Classifiche:
ne abbiamo fatte per tutti i gusti, andando a scovare i temi più impensabili
per sviscerarli all'inverosimile, sempre con il solito movente: parlare di Heavy
Metal.
Adesso
deponiamo la lente di ingrandimento e la sostituiamo con un cannocchiale, che
opportunamente capovolgeremo come un crocifisso: senza tanti giri di parole né
giustificazioni, con una volontà di sintesi che non ci appartiene, stiliamo la lista
dei dieci migliori album metal di sempre, casomai qualche neofita ci
leggesse (si, caro bambino, se ti aggiri per la rete e cerchi una porta
per penetrare nel labirintico Reame del Metallo, sei nel posto giusto!).
Bene
così, dunque, ma prima un'ultima avvertenza: i dieci titoli selezionati sono stati disposti in ordine
cronologico, perché metterli in fila dal peggiore al migliore sarebbe stato
troppo doloroso anche per dei masochisti come noi.
Black
Sabbath: "Paranoid" (18 settembre 1970)
I
Black Sabbath sono una presenza indiscutibile in questa operazione: bisognava
solo capire quale album andasse pescato per meglio rappresentarli. Con il riff
che apriva il loro leggendario debutto qualche mese prima si compiva il battesimo
del metal, ma la nostra scelta ricade su questo secondo album che
inanella brani del calibro di "War Pigs", "Paranoid",
"Iron Man", "Electric Funeral", "Hand
of Doom": un campionario di riff seminali che Iommi
scodella con grande generosità, coadiuvato dal basso greve di Butler,
dalla batteria elefantiaca di Ward e dalla inconfondibile voce
cantilenante di Ozzy. Nessuno nel 1970 suonava in modo così pesante,
così oscuro, così "heavy", tanto che fra questi solchi troviamo già,
almeno in embrione, tutto o quasi il metal che verrà. In questa fucina
infernale viene forgiato dunque il linguaggio di un nuovo genere e, nondimeno,
da Birmingham verrà spianata una via che
presto si biforcherà: da un lato l'heavy metal nella sua accezione
classica, destinato a sradicarsi ed emanciparsi da quel blues che ancora
infestava l'hard-rock (per poi diramarsi nelle sue varie declinazioni: epic,
power, thrash ecc.); dall'altro il doom, sotto genere del
metal stesso, che a sua volta saprà prolungarsi, dai toni freak
tipicamente seventies, fino ai lidi dell'estremo, passando dallo stoner,
dal gothic, dal post-hardcore e pervenendo al drone-metal
dei giorni nostri.
Motorhead: "Overkill" (24 marzo 1979)
Sicuramente Lemmy non sarebbe stato d'accordo con la nostra decisione di includerlo fra questi dieci nomi, considerato il fatto che si è sempre rifiutato di apporre l'etichetta "Metal" alla sua musica. Rimane tuttavia innegabile il ruolo che i Motorhead hanno giocato sia nella modulazione del metal nelle sua forma più classica, che negli sviluppi successivi (si pensi alla genesi del thrash e giù a cascata a tutto il resto del panorama estremo). Optiamo dunque per uno degli album più tosti della loro sterminata produzione discografica: "Overkill", il cui titolo (il temine "Overkill" indica "la capacità di un arsenale atomico di distruggere un numero assai più elevato di nemici di quanto sarebbe necessario per una vittoria militare") è eloquente nel descrivere la potenza espressa dal trio. La title-track, con le sue varie ripartenze nel finale, è fra i primi esempi di canzone che si avvale di doppia-cassa dall'inizio alla fine. Ma anche pezzi come "Stay Clean", "Capricorn", "No Class", "Damage Case" e "Metropolis" (tutti destinati a diventare dei classici) non scherzano quanto a velocità, irriverenza e forza d'urto. La voce grattata di Lemmy (sorta di growl ante litteram), il suo basso muscolare, i riff schietti di Eddie Clarke, il battere forsennato di Phil Taylor sono gli ingredienti di questo grezzo ed efficace miscuglio fra punk e rock'n'roll: prima, dentro, di lato, oltre il metal.
Motorhead: "Overkill" (24 marzo 1979)
Sicuramente Lemmy non sarebbe stato d'accordo con la nostra decisione di includerlo fra questi dieci nomi, considerato il fatto che si è sempre rifiutato di apporre l'etichetta "Metal" alla sua musica. Rimane tuttavia innegabile il ruolo che i Motorhead hanno giocato sia nella modulazione del metal nelle sua forma più classica, che negli sviluppi successivi (si pensi alla genesi del thrash e giù a cascata a tutto il resto del panorama estremo). Optiamo dunque per uno degli album più tosti della loro sterminata produzione discografica: "Overkill", il cui titolo (il temine "Overkill" indica "la capacità di un arsenale atomico di distruggere un numero assai più elevato di nemici di quanto sarebbe necessario per una vittoria militare") è eloquente nel descrivere la potenza espressa dal trio. La title-track, con le sue varie ripartenze nel finale, è fra i primi esempi di canzone che si avvale di doppia-cassa dall'inizio alla fine. Ma anche pezzi come "Stay Clean", "Capricorn", "No Class", "Damage Case" e "Metropolis" (tutti destinati a diventare dei classici) non scherzano quanto a velocità, irriverenza e forza d'urto. La voce grattata di Lemmy (sorta di growl ante litteram), il suo basso muscolare, i riff schietti di Eddie Clarke, il battere forsennato di Phil Taylor sono gli ingredienti di questo grezzo ed efficace miscuglio fra punk e rock'n'roll: prima, dentro, di lato, oltre il metal.
Iron
Maiden: "The Number of the Beast" (22 marzo 1982)
L'ingresso
in formazione di Bruce Dickinson comporta un drastico cambio di rotta
per gli Iron Maiden, le cui vedute musicali si amplieranno di pari passo
con l'estensione vocale del nuovo carismatico vocalist. I fantasmi
punk dell'era DiAnno vengono rinchiusi in soffitta, per portarsi su
un piano più complesso, fluido ed elegante: una dimensione in cui si finisce
per recuperare certi spunti hard-rock e prog che fanno
sicuramente parte del DNA di Steve Harris e soci. Brani come “Children
of the Damned”, “The Prisoner”, “22, Acacia Avenue”, la
title-track, "Run to the Hills" e "Hallowed Be
Thy Name" (quest'ultima una mini-suite dall'inizio evocativo
che si trasformerà da metà in poi in una travolgente cavalcata, con l'acuto
infinito di Dickinson a fare da collante fra le due parti) parlano chiaro e ben
esplicano le coordinate su cui si svilupperà il suono della Vergine nel
corso dei suoi gloriosi anni ottanta: le irresistibili terzine di basso di
Harris, i duelli di chitarra di Murray e Smith e i ritornelli
leggendari di Dickinson. Un nuovo standard verrà definito per i metal,
elevando gli Iron Maiden allo status di Leggenda Vivente, nonché di band
fra le più ascoltate, amate ed influenti di sempre.
Metallica:
"Master of Puppets" (3 marzo 1986)
Qualche
anno prima era esploso il fenomeno thrash che spostò l'attenzione
dall'Inghilterra all'altra parte dell'oceano, negli Stati Uniti per
l'esattezza. I Metallica furono senz'altro dei protagonisti, se non I
Protagonisti, di questa nuova ondata di band, grazie ad album epocali come
"Kill ‘Em All" (1983) e "Ride the Lightning"
(1984). Con quest’ultimo in particolare, pur non rinunciando alla furia
originaria, i Nostri avevano virato verso un approccio più ragionato che
permettesse loro di confezionare una proposta più varia, curata nei dettagli ed
indulgente nei confronti della melodia. Il suo successore, "Master of
Puppets", porta a compimento questo percorso, mettendo in fila una
serie di brani fenomenali, sospesi fra violenza e grandi soluzioni stilistiche,
fra cui vanno doverosamente citati "Battery" (micidiale opener
con tanto di intro arpeggiato), la title-track (più di otto
minuti di dinamismo ed imprevisti cambi di scenario), "Welcome Home
(Sanitarium)" (struggente ballad con assolo torrenziale nel
finale), "Orion" (maestosa strumentale con toni da opera wagneriana)
e la violenta "Damage, Inc" (altro classico riproposto ancora
oggi dal vivo). James, Lars, Kirk e Cliff danno del
tu ai propri strumenti e dimostrano che si può essere massicci, rocciosi,
imponenti ed al tempo stesso creativi, ricchi di inventiva e dotati di gran
gusto. Un metal, questo, che rasenta la perfezione.
Slayer:
"Reign in Blood" (7 ottobre 1986)
Non
è a caso che il 1986 viene considerato l'anno d'oro del thrash: qualche
mese più tardi dell'uscita di "Master of Puppets" e di "Peace
Sells...But Who's Buying?" dei Megadeth, esce anche un'altra
pietra miliare del genere, quel "Reign in Blood" che
costituirà il punto zero di tutto il metal estremo, dal death
al black, passando per il grind. Tutti dovranno pagare dazio a
questi micidiali ventinove minuti, condensato di violenza ed attrazione
morbosa per il Male in tutte le sue forme, come nessuno era riuscito a
sintetizzare prima di allora. I quattro compiono una rigorosa opera di
sottrazione, togliendo dal metal tutti gli orpelli inutili, e lo fanno con
grande lucidità e professionalità: King ed Hanneman ci vanno giù
di brutto fra riff di granito ed assolo caotici, Lombardo
praticamente reinventa la batteria, Araya ci butta il carico da novanta
urlando come un indemoniato dall'inizio alla fine. Il risultato sono brani
della levatura di "Angel of Death", "Altar of
Sacrifice", "Jesus Saves", "Post Mortem"
e "Raining in Blood", ancora oggi fonti inesauribili di
ispirazione per chiunque si voglia cimentare in sonorità estreme.
Queensryche:
"Operation: Mindcrime" (2 maggio 1988)
Altro
album epocale, quello dei cinque di Seattle: un capolavoro senza tempo che apre
le porte al metal progressivo e al metal intelligente in
generale. Paradossalmente i Nostri non suonano progressive in senso stretto, in
quanto amano muoversi nei confini del formato canzone, ma la perizia tecnica
(ottima la preparazione dell'ensemble, con la chitarra di uno strepitoso
DeGarmo in prima fila) e la profonda ispirazione permette loro di
confezionare uno dei concept album più avvincenti dell'intera epopea
metallica: sorta di "The Wall" in salsa metal, "Operation:
Mindcrime" offre atmosfere cupe e drammatiche, toccando le sfere della
politica, della società, della psicologia, dell'amore, il tutto narrato dalla
sofferta e teatrale interpretazione di un grandissimo Geoff Tate.
Helloween: "Keeper of the Seven
Keys - part II" (29 agosto 1988)
Seconda
parte di una doppietta di album che faranno la storia del power metal.
Abbiamo scelto questo secondo tomo perché le composizioni ci sono sembrate più
fluide e mature. E poi fra esse svetta la mitica "Keeper of the Seven Keys", suite di oltre tredici minuti che innalza a perfezione
tutto l'arsenale espressivo a disposizione dei cinque tedeschi: atmosfere
fantasy, incedere epico, velocità, melodie irresistibili e ritornelli plateali
che è impossibile non canticchiare con un gran sorriso stampato sulla bocca. Hansen
e Weikath si confermano autori incredibili, nonché chitarristi
dall'inventiva inesauribile, mentre la voce acutissima di Michael-effetto
ambulanza-Kiske diverrà presto lo standard per i cantanti del
power metal che verrà.
Manowar:
"Kings of Metal" (18 novembre 1988)
Non
è forse questo il miglior album dell'heavy metal, e sicuramente i Manowar
non sono la miglior band di questa terra, considerato che metà della loro fama
si lega all'attitudine, agli addominali, ai perizomi, alle motociclette ed alla
lotta contro whimp, poser e false metal in generale. Dite
quello che volete, ma non potevano mancare i Kings of Metal, icona
dell'intero genere, e li andiamo a rappresentare con questa opera che per
alcuni è il loro capolavoro formale, per altri una bieca rinuncia alla genuina
rozzezza dei primi album, con i quali i quattro tamarroni avevano
forgiato l'epic metal a suon di suoni rozzi, acuti strappa-tonsille
(quelli di Eric Adams) e basso frastornante suonato a mo' di chitarra
(ne sa qualcosa Joey DeMaio). "Kings of Metal", che
prosegue il cammino di "addolcimento" intrapreso con il precedente
"Fighting the World", contempla sia gli immancabili brani
battaglieri dai ritornelloni anthemici (e ve ne sono molti ed
imperdibili: l'opener "Wheels of Fire", con tanto di sgassate
di motociclette in apertura; la title-track, brano
auto-celebrativo per eccellenza per i Re del Metallo; "Hail and
Kill", epico vessillo con coro da stadio annesso, spesso innalzato
come gran finale ai loro concerti), sia episodi atmosferici e
pomposamente infarciti di tastiere ed orchestrazioni: parliamo della power
ballad "Heart of Steel" e dell'evocativa, per sola voce,
orchestra e cori, "The Crown and the Ring (Lament of the Kings)".
O li si ama o li si odia: con i Manowar non esistono vie di mezzo!
Judas
Priest: "Painkiller" (3 settembre 1990)
Dopo
i Black Sabbath, ma prima degli Iron Maiden, c'erano i Judas
Priest. Opere come "British Steel" (1980), "Screaming
for Vengeance" (1982) e "Defenders of the Faith"
(1984) scolpirono il nome della band inglese sulle Sacre Tavole di Pietra
dell'Heavy Metal, ma alla fine abbiamo optato per il granitico "Painkiller",
che riportò in auge i Nostri dopo le deboli prove di fine decade ottanta. Basta
l'incredibile title-track a descrivere lo stato delle cose: il drumming
potentissimo del nuovo Scott Travis è la classica marcia in più per dei
veterani come i Judas, che possono fare affidamento sul loro consueto
armamentario a base di riff taglienti ed assolo prodigiosi
dell'accoppiata Tipton/Downing e delle rasoiate della voce affilata del Metal
God Rob Halford. Una Leggenda al top della forma,
dell'ispirazione e delle intenzioni.
Megadeth:
"Rust in Peace" (24 settembre 1990)
MegaDave,
dopo la fuoriuscita dai Metallica, s'impose con i suoi Megadeth,
forte delle sue doti di geniale songwriter, ma faticò a trovare un
equilibrio, sia artistico che a livello di formazione, fin quando non accolse
nella sua squadra i virtuosi Friedman e Menza, a fare compagnia
al fedele Ellefson: con questa formazione i Megadeth trovano la
quadratura del cerchio. Il thrash dei Nostri si elevava così ad una complessità
strumentale che non trova eguali nell'intero genere (si parlerà di technical
thrash metal), articolandosi in brani tortuosi, dall'incedere
imprevedibile, che rifuggono il formato canzone senza indugiare in leziosità
progressive: le scale neoclassiche di Friedman e le ritmiche in continua
evoluzione di Menza si amalgamano in maniera spettacolare al chitarrismo spigoloso
del mastermind, la cui voce corrosiva secerne bile e getta secchiate di
acido nelle orecchie dell’ascoltatore, proiettando oscure profezie su una
musica tanto cervellotica quanto dotata di un'anima. E in questo prodigioso
cozzar di energie e talenti, nascono brani-capolavori come "Holy
Wars...The Punishment Due", "Hangar 18", "Lucretia"
e "Tornado of Souls". Mica cazzi.
Con
l'approdo agli anni novanta, concludiamo simbolicamente la nostra top ten: l'anno
successivo, il 1991, sarà l'anno di uscita di "Nevermind" dei Nirvana e "Ten" dei Pearl Jam...e niente sarà più come prima. In un contesto dissestato in cui i suoi stilemi classici verranno seriamente minacciati e duramente colpiti dal
ciclone grunge, il metal riuscirà comunque a sopravvivere, ma per esso una nuova
Era avrà inizio...