare e rappresentare la Fine: da un lato un Freddy Mercury ancora
vigoroso, che con grande energia, ma anche con spirito positivo, lanciava il
suo ultimo saluto ai suoi fan e al mondo intero. Dall’altro, la voce fioca e
tremolante di quel vecchio leggendario che, per amore della musica, fra un
barattolo di medicine che non servivano più ad un cazzo, il lutto tremendo
dell’amata moglie deceduta poco tempo prima, l’affetto degli amici e la
protezione dall’alto di un Dio benevolo (Cash era un fervente credente) decideva
di suonare e cantare fino ad un attimo prima della sua dipartita da questo
mondo, avvenuta nel 2003.
E
nel metal? Esistono album che hanno dovuto duellare con la Morte? Lo
scopriremo nella prossima puntata…