I
MIGLIORI DIECI BRANI “LUNGHI” DEL METAL ESTREMO
9° CLASSIFICATO: “THE VOYAGE OF THE HOMELESS SAPIEN” (CATHEDRAL)
Doom Metal: esiste forse un genere che più di esso
faccia uso del brano di estesa durata? Riff di chitarra prolungati e
ritmiche lente richiedono tempi lunghi per spiegarsi adeguatamente.
Il doom è genere antico, possiamo dire che risale all’età
della pietra del metal. Perché se il metal ufficialmente vedeva la luce il
13 febbraio 1970 con l’irrompere del leggendario riff che apriva l’omonimo
album di debutto dei Black Sabbath, anche il doom, proprio in quel
momento, emetteva i primi vagiti. Heavy metal e doom presero poi strade diverse,
da un lato i protagonisti della New Wave of British Heavy Metal,
dall’altro sempre i Black Sabbath a fare da oscuri cerimonieri. Ma se vi è
stata una band capace di riscrivere le regole del doom, quella è stata la band
di Lee Dorrian e Garry Gennings: i Cathedral.
“Forest
of Equilibrium”, anno 1991, s’impose sul mercato discografico con la
grazia di un pachiderma ancestrale: cinquantaquattro asfissianti minuti per sole
sette tracce. I Cathedral se ne intendevano di pezzi lunghi, ma questa,
più che una precisa volontà, era quasi un’inevitabile conseguenza
dell’equazione pesantezza + lentezza = lunghezza. Negli anni successivi arriveranno
il funeral doom, il depressive black metal, il drone-ambient,
ma i Cathedral furono i primi a tirare per davvero la corda.
A proposito di doom e drone-ambient: nel 2002 lo
stesso Dorrian, assieme ai Sunn O)))
e a Justin Greaves (Iron Monkey, Electric Wizard, Crippled Black
Phoenix), sotto il marchio Teeth of Lions Rule the Divine sfornavano “Rampton”
(tre tracce, rispettivamente di 29:25, 7:01 e 17:53), opera terribilis che
gettava un ponte fra il doom classico e le derive droniche che prevarranno nel
nuovo millennio.
Abbiamo citato i Sunn O))), che certo di brani
lunghi se ne intendono. Il loro debutto “00Void” si componeva di
quattro brani di un quarto d’ora l’uno. Il successivo “Flight of the
Behemoth” contava cinque brani per più di cinquanta minuti di durata
complessiva. “White 1”
durava quasi un’ora e di brani ne aveva solo quattro; anche “White 2” non scherzava, con la sola
variante che di brani ne aveva tre e di minuti ne durava più di sessanta! E se
con “Black One” il minutaggio medio iniziava a calare, come possiamo non
menzionare la mitica “Bathory Erzsébet” di sedici minuti? Ricordiamo
solo che in essa non vi è traccia di batteria, ma solo di chitarre frastornarti
e delle grida soffocate di Malefic degli Xasthur rinchiuso per
l’occasione in una bara! E’ vero, i Sunn O))) ripresero in modo plateale l’idea
agli Earth di Dylan Carlson, che nel 1993 davano alle
stampe il caposaldo del genere: quell’”Earth 2” che con i suoi tre pezzi
superava i settantatre minuti. Se ne intenderanno gli Earth di brani lunghi?
Ma il metro che abbiamo scelto per distinguere il vino
dall’acqua è il carisma. E i Cathedral del loro debutto non sono stati solamente
gli autori del primo lavoro veramente estremo di un genere estremo quale è il doom,
ma anche dei grandi interpreti, al contrario dei primi Earth e dei Sunn
O))), entrambi più interessati al lato concettuale della faccenda.
Mica si frigge con l’acqua! Lee Dorrian veniva
dai Napalm Death, che paradossalmente facevano della velocità e della
brevità la propria cifra stilistica. Due modi diversi di intendere l’Estremo,
il grind e il doom. Ma sia per grind che per il doom continuare
ad esistere significava o ripetersi sui medesimi (insuperabili) standard, o
cambiare in qualche modo, magari facendo marcia indietro. In entrambi i casi si
optò per la seconda via. I Napalm Death, già orfani di Dorrian, con “Harmony
Corruption” abbandonarono il grind tout court dei primi due lavori
per approdare a strutture più complesse ed ordinate, più vicine al death metal. I
Cathedral, con il loro lavoro successivo (“The Ethereal Mirror”, del
1993), si diressero verso un sound più variegato, tributario del doom sabbathiano
quanto del rock progressivo e della psichedelia allucinogena degli anni
settanta. Svolta “freak” che si evinceva chiaramente dalle foto nelle quali i Nostri preferivano farsi immortalare a piedi nudi
seduti sui prati, piuttosto che abbracciare le croci di marmo nei cimiteri.
L’anno successivo, nel 1994, si ebbe la conferma che
la via intrapresa dai Cathedral sarebbe stata quella definitiva e non lo
sbandamento di un attimo. L’EP “Statik Majik” includeva il
singolo “Midnight Mountain” (già presente in “The Ethereal Mirror”) e tre
inediti, fra i quali una traccia molto particolare: “The Voyage of the Homeless
Sapien”, ben ventidue minuti e quarantadue secondi.
Va bene che il doom non teme le lunghe durate, ma
sorpassare i venti minuti è un arduo traguardo per chiunque, tenendo anche
conto che non erano ancora i tempi in cui nel Reame del Metallo andavano di
moda l'ambient e le derive dispersive del post-hardcore. E paradossalmente,
nonostante i Cathedral provenissero da un modus operandi che vedeva la
lunghezza come una diretta conseguenza della lentezza, nel brano che andiamo ad
analizzare non vi è dispersione. Divisa in otto sezioni, “The Voyage of the
Homeless Sapien” è classificabile come una suite, anche se a
legare le varie parti sono solamente le vicende narrate e non un più ampio
"discorso musicale".
Ma questo è facilmente comprensibile: sebbene i Nostri
guardassero continuamente alle band del progressive rock degli anni settanta,
essi provenivano pur sempre dal metal estremo e non avevano né mezzi né
sensibilità per costruire una suite progressiva in senso stretto.
“The Voyage of the Homeless Sapien” è piuttosto un susseguirsi
di ambientazioni in cui emergono prepotentemente, più che altrove, le
influenze artistiche dei Nostri. Tant'è che il brano sembra essere più un omaggio
alle lezioni impartite dai loro beniamini, piuttosto che una rielaborazione
compiuta delle stesse.
Che i Cathedral si rifacessero non solo agli imprescindibili
Black Sabbath, ma anche a tutta quella schiera di eminenze oscure che
del verbo doom fecero la loro bandiera (Candlemass, Saint Vitus, Obsessed, Pentagram, Solitude Aeternus
ecc.) non è certo un segreto (fra queste vanno inserite senz'altro anche realtà cult ignote ai più come Witchfinder General, Nigro Mantia, Count Raven e i nostrani Death
SS e Paul Chain, con cui peraltro Dorrian ha collaborato). Ma con "The Voyage of the Homeless Sapien" ad emergere vividamente é
anche tutta l’ammirazione nutrita nei confronti di quel sottobosco di band che
popolavano l’universo folk, acid e progressive degli anni settanta, di cui i Cathedral
sono da considerare dei profondi conoscitori. L'approccio è
dunque quello dell’amore/fanatismo e la rielaborazione artistica porta
con sé l’approccio appassionato di un Tim Burton o di un Quentin Tarantino, che elevano il grande cinema di serie B (sia esso
horror, fantascientifico o poliziottesco) ad arte suprema. Parimenti nei
Cathedral non c'è spocchia né snobismo, né ambizione: solo voglia di
confrontarsi e divertirsi con i generi musicali amati.
Se dunque la musica di Black Widow, High Tide, Atomic
Rooster, Blue Cheer, Cirith Ungol, ma anche le pazzie di Gong
e Frank Zappa, vanno a confluire nel sound dei Cathedreal, non
c’è da scordarsi che gli inglesi, appena due anni prima, dividevano il palco
con Carcass, Entombed e Confessor nel famigerato Gods of Grind Tour
(era il 1992). Logico pertanto che nelle movenze dei Nostri sopravvivesse il
marciume del metallo più pesante da cui essi risalivano.
All'epoca, inoltre, i Cathedral avevano ancora due chitarristi:
oltre a Jennings, trovavamo infatti in formazione Adam Lehan (in seguito
allontanato per problemi di droga insieme al batterista Mark Warthon).
La doppia chitarra, vedremo, non risulterà sempre indispensabile (in futuro i
Nostri ne faranno tranquillamente a meno), ma in certi passaggi, soprattutto
quelli più pesanti, viene ad emergere per l'ultima volta quell'humus vagamente
death metal che verrà in seguito abbandonato.
Il testo del brano si rivela una sequela di visioni
allucinogene che fanno lecitamente pensare che per la sua stesura Dorrian si
sia trovato in preda ai fumi di qualche sostanza non proprio legale. Immagini
coloratissime, derivate da quell'immaginario fanta-bucolico del rock
progressivo, si scontrano con le oscure evocazioni del mondo nero del
doom, di cui Dorrian è un interprete atipico. Estraneo alle vocalità
nasali à-la Ozzy che da sempre costituiscono lo standard per
il genere, ma anche lontano dal growl disarticolato utilizzato ai tempi
dei Napalm, Dorrian possiede una timbrica indefinibile e dà sfogo al suo estro
teatrale gettandosi in una performance bizzarra in cui la sua
voce si farà greve, forte, sfibrata, ma anche folle e delirante. Intorno a quelle
parole e a quella interpretazione, la band costruirà una baraonda di
sensazioni contrastanti che solo i Grandi sanno mettere insieme conferendo
al tutto un senso compiuto.
Partenza atmosferica a base di gabbiani, voce filtrata, organo
hammond e flautini svolazzanti (“I. Velvet Forest of Enchantment”).
Subito di seguito, tanto per compensare, una bella badilata di doom elefantiaco
della specie più tignosa (“II. Doomed Man”). Si parlava di Gong e di
Zappa non a caso: si guardi ai vocalizzi surreali che spezzano in modo beffardo
i riff cavalcanti di “III. Along the Tranquil Riverbanks”. Di metal
vischioso e mesti cori di morti si compone invece “IV. Drifting
Through Neptune's Veins”. Poi una bella dose di assolo fulminanti (ben tre
in stretta successione in “V. Rocket Launched Wizard”) ed infine, per
riprendere fiato, una stralunata ballata acustica con un Dorrian svagato e trallallerellante,
praticamente irriconoscibile (“VI. The Drifters Theme”). Virate prog con
tanto di mellotron lanciato a rotta di collo e flauto magico (“VII.
Lands End”) ed un ineffabile finalone a base di esoterismi doom (un
crescendo tortuoso di chitarra a cura del buon Jennings, con tanto di spudorato
richiamo all’immancabile “Iron Man”), con a seguire un bel monologo delirante
di vociaccia roca e sputacchiante su liturgie di organo da chiesa e
sciacquone del cesso tirato a fare da chiosa (“VIII. Stone Man Finale”).
Una tale versatilità rimarrà un’oasi nel deserto roccioso
del doom dei Cathedral. Già dal successivo “The Carnival Bizarre” (che
vedrà come organico quel dream-team composto da Dorrian/Jennnings/Dixon/Smee
che rappresenterà la migliore incarnazione di sempre della band) i Nostri cavalcheranno
verso i lidi di un sound granitico volto più al groove che alle
divagazioni progressive.
Solo sul finale di carriera i quattro proveranno a bissare i
fasti visionari di “The Voyage of the Homeless Sapien”, prima con la suite
“The Garden” (contenuta in “The Garden of Unearthly Delights”), brano
di 26:57 (che al suo interno contemplerà, fra le altre cose, voce femminile, violino ed
un’impronta spiccatamente folk), e poi con il bel doppio “The
Guessing Game”, che saprà esplorare sia il lato duro che quello sperimentale
della band di Coventry.
Prima dell’inevitabile chiusura del cerchio con l’ultimo e
definitivo capitolo: quel “The Last Spire”, epitaffio oscuro, sigillo grondante
mestizia che ricondurrà la Cattedrale alle sfibranti e funeree atmosfere
del debutto.