“40:51":
con questi numeri potrebbe essere riassunta l'intera recensione di "Fires
Within Fires", ultimo parto dei leggendari Neurosis.
Il
vero dato stupefacente dell'ultima (non più stupefacente) fatica discografica
di Steve Von Till, Scott Kelly & compagnia è proprio la sua
durata, che, ai tempi d'oro (i Nostri ci hanno abituato a lavori piuttosto
lunghi) poteva essere quella di un EP.
Io
in questa scelta ci vedo serenità, e, più in generale, mi pare che fra
la tribù dell'Oakland e i suoi fan, a questo giro, tiri aria di
riconciliazione, dopo la mezza delusione del precedente "Honour Found in
Decay", del 2012 (oggi comunque oggetto di parziale rivalutazione).
Questo perché le aspettative si sono giustamente abbassate nei confronti di una
band che soffia quest'anno su trenta candeline.
Cosa
pretendere ancora da chi ha sfornato almeno una mezza dozzina di capolavori,
intrapreso un percorso di crescita strabiliante, ci ha sistematicamente stupito
ad ogni uscita (almeno fino a tre uscite fa...), inventando di fatto un genere
nuovo (il post-hardcore) e cambiato i connotati del volto del metal
degli anni duemila? L'impressione è che nel metal oggi si stia tornando ad una concezione
meno isterica del cambiamento, sia per quanto riguarda gli artisti che i fan.
Vedo che in giro ci si inizia ad accontentare, o meglio, a non pretendere
l'impossibile.
Riporto
l'esempio dei Meshuggah: la loro evoluzione artistica è stata
mirabolante (anch'essi hanno aperto nuove vie e definito un nuovo genere, il djent):
una parabola che ha visto come punti di snodo fondamentali "Destroy
Erase Improve" (1995), "Chaosphere" (1998) e "Nothing"
(2002). Giunti a quel punto, cosa era lecito inventarsi per proseguire con
onore la propria carriera e soddisfare le aspettative dei fan viziati da
uscite sistematicamente superlative? Con "Catch Thirtythree"
(2005) si provò a dare un seguito alla precedente produzione discografica
tentando la via della composizione unica di oltre cinquanta minuti (con l'idea
aggiuntiva di campionare i suoni della batteria). Giocata questa ultima carta,
ai Nostri toccò non solo tornare alla formula dell'album classico, ma anche e
soprattutto stabilizzarsi dal punto di vista stilistico, giocando sulle
sfumature e muovendosi per passetti laterali. "ObZen" (2008) non
fu stupefacente, come del resto non lo fu il successivo "Koloss" (2012),
ed infatti si levò un coro di muggiti e mugugni di perplessità perché i
Meshuggah si riproponevano uguali a se stessi, sebbene ovviamente nessuno
potesse mettere in dubbio la professionalità e l'integrità artistica di quegli
straordinari musicisti. Ma in modo sotterraneo il valore di questi due album si
è rivelato nel tempo, preparando il terreno ad una sorta di sostrato
psico-emotivo favorevole a questo ordine di cose. Ed oggi giustamente si grida
al capolavoro con "The Violent Sleep of Reason", che continua
a muoversi sulle medesime coordinate dei due predecessori. Paradosso? No,
la soluzione dell'enigma è la seguente: i Meshuggah sono sempre gli stessi, è
la gente semmai che, dopo la fase della rassegnazione, è passata a quella
dell'accettazione, che da un punto di vista psicologico significa che non vi
sono più pregiudizi nella fruizione dell’opera.
Una
cosa simile sembra essere accaduta ai Neurosis. Del resto, sinceramente parlando,
ma che dovevano ancora aspettarci da questi poveri cristi? Dopo "Times
of Grace" (1999) potevano accontentarsi di fare lo stesso album per il
resto della vita, ed invece ebbero l'ispirazione per concepire un’opera di
“rottura” come "A Sun that Never Sets" (2001). Ragazzi, non è
da tutti imbracciare le chitarre acustiche, buttarci un violino sopra e
macchiare il post-hardcore (la cosa più elettrica che ci sia) con il folk! Non
paghi, svoltarono verso l'elettronica oscura (secondo me ridefinirono il gothic)
con la sacerdotessa Jarboe (“Neurosis & Jarboe”, del 2003, fu
tutt'altro che un episodio secondario nella loro discografia) e poi sublimarono
il tutto in "The Eye of Every Storm" (2004) dove il post-metal
del Nostri veniva ulteriormente rivisitato, espanso in direzione psichedelica
da un lato, ricondotto al cantautorato tout court dall’altro. A
questo punto l'unica via d'uscita era il country, ma per quello c’erano già i
lavori soliti di Von Till e Kelly. Pertanto si è rimasti dove si era,
"lavorando di lima", sostanzialmente a recitare se stessi, forse più
stanchi, sicuramente più vecchi, ma onesti.
Come
accade anche nelle migliori coppie, l'amore sbiadisce per divenire affetto e
stima reciproca, così nell'arte bisogna essere comprensivi e pazienti,
soprattutto nel metal, dove occorrono energia, forza e corde vocali. Quaranta
minuti, amici Neurosis, ci vanno oggi più che bene, non ci interessa che
allunghiate il brodo, e il fatto che non lo facciate, vi fa onore. È facile
divenire schiavi della propria immagine, specchio delle aspettative degli
altri. C'è chi risponde con referenza e sudditanza, chi con arroganza ed
isteria, ma i Neurosis dimostrano equilibrio e saggezza anche in questo.
È
gente di cinquant'anni, gente che ha dato tanto, e per troppo tempo, rispetto a
chi, con due album fatti bene, ci ha impostato una carriera; è gente che tiene
famiglia, figli, gente che probabilmente oggi si sente a più agio con una
chitarra classica in mano. Ma la grandezza rimane, l'amore per i Black
Sabbath e la forte spiritualità pure: quanto cuore (seppur un cuore
secco e stanco) in queste cinque composizioni dove tutti gli ingredienti di
trent'anni di carriera si mischiano e rimodellano in una sorta di blues per
pachidermi. Riff imponenti, dissonanze, arpeggi elettrificati, le
rifiniture dell'elettronica ambientale, la classica alternanza di voci, con un
Von Till in grande spolvero nel ruolo del crooner derelitto, sopratutto
nella parte finale dell'album (si guardi per esempio all'incipit della
conclusiva "Reach", che, dissolte le distorsioni del brano
precedente, si fa largo con passo incalzante, quasi dark-wave, e con un arpeggio
sporco a sostenere il canto ispirato di un Von Till da lacrime, molto molto
vicino al miglior Mark Lanegan - a parere di chi scrive, il momento top
dell'album).
Le
stesse "esplosioni neurotiche" suonano più dimesse, assestandosi su
un rifferama sabbathiano dai risvolti simil-stoner: i Nostri non
cercano il colpo di scena, ma procedono con fare riflessivo e raccolgono in
modo intelligente tutto quello che era possibile drenare da una ispirazione
fisiologicamente calante ed attentata dalla vecchiaia, racimolando quaranta
minuti asciutti, tonici, senza eccessive dispersioni (sebbene il post-hardcore
sia il genere dispersivo per eccellenza): un insieme di cose controllato da una
mente lucida e da una mano altrettanto ferma.
Sonorità
che guardano quasi al noise-rock di inizio nineties, con strumenti vivi,
elettricità viva, feedback di chitarra, rimbombar di basso, raucedine
che sputa placche sui microfoni, e batteria, piatti veri: Albini, oggi
più che mai, lo vedo indispensabile ad ammaestrare e conferire ulteriore
coesione e calore a questi suoni rozzi e sinceri, animati, più che dal fuoco di
una insopprimibile urgenza comunicativa, dalla saggezza degli avi.
Contadini
che si svegliano all'alba e vanno a letto al tramonto, dopo una giornata di
duro lavoro, un pasto frugale ed una buona bottiglia di vino: questi sono i Neurosis
del 2016, gente che non ha più voglia di cazzate.
Se
gli Isis, che appartenevano ad una generazione successiva, forse più
nichilista, per superare l'empasse dovettero suicidarsi, i contadini
Neurosis, nonostante la schiena rotta dalla fatica per il duro lavoro, non
contemplano la morte come possibile via d'uscita: alla stregua del protagonista
de "L'alba dei morti viventi" (quello ambientato nel centro
commerciale), che sul punto di spararsi in testa per sfuggire al contagio degli
zombie, decide all'ultimo di allontanare la canna della pistola dalla
tempia e tentare la fuga, scegliendo così la vita e la lotta per la vita, allo
stesso modo i Neurosis si guardano dentro e proseguono il loro cammino
consapevoli dei loro limiti, consapevoli che non possono cambiare il mondo
ancora una volta.
E a
noi sta bene tutto questo, apprezzando il fatto che l'umiltà di chiudere
un album in quaranta minuti è oggi una cosa rara. Bene che lo facciano i
maestri: speriamo sia di esempio a tanti.