Si
festeggia oggi 11 ottobre 2016 il trentesimo compleanno di "Somewhere
in Time", un'opera che certo non ha bisogno di presentazioni e che,
come spesso (giustamente) si dice, dovrebbe far parte della collezione di ogni
cultore del metallo che si rispetti.
Non
è questa una recensione, perché si sa già tutto di questa leggendaria pagina
del Gran Libro del Metal Tutto, e sebbene sia sempre un piacere scrivere
e leggere di Steve Harris e soci, vorremmo abbandonarci ai liberi
pensieri e magari soffermarci su un dettaglio che ci servirà (come è nostro
uso) per fare un discorso di più ampio respiro.
Non
posso dire di essere fra coloro che erano presenti al momento dell'uscita
dell'album (l’11 ottobre 1986, appunto), perché per ragioni anagrafiche
ebbi modo di iniziare ad ascoltare metal solo qualche anno dopo. Ma ricordo che
quando (come ogni metallaro alle prime armi) ricostruii la discografia dei
Maiden, per me "Somewhere in Time", confrontandolo con il resto della
discografia della decade ottantiana, rappresentava la fotografia della band al top
della maturità. Gli Iron dei ritornelli memorabili, gli Iron
delle melodie che facevano la Storia, gli Iron coesi del basso
trottante di Harris, dei duelli epici di Murray/Smith, del tiro
micidiale di bacchette e cassa di McBrain e dalla voce autorevole di Dickinson
“tutti per uno, uno per tutti”. Mentre invece lavori ben più blasonati
come "Piece of Mind" e "Powerslave" mi
facevano a tratti faticare.
Sarebbe
l'ora infatti di fare un po' di revisionismo storico: gli Iron (i Grandi
Iron) devono il loro successo a tanti fattori: alle copertine, ad Eddie,
al marketing, alle trascinanti esibizioni dal vivo ed ovviamente agli
innegabili meriti artistici, in primis quello di aver scritto una bella
carrellata di brani leggendari. Brani, non album, perché se si va a vedere
meglio, accanto a classici immortali troviamo brani un po' tiepidini
che, se non possiamo considerare brutti, non sono lontanamente all'altezza di
quelli selezionati per essere riproposti dal vivo.
Da
qui la potenza dei concerti degli Iron: tanti, tantissimi brani superlativi che
messi in fila danno un'immagine falsata della carriera degli Iron, che
comprende anche molti episodi trascurabili. Un caso su tutti: "Fear of
the Dark", che, tolta la superba title-track, non ha molto alto
da offrire. Ma nemmeno un album storico come "Powerslave" è
impeccabile: "Aces High", "2 Minutes to Midnight",
"Powerslave", "The Rime of the Ancient Mariner"
sono brani di tale levatura che già da soli bastano per fare la pietra miliare.
Ma la parte centrale dell'album è a mio parere fiacca, con brani onesti ma
asettici, che sento privi di sentimento, tanto che l'ascolto di
"Powerslave" nella sua interezza mi mette sempre un po' di angoscia.
Sarò la sabbia del deserto o i misteri dell’Antico Egitto di cui non me ne è
mai fregato un cazzo.
"Somewhere
in Time", di contro, mi faceva "sentire a casa", ma soprattutto
non mi faceva questo effetto "altalena": di esso mi piacciono tutti
ed otto i brani, i quali non solo sono illuminati da temi portanti e ritornelli
da urlo (cito "Wasted Years" e chiudo il discorso), ma che
emergono anche più elaborati e pensati che in precedenza, con porzioni
strumentali formidabili ed una atmosfera nel complesso cupa che conferisce
ulteriore spessore alle composizioni: questo mood malinconico accomuna i
brani, che assieme divengono un'esperienza unica ed omogenea, e non una sequela
di episodi a sé stanti come era successo negli album precedenti (un approccio
che troverà ulteriore applicazione nel successivo semi-concept "Seventh Son of a Seventh Son"). Bruce Dickinson, stremato dal
leggendario "World Slavery Tour" (da cui verrà tratto il
mitico "Live After Death"), si disse non soddisfatto dei
risultati raggiunti dietro al microfono, ma se penso ai ritornelli di "Caugh
Somewhere in Time" e "Alexander the Great", dove il
Nostro arriva alle stelle, mi chiedo cosa di più egli poteva pretendere dalle
sue corde vocali.
Ma
il punto è un altro: al momento della sua uscita "Somewhere in Time"
non fu immune da critiche. Ripeto: gli Iron venivano da un periodo di
ascesa travolgente, cinque album cinque pietre miliari del metal, il
tutto sublimato dal grandioso tour di supporto a "Powerslave".
Eppure il fetido metallaro, avido e mai pago delle prodezze dei suoi
beniamini, era pronto al varco a batter cassa. Il fetido metallaro, se non
provocato, non cerca lo scontro, ma è il classico cliente pignolo che, pur
innanzi al fornitore fidelizzato che ha fornito un servizio impeccabile per
anni, è pronto ad infuocarsi per un nonnulla e mettere tutto in discussione.
E
indovinate un po' per cosa il fetido metallaro si irritò? Per l'impiego di guitar-synth. Una scelta che anzitutto si allineava all'immaginario sci-fi di fondo, ben introdotto dalla bella copertina con un Eddie in versione cyber-punk e poi ribadito nelle foto interne che ritraevano i musicisti in vesti futuriste (incassati in impobabili veicoli così poco credibili che sembravano fatti con il Cuki). Una scelta che era parimenti dettata da una legittima (quanto timida) necessità di rinnovamento per una band
che, già icona, arrivava alla sua sesta prova in studio, stretta fra l'incudine
del dover difendere il proprio marchio e il martello del dover
introdurre elementi di novità per tenere alta l'attenzione su di sé (in anni in
cui cambiare era fisiologico e non dettato dalla compulsività come oggi).
Non
voglio mancare di rispetto a nessuno, ma anche calandomi nei panni consunti del
cisposo metallaro dell'epoca, secondo me c'è da essere proprio scemi a muovere
una critica di quel genere ad un album come "Somewhere in Time".
L'unica scusante può essere nel fatto che il metal veniva da una virtuosa fase
di definizione identitaria in cui esso cercava strenuamente di differenziarsi
dall'hard-rock e dal progressive da cui era originato. Band come Deep
Purple, Uriah Heep e Rainbow facevano un uso massiccio di
tastiere, e nessuno poteva rimproverare loro di non avere l'integrità e la
giusta attitudine, ma evidentemente il metal aveva bisogno di spingersi oltre,
schivare le trappole dell'orecchiabilità e dell'indulgenza, evitare le
concessioni a sonorità giudicate troppo "soft" o ricercate. E
probabilmente gli Iron, che incarnavano la quintessenza dell'heavy metal, erano
tenuti più di tutti a mantenere dritta la barra del timone e dare il buon
esempio. Fu dunque una eresia ricorrere ad uno strumento che non fosse
il classico armamentario del metal chitarra-basso-batteria.
Queste
sono le spiegazioni che mi vengono in mente, ma non me la sento di giustificare
una tale chiusura mentale, anche perché queste benedette guitar-synth
nell'album avevano un ruolo davvero marginale: un contorno che non stravolgeva
l'ortodossia metallica né la formula stra-collaudata dei cinque inglesi, con in
mezzo un Adrian Smith in letterale stato di grazia, la cui penna
virtuosa avrebbe dovuto mettere a tacere perlomeno i sani di mente. Insomma: si
potevano dire tante cose sul conto di “Somewhere in Time”, ma non che fosse un album
sperimentale!
A
proposito di album veramente sperimentali, qualche anno più tardi, nel 1993 per
l'esattezza, in un panorama totalmente diverso, sarebbe uscito un album che
avrebbe fatto un vasto impiego di guitar-synth, questa volta sì atto a
stravolgere il sound della band: parlo dei Pestilence che con il
loro "Spheres" approdarono ad una forma sperimentale di death
metal che manteneva pochi punti di contatto con il genere nella sua accezione
più classica. In questa sede fu fatto un uso talmente raffinato dello strumento
che i Nostri si videro costretti a scrivere nel booklet "no
keyboards in this album", lasciandoci tutti sbalorditi. La ricerca di Mameli
e Uterwijk si spinse cosi oltre che fra quegli strabilianti effetti (i
Nostri ricorsero anche alle tecniche impiegate nel jazz e nella fusion) era
veramente difficile rinvenire il tipico suono della chitarra.
Ma
per gli Iron dell'86 questo stravolgimento non si verificò, i brani
continuavano a galoppare con il basso d'acciaio di Harris, ad avere ritornelli
irresistibili, chitarre adrenaliniche e soprattutto a trasudare da ogni poro
una carica heavy metal che non poteva essere negata.
Meno
male che la storia renderà onore a questo bellissimo album, sospinto verso la
gloria anche dal declino artistico che da lì a poco avrebbe investito la band.
"Somewhere in Time" verrà quindi assolto dalla Storia e con il
successivo "The Seventh Son of a Seventh Son" (anch'esso non scevro
da critiche, questa volta per l'utilizzo delle tastiere) verrà accolto nell'Olimpo
degli album storici degli Iron Maiden e quindi del genere intero. E ad un
brano come "Wasted Years", al suo trentesimo anno di vita, spetterà
di chiudere niente meno che le serate del "The Book of Souls World Tour"
di questo anno.
Onore
al merito.