I
MIGLIORI DIECI BRANI “LUNGHI” DEL METAL ESTREMO
7° CLASSIFICATO: “THE LIGHT AT THE END OF THE WORLD” (MY DYING BRIDE)
Non
potevano certo mancare loro nella nostra classifica dei migliori brani lunghi: i My Dying Bride si affacciarono agli albori degli anni
novanta con una proposta intrigante (votata poi al successo) che vedeva
flirtare doom e death metal, il tutto inzuppato in atmosfere
gotiche che vedevano il violino come centro catalizzatore
dell’attenzione generale.
Suoni d’altri tempi, dimensioni atemporali che ci
riportavano ad una concezione romantica tipica di certa letteratura
inglese. Saggi dolenti ed estenuanti di un’interiorità straziata o tormentata:
questo ci offrivano i My Dying Bride, che non ponevano limiti alla loro
ricerca, indugiando, non temendo di prolungare il discorso oltre il dovuto,
imponendosi dunque come dei veri maestri in materia di brani ad alto
minutaggio!
Come
si è visto con i Cathedral, nel doom uscirsene con composizioni di
elevata durata è cosa assai comune. Rispetto ad altri, tuttavia, i My Dying
Bride si affermarono fin da subito con brani particolarmente lunghi: si pensi
ad una “Symphonaire Infernus et Spera Empyrium” (presente nel secondo EP
che porta il medesimo nome), che dura più di undici minuti. Non fu un caso sporadico,
considerato che nell'acerbo debutto “As the Flower Withers” i Nostri ci avrebbero
subito ribadito con “Return to the Beautiful”, quasi tredici minuti.
Che
dire, c’è veramente l’imbarazzo della scelta nel dover pescare un solo brano
nella discografia dei Nostri; dopo esserci fatti divorare dai dubbi, abbiamo
optato per “The Light at the End of the World”, ben dieci minuti e
trentacinque secondi, la quale però non appartiene al periodo d’oro della
carriera dei Nostri. Per questo, almeno di sfuggita, ci sentiamo di menzionare
il capolavoro “Turn Loose The Swans” (1993), probabilmente il parto
discografico più rappresentativo dell’intero filone gothic-doom.
In
esso avremmo potuto individuare almeno due brani fenomenali con le credenziali
per partecipare alla nostra rassegna. Uno è “The Crown of Sympathy”, superiore
ai dodici minuti e cantato interamente in pulito da un Aaron Stainthorpe
in stato di grazia. L'altro è la title-track (una manciata di secondi
sopra i dieci minuti), l'episodio più duro del lotto, quasi esclusivamente
cantato in growl: chitarre lacrimevoli s’intrecciano alle trame tessute
dal violino (incredibile, poi, l’apertura melodica quasi alla fine, in cui
Stainthrope torna ad utilizzare il suo bellissimo registro pulito), delineando
gli standard che chiunque in seguito avrebbe adottato nel doversi cimentare
con il genere. Due facce della stessa medaglia che ci consegnano un metal che
mai, prima di allora, era stato così dolente, disperato, ma anche nobile e
romantico.
I My
Dying Bride si scollegheranno dagli ultimi rigurgiti death già dal successivo “The
Angel and the Dark River” (1995), la cui opener, “The Cry of
Mankind”, misurava dodici minuti: seppur bellissima, abbiamo deciso di
scartarla in quanto fake, considerato che essa termina un po’ prima (gli
ultimi minuti sono infatti una coda di rumori ambientali quasi impercettibili).
C’è
da dire, del resto, che i brani lunghi dei My Dying Bride non sono brani in cui
accade di tutto, come invece abbiamo visto succedere nelle spericolate
esibizioni dei conterranei Cradle of Filth, boriosi dispensatori di
un’arte eccessiva e straripante di trovate kitsch. Strano, perché i My
Dying Bride disponevano di molti mezzi: un violino, un pianoforte, tastiere, ben
due chitarre, un cantante poliedrico e sovente voci femminili. Ma gli ingredienti
venivano dosati con il contagocce, come se infarcire eccessivamente la loro
musica costituisse un attentato a quella desolazione che essa intendeva
descrivere. Non che i Nostri non sapessero suonare, anzi: un drumming
tecnico ed articolato era indispensabile per riempire i vuoti dettati da una
lentezza esasperante; le chitarre non si prodigavano in assolo ed arpeggi, ma si
intrecciavano in riff frutto di una ispirata ricerca melodica, con dei
risultati inarrivabili per chiunque altro.
Laddove
i pezzi dei Paradise Lost erano continuamente illuminati dall’estro
chitarristico del talentuoso Gregor Mackintosh e gli Anathema già
nutrivano ambizioni progressive, i My Dying Bride adottavano un approccio minimale,
calibravano le loro energie, costruivano i loro brani adagiandoli su solide ed
intelligente strutture, evitando se possibile lo schema strofa/ritornello e
disponendo ogni elemento esattamente al suo posto. Questi almeno erano i primi
My Dying Bride, quelli della formazione storica che ancora comprendeva il
provvidenziale Martin Powell, diviso fra violino e tastiere (poi
passato alla causa dei Cradle of Filth), il secondo chitarrista Calvin
Robertshaw e l’ottimo batterista Rick Shia.
Cosa
successe in seguito è noto: seguirà una fase di consolidamento (“Like Gods
of the Sun”), un picco sperimentale (“34.788%...Complete”) e poi un
brusco voltafaccia con l’album della restaurazione “The Light at the End of
the World”, che aprirà una nuova stagione per la band inglese (seguiranno
gli ispirati “The Dreadful Hours” e “Songs of Darkness, Words of
Light”). Certo, i risultati di questo nuovo corso saranno confortanti, però,
almeno inizialmente, il repentino ritorno alle sonorità doom-death degli esordi
portò la medesima sensazione che si ha sentendo parlare quei politici che, dopo
aver cambiato casacca, espongono con sconcertante serenità l’esatto contrario di
quello che avevano sostenuto in passato.
Per
i My Dying Bride, che persero la loro anima sperimentale (Calvin Robertshaw,
uscito per dedicarsi alla famiglia), sembrò naturale tornare a fare quello che
gli riusciva meglio, inasprendo nuovamente le sonorità. Il salto indietro nel
tempo non fu però indolore: la formazione che trovammo in “The Light at the End
of the World” era la metà di quella che aveva dato alla luce i capolavori che
abbiamo appena menzionato. Presenti all’appello l’immancabile Aaron
Stainthorpe al microfono, Adrian Jackson al basso ed Andrew
Craighan a farsi carico di tutte le parti di chitarra. A dar loro man forte
troviamo l’ex Anathema Shaun Taylor-Steels dietro alle pelli. Niente
violino (come nell’album precedente), ben rimpiazzato dalle tronfie tastiere
del session Johnny Maudling. Se concepire i My Dying Bride senza questo
strumento, che fin da principio è stato il loro marchio caratterizzante, fu
inizialmente un dramma, c’è da dire che il sound non ne risentì
oltremodo, poggiando su solide basi: gli struggenti intrecci di chitarra del
sempre ottimo Craighan ed ovviamente l’inconfondibile ugola di Stainthorpe,
tornato al growl ma senza rinnegare i recenti trascorsi.
Al
pari di molti altri brani lunghi vergati My Dying Bride, in “The Light at the
End of the World” non accade molto, ma quel che accade è decisamente bello. C’è
da dire che era il 1999 e che, come molti titoli di quell’anno, la release
del doomster inglesi intendeva, nemmeno troppo velatamente, evocare
scenari apocalittici (si guardi, a tal riguardo, la serpeggiante “Edenbeast”,
sopra gli undici minuti, tanto per cambiare), scenari a cui la title-track
decideva di non rinunciare.
Aperta
da una manciata di secondi di tastiere, il brano si articola in pesanti
riff che si fondono sul perseverare delle tastiere (solenni
orchestrazioni, forse un’eco di violino), melodie fatte di tre note: ma che
note! La dipartita della seconda ascia non sembra influire, mentre dietro
alle pelli Taylor-Steels, come già succedeva con il suo valido predecessore, si
affanna, fra rullate improvvise e tintinnar di piatti, per conferire sfumature
ed accenti sempre nuovi ad un procedere che si fa ondivago, ipnotico, sconsolato,
inesorabile.
Molto
della buona riuscita del brano sta nelle liriche ispirate di
Stainthrope, che per l’occasione decide di settarsi esclusivamente sulla
dimensione del pulito. Elemento fondamentale della poetica dei My Dying Bride
sono da sempre i testi ricercati del loro cantante, paroliere di talento,
scaltro poeta debitore della migliore tradizione letteraria del suo
paese, dall’immancabile Shakespeare a tutta la corrente romantica e
decadentista. In “The Light at the End of the World” Stainthrope torna a
percuotere prepotentemente le corde del nostro animo raccontandoci la triste
storia di un uomo e della sua spietata condanna. Confinato nella più
lontana isola del Mondo, quell’uomo sconta la sua pena: un isolamento lungo
l’Eternità, un patto con il “Divino” che gli ha concesso di possedere, per una
sola notte ancora, la sua amata defunta. Ma a che prezzo! Un’intera
esistenza di solitudine nell’isola del Faro al di là della vastità
dell’oceano, in cambio di poche ore in cui poter stringere un’ultima volta fra
le proprie braccia il corpo della donna che aveva amato più di ogni altra cosa.
E se la vicenda vi pare banale, andatevi ad ascoltare il brano con il testo
sottomano: impossibile non emozionarsi innanzi al senso di estraneazione
che ci restituisce quella musica intrecciandosi con quelle parole, il lento
rifrangersi delle onde contro gli scogli, le notti senza fine. Il
lunghissimo testo viene reso da Stainthorpe alla sua maniera, alternando solenni
spoken a cantilene che la sua voce lacrimevole incarna senza enfasi, bensì
con grande sentimento ed immedesimazione nei fatti narrati.
Il
brano procede nei suoi magnetici dieci minuti senza mai annoiare, benché tutto
ci venga consegnato senza grandi variazioni: dalla batteria alle chitarre fuse
con le tastiere, passando per crooning sofferto di Stainthorpe, “The Light
at the End of the World” è un capolavoro di sfumature, la cui forza sta
nell’aver individuato un tema portante vincente, poi protratto con estrema
convinzione per tutta la durata del brano. Solo a tre quarti i Nostri si
azzardano ad imbastire un passaggio di maggior tensione, dove le chitarre incespicano,
per poi lasciarsi andare in accordi liberatori spinti e supportati dalle drammatiche
orchestrazioni.
Peccato
solo che in “The Light at the End of the World” non venga a manifestarsi
l’espressivo growl di Stainthorpe: espediente che in realtà sarebbe
stato fuori luogo considerato il mood malinconico e di profonda (ma non
rabbiosa) rassegnazione che pervade il brano. Quel growl, tuttavia, non
tarderà ad arrivare, avventandosi su di noi, nemmeno finito il brano, con
l’incipit ex abrupto della traccia successiva: la “The Fever Sea”
(quattro risicati minuti di audace death metal come gli inglesi non avevano mai
osato fare) che irrompe senza nemmeno dar modo all’ultimo accordo di terminare.
I My
Dying Bride ci dimostrano così che per confezionare brani sensazionali non c’è
bisogno di ricorrere a chissà quali trovate: nei My Dying Bride, da sempre, la
qualità non fa rima con quantità. Ispirazione,
classe, personalità sono per loro sufficienti!