Sotto
la superficie di Metal Mirror c'è un universo tempestoso mosso da un
caos tremendo che cerchiamo di dominare con tutte le nostre energie
intellettuali. I flutti di parole che via via affiorano in modo incontrollato
sono solamente la conseguenza delle falle che l'eccessiva pressione che questo
universo turbolento (che poi sarebbe il metal nelle sue tre dimensioni
temporali: passato, presente e futuro) esercita contro il nostro controllo.
Classifiche,
retrospettive, riflessioni, revisioni, riletture: ricorriamo a tutto quanto
abbiamo a disposizione per mettere un po' di ordine in questo parapiglia. Ma
cerchiamo di scattare anche fotografie al presente per capire dove
stiamo andando.
In
particolare quest'anno ci siamo chiesti con insistenza quali potessero essere
le sorti del nostro genere preferito in un periodo di incertezze, messaggi poco
chiari e davvero pochi colpi di scena. Molti sono stati i temi da noi
dibattuti, uno su tutti quello della dialettica fra innovazione e
contaminazione.
Molte
delle nostre riflessioni si rispecchiano nell'ascolto dell'ultimo album dei
finlandesi Oranssi Pazuzu, giunti quest'anno alla loro quarto lavoro in
studio: lavoro che segna un'altra tacca nell'evoluzione stilistica di questi
cinque ragazzi e che si candida indubbiamente fra i migliori album dell'anno in
campo estremo.
Punto
primo: ha senso parlare ancora di distinzione fra classico ed estremo laddove
le migliori energie creative si sono spostate entro i confini trasversali del neo-
e del post-? Questo è un dato di fatto: sette uscite degne di
nota su dieci sono oggi firmate o da gruppi progressivi (Dream Theater, Fates
Warning ecc.) o da gruppi neo-progressivi (Haken, Opeth ecc.)
o da geniali estrinsecazioni dell'estremo, come Novembre o questi
Oranssi Pazuzu. L'album-classico-bello-bello-bello ha ancora da uscire
in questo 2016: il presente non passa dunque dalla canzone, dal ritornello
memorabile e soprattutto dai vecchi nomi (vabbe', aspettiamo l'ultimo dei
Metallica per dirlo - risate in sottofondo). E tutto questo nel bel
mezzo dei festeggiamenti dei trent'anni di carriera dei Neurosis e
nell'attesa millenaria che i Tool pubblichino qualcosa di nuovo (ma qui
si parla di tempi che son più vicini al Ciclo delle Fondazioni di Asimov
che ai nostri giorni).
Oranssi
Pazuzu, “Värähtelijä”, 2016. Partiamo da un dato di fatto:
l'album dura quasi settanta minuti. E uno si chiede: ma possibile che
oggi non è più possibile fare l'album asciutto che dice tutto in tre quarti
d'ora (meglio ancora in quaranta minuti - e la mia mente va a "Rust
in Peace")? Evidentemente no, ma il problema non è il dato artistico (se
ce vojono tutti sti minuti vo' di' che ce vojono), ma quello sociologico:
uno oggi ha tempo per dedicare settanta minuti agli Oranssi Pazuzu? Non dico un
singolo ascolto (quello sì che ci si fa), ma tanti ascolti, tutti quelli che
occorrono per dire "l'album è mio, me ne sono impossessato!". Tanto
più che la proposta dei finnici non è semplice e ovunque si raccomanda
attenzione e dedizione. Concentrarsi su di loro significa tralasciare tante
altre cose (musicali e non), quindi mi chiedo: chi lo fa?
Gli
Oranssi Pazuzu, del resto, sono un gruppo recente in un mondo recente
dove le dinamiche di fruizione della musica son cambiate. Pochi ascolti,
distratti e frammentati ci permettono di intravedere che si tratta di una
grande cosa: questo secondo me è il modo di agire del 98% degli energumeni che
si definiscono loro conoscitori. Il rimanente 2% è spartito fra studenti fuori
corso che studiano con la loro musica di sottofondo (con esiti di rendimento
disastrosi) ed agenti di commercio che passano molte ore in macchina e possono
ascoltare l'album nella loro interezza (ma con il colpo di sonno, platano
compreso, dietro ogni curva). Del resto oggi fa molto più figo ascoltare gruppi
come questo che gli onesti parrucconi di una volta…
Il
fatto (e questa è la nostra arrogante opinione) è che “Värähtelijä” è un album
finto-ostico perché al di là della elevata durata dei brani e lo
scheletro black metal che li muove, le sonorità esplorare dai cinque finlandesi
di ermetico ed ostico hanno davvero poco, a meno che per voi siano ermetici ed
ostici gli Hawkwind, a cui i Nostri guardano con una certa frequenza.
Gli
Oranssi Pazuzu sono infatti protagonisti di una collaudata formula che vede
flirtare black metal e rock psichedelico, un flusso di suoni allucinogeni
che, al classico montare delle chitarre in modalità post-rock, preferisce la
dilatazione dei suoni e l'abbandono a fumose strutture ricorsive. C'è quindi in
questa musica la lascivia pinkfloydiana, le atmosfere siderali dello space-rock,
passaggi più costruiti degni del kraut-rock più subdolo, l'alienazione
reiterata degli Swans, il tutto rafforzato da un riffing pastoso
in stile stoner e da quella rarefazione sonora che si sposa bene con le
evoluzioni ultime del black metal. Un black metal decisamente presente, nella
voce di Jun-His, nelle chitarre sfrigolanti, in diverse robuste
accelerazioni che non ci saremmo aspettati in un contesto così
"liquido".
Di
complicato però non c'è molto per chi mastica le sonorità post- del terzo
millennio (anzi, mi vien da pensare che l'unico gruppo oggi davvero
complicato, per cui vale la famosa frase "si rendono necessari ripetuti
ascolti per capire ed apprezzare adeguatamente", siano i Meshuggah).
Sotto l'egida del Demone Arancione, invece, tutto scorre alla
meraviglia: la sezione ritmica, sempre presente, detta i tempi con
scorrevolezza, precludendo ogni possibile deriva verso i territori (quelli si,
ostici per davvero) drone & ambient. Le chitarre fantasiose si muovono con
disinvoltura sia nei riff belli grassi sabbathiani dalla forte
fascinazione seventies, sia nei momenti in cui si fanno tese ed affilate
per inseguire le sparate improvvise della batteria. Un bell'uso degli effetti, il
magico volteggiare di un organo hammond gettano balsamo sulle poche
ferite che questa musica può procurare all'ascoltatore. La voce, usata con
parsimonia, è uno screaming secco e deciso (una buona notizia: avremmo
sofferto ben di più se ci fossimo imbattuti nei vocalizzi eterei e lontani di
un ubriaco) e riconduce il tutto, senza indugi, alla costellazione del
post-black metal (in particolare a quello di scuola americana, con Wolves in the Throne Room e Leviathan come riferimenti più evidenti).
Un mix
di elementi, questo, innovativo solo nella forma, perché nella sostanza
ripercorre esperimenti in atto già da anni (basti pensare ai nostri Ufomammut),
fornendo solo nuove sfumature a quell'universo post- che scaturì dal big
bang neurosiano (un bel po' di anni fa).
Del
resto oggi si procede a piccoli passi, e gli Oranssi Pazuzu ne fanno un altro,
dimostrando cultura musicale, ampiezza di vedute, idee chiare, gusto, coerenza
e capacità di trasmettere calore. Insomma, tutte caratteristiche che son
tipiche del metal di ultima generazione.
Se
mi chiedete se questi ragazzi hanno una marcia in più, vi rispondo di
sì, perché creano un bell'amalgama dove le varie componenti si sposano alla
perfezione in una dialettica vincente fra scorrevolezza e l’evento
imprevisto: un modus operandi che fa sì che il livello di attenzione
dell'ascoltatore rimanga sempre alto. Perché possono succedere molte cose in “Värähtelijä”
e il Demone Arancione sarà il miglior Caronte possibile, il più titolato
e competente per traghettarvi fra i miasmi allucinogeni di queste paludi
nere. Accomodatevi, prego.